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1.4 Le politiche pubbliche come politiche sociali

1.4.1 Le politiche sociali: riferimenti teorici e spunti interpretativi

L’insieme delle politiche sociali definito “stato del benessere”, o welfare state, rappresenta «una realtà di antica data se lo si considera come lo sforzo compiuto da uno Stato per modificare le condizioni del mercato e per assicurare protezione a chi potrebbe venir colpito dagli effetti economici e sociali prodotti da quest’ultimo»83. Le politiche di

welfare costituiscono dei provvedimenti pubblici che, intervengono per arginare i rischi

e salvaguardare il benessere di gruppi di cittadini, con l’obiettivo di modificare in senso desiderato la condizione e il comportamento dei destinatari84.

Le politiche sociali costituiscono una serie di azioni, gestite per il benessere e la sicurezza sociale, che sono il risultato di intrecci complessi fra attori e di articolati interventi pubblici. Rifacendosi a Borzaga e Fazzi, le politiche sociali sono azioni finalizzate principalmente a produrre benessere e tutela sociale. Il welfare, è il risultato storico dell’azione congiunta di più attori e non è mai l’esito del contributo esclusivo di uno di essi. Anche nelle fasi di maggior sviluppo storico del welfare state, è estremamente difficile stabilire se il contributo più significativo al benessere e alla tutela delle persone sia stato fornito ad esempio dallo Stato o dalla famiglia o dalle reti di aiuto primarie85. Seguendo la chiave di lettura dei due autori, esistono, infatti, degli attori dalla cui relazione e interazione, complementarietà e competizione, si determina il benessere e i livelli di tutela e sicurezza sociale. Questi attori sono: lo Stato, il quale ha lo scopo di attenuare o risolvere problematiche della società, limitando se necessario, l’azione degli altri attori, in particolare del mercato; la famiglia, intesa come l’istituzione collettiva minima, nella quale avvengono i trasferimenti finalizzati ad assicurare ad ogni componente un certo benessere; il mercato, inteso come l’istituzione sociale attraverso cui vengono volontariamente prodotti e scambiati beni e servizi sulla base di prezzi stabiliti generalmente in termini monetari. Esso, produce quello che i consumatori sono in grado di sfruttare, di venderlo al prezzo che massimizza il benessere di ognuno e di tutti (benessere sociale) e di distribuire le risorse (beni e servizi prodotti) in maniera efficiente (cioè assegnando un bene a chi lo valuta

83 Room G., The Sociology of Welfare: Social Policy, Stratification and Political Order, Martin Robertson, 1979, citato in Mèny Y., Thoenig J.C., op. cit., p. 23.

84 Guerzoni L. (a cura di), La riforma del welfare: dieci anni dopo la «Commissione Onofri», il Mulino, 2008.

maggiormente); il Terzo Settore, le cui attività normalmente si concentrano in ambiti che influenzano la qualità della vita sociale di una collettività. Le organizzazioni di Terzo Settore, infatti, possono svolgere attività come: promozione dei diritti a tutela di gruppi di individui, redistribuzione di risorse fra individui o gruppi, produzione di beni e servizi di interesse collettivo in forma autonoma o per conto della pubblica amministrazione. Questa impostazione, si discosta dalla considerazione che intende le politiche sociali come essenzialmente derivanti da interventi ideati e realizzati da un unico soggetto che ne ha l’autorità: lo Stato o la pubblica amministrazione86.

Il sistema di relazioni, formali e non, in cui nasce e si sviluppa una politica sociale è chiamato regime di welfare nel quale lo Stato svolge un ruolo dominante all’interno del sistema di relazioni, essendo il contenitore di tutti i processi di produzione di benessere, formali e non formali, pubblici e non pubblici. Dipendentemente dal ruolo dello Stato nelle politiche e dalla partecipazione dei tre tipi di attori, Titmuss, nelle sue lezioni di politica sociale pubblicate postume nel 1974, opera una distinzione tra due modelli di

welfare state, poi ripresa da diversi autori: il modello “residuale”, nel quale lo Stato

interviene solo in ultima istanza, e quello “istituzionale”, nel quale esso fornisce prestazioni indipendenti dal mercato e offerte in base al principio di “puro bisogno”87. In effetti, a partire dai modelli inizialmente proposti da Titmuss, si è approdati nell’articolazione di Esping-Andersen88, dei tre regimi di welfare, ossia tre tipologie di integrazione in cui possono essere socializzati i rischi: regime liberale, conservatore- corporativo, socialdemocratico. Il primo, appartenente a Paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Australia e Canada, è caratterizzato da prestazioni poco generose, per le quali è necessaria la prova dei mezzi e vede come destinatari principali i poveri, gli indigenti e i lavoratori con un basso reddito e per questo definito anche come “residuale”. Un ruolo importante in questo regime è assunto dalle politiche attive del lavoro e da schemi che permettono di usufruire del beneficio in base al possesso di un’occupazione regolare. Il

welfare in questo senso incoraggia il mercato e tende a garantire l’inclusione sociale per

86 Hill rientra nel filone di autori secondo cui studiare la politica sociale, significa analizzare ciò che lo Stato fa per il benessere dei cittadini. Si veda a questo proposito Hill M., Le politiche sociali: un’analisi

comparata, il Mulino, 1999 (edizione originale: Hill M., Social Policy: A comparative analysis, Harvester

Wheatsheaf, 1996).

87 Paci M., La famiglia e i sistemi di welfare nell’economia dei servizi, in Regini M., La sociologia

economica contemporanea, Laterza, 2007.

88 Esping Andersen G., Three worlds of welfare capitalism, Polity Press, 1990, citato in Ferrera M.,

chi ha perso l’autosufficienza. Il secondo modello di welfare, definito conservatore- corporativo, appartenente ai Paesi dell’Europa continentale, garantisce schemi di protezione sociale, in base alla posizione occupazionale e protegge i lavoratori e la sua famiglia dai rischi di malattia, invalidità, disoccupazione e vecchiaia. Lo stato interviene con trasferimenti alla famiglia, quando la capacità di quest’ultima di sostentare i propri membri, è debole. Il terzo regime di welfare, definito socialdemocratico, appartenente ai Paesi scandinavi e all’Olanda, vede la predominanza di schemi universalistici di sicurezza sociale, con formule generose di cui sono beneficiari tutti i cittadini indipendentemente dalla loro condizione professionale. In tale regime e a differenza degli altri due, c’è un’eguaglianza di trattamento per tutti i cittadini in cui «tutti beneficiano, tutti dipendono, tutti sentono il dovere di contribuire»89. I livelli di spesa per la protezione sociale sono molto alti, proprio perché i benefici, erogati in somma fissa, vengono automaticamente distribuiti al presentarsi dei vari rischi.

Alcuni studi sui modelli di welfare a livello internazionale hanno contribuito alla nascita, intorno agli anni ‘90 di un dibattito sociologico e politologico sull’esistenza di modello mediterraneo di welfare, sulle sue caratteristiche e sulla possibilità o di identificarlo come modello autonomo rispetto alla classificazione di Esping Andersen, o di riconoscerlo come una sub categoria del modello corporativo continentale90. Ci sono delle specificità appartenenti ai Paesi dell’Europa mediterranea, che fanno pensare ad un modello indipendente dagli altri tre. Per Leibfried i Paesi del mezzogiorno europeo fanno parte di un gruppo latino che è caratterizzato da una struttura economica debole a causa delle perduranti conseguenze del tardivo avvio del processo di industrializzazione, del ruolo centrale della famiglia tradizionale, che di fatto supplisce alla carenza dell’offerta pubblica di welfare, della significativa influenza della Chiesa Cattolica, e da un evidente ritardo per ciò che concerne la costruzione di un moderno sistema di protezione sociale91. Ferrera sostiene, a questo proposito, che Spagna, Portogallo, Italia e Grecia, presentano in comune, da un lato, l’universalità del servizio sanitario e la frammentazione del sistema di mantenimento del reddito, con elevata

89 Ferrera M., op.cit., 2006, p. 41.

90 Katrougalos G. S., The south European Welfare Model: the Greek Welfare State in Search of an

Identity, in «Journal of European Social Policy», Vol. 6, n.1, 1996, citato in Borzaga C., Fazzi L., op. cit.

91 Leibfried S., Towards a european Welfare State? On integrating Poverty Regimes into the european

Community, citato in Ferge Z., Kolberg J.E., Social Policies in a changing Europe, Campus Verlag, 1992,

disparità di trattamento a seconda dei beneficiari, e dall’altro, una modesta presenza dello Stato come attore del welfare in settori come la sanità e i servizi sociali, nei quali c’è la compresenza di attori pubblici e privati, profit e no profit92. Inoltre, nel modello di

welfare di questi Paesi, «il lavoro sommerso, i favoritismi, le logiche politico-

clientelari, non hanno dato vita ad un patto sociale, così come si è verificato nei paesi nordici. Le culture nazionali sono dunque favorevoli ad ottenere protezione sociale, ma molto meno a partecipare ad una redistribuzione più equa delle risorse e delle misure di protezione sociale»93. Dato che i sistemi di politica sociale in questo gruppo di Paesi non sono mai riusciti a garantire il pieno impiego e dal momento che si registra l’esistenza di ampie fasce di popolazione non coperte dai rischi di povertà ed esclusione sociale, tra i principali problemi che questi sistemi nazionali sono portati ad affrontare c’è quello di ridefinire i criteri di ripartizione delle risorse a seguito dell’eccessivo scompenso negli equilibri sociali e territoriali, incentivando i cittadini alla partecipazione attiva al mercato del lavoro e alla contribuzione fiscale94.

L’Italia viene inclusa, con Spagna, Portogallo e Grecia, tra i paesi in cui vi è un modello di welfare solitamente indicato come meridionale o mediterraneo; soprattutto in Italia il sistema di welfare è la conseguenza sia di leggi frammentate che hanno permesso l’originarsi di politiche sociali molto differenti nello stesso territorio nazionale, sia di benefici diversificati per alcuni gruppi di cittadini95.