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Capitolo 1: L’Advocacy Coalition Framework

2.2 Le politiche di cittadinanza

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I due principi che storicamente sono stati utilizzati per determinare la cittadinanza sono stati lo ius sanguinis e lo ius soli. Il primo definisce un’appartenenza del cittadino allo Stato sulla base di legami etnici o famigliari, assegnando priorità al fatto di nascere da un

cives. Il secondo definisce la cittadinanza come una conseguenza della nascita in un

determinato ordinamento giuridico, assegnando quindi priorità al fatto di nascere nella

civitas. Il principio del sangue rimanda generalmente a una tradizione monarchico-liberale

ed escludente, mentre il principio del suolo a una tradizione repubblicano-democratica e inclusiva. I criteri per ottenere la cittadinanza furono inseriti nelle costituzioni dello Stato con le rivoluzioni di fine Settecento, per passare successivamente ai codici civili fino alla crisi degli Stati liberali e al successivo inserimento della materia in appositi strumenti legislativi (Bscherini,2019).

Se da una parte è utile evidenziare i principi di fondo delle diverse concezioni della cittadinanza, è però necessario comprendere che nella realtà applicativa non sussiste questa rigida polarizzazione. Se adottiamo una interpretazione della cittadinanza che evidenzi la sua funzione di disciplinamento a seconda delle effettive esigenze che uno Stato si trova ad affrontare, la rigida dicotomia tra i due principi si assottiglia notevolmente, e spesso i due criteri sono usati contemporaneamente. Ne deriva che sangue e suolo danno luogo a canoni più che a modelli (ibidem). A proposito delle esigenze pratiche dello Stato, le dinamiche migratorie, a partire dalla fine dell’Ottocento, assumeranno un rilievo centrale.

Pur essendo il nostro interesse incentrato sulla riforma non avvenuta della cittadinanz rispetto a quanto previsto dalla legge del 1992, che per ultima ha regolato la materia, è utile ripercorrere brevemente anche le tappe più lontane della policy, dal momento che hanno direttamente influenzato la stessa legge del 1992, rappresentando un’eredità durissima a morire. La cittadinanza dell’appena unificato Stato italiano veniva disciplinata nel codice albertino del 1965. Ci interessa notare che il principio adottato era quello dello ius sanguinis, ma che l’inclusione e la partecipazione attiva nello Stato si giocava più sul censo che sulla distinzione cittadino/straniero. Alla fine dell’Ottocento le cose cambiarono, l’emigrazione italiana assumeva carattere di massa e si percepiva la necessità di riformare la cittadinanza per adattarla alle necessità del fenomeno.

Per capire l’entità del fenomeno migratorio italiano si pensi che tra 1876, anno in cui iniziò la rilevazione delle emigrazioni italiane verso l’estero, e il 1976, anno in cui il saldo migratorio si è assestato intorno allo zero e si può quindi ritenere conclusa l’emigrazione italiana di massa intesa come alleggerimento della manodopera eccedente, sono emigrate 26 milioni di persone, di cui approssimativamente solo un terzo ha fatto

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ritorno in patria. Gran parte di questo flusso secolare si è indirizzato verso nazioni che avevano forte bisogno di forza lavoro, ma anche di persone che aumentassero una popolazione esigua in confronto al territorio. Questi Stati, sia extraeuropei sia europei come la Francia, hanno adottato misure che consentissero una rapida inclusione degli italiani nella comunità nazionale. Ciò veniva realizzato facendo uso dello strumento della cittadinanza, attraverso il principio dello ius soli o attraverso un massiccio e disinvolto uso della naturalizzazione (Pastore, 2001).

L’Italia, che per tutto il periodo ha assunto un atteggiamento favorevole quando non passivo nei confronti di un’emigrazione vista come unico rimedio all’esubero di forza lavoro nazionale e come valvola di sfogo di possibili tensioni sociali, ha dovuto contemporaneamente contrapporre alle politiche inclusive degli Stati di destinazione dell’emigrazione italiana una concezione forte della sua cittadinanza. Questo ha creato le condizioni per una permanente situazione di tensione potenziale con questi Stati, a causa di una fondamentale divergenza di impostazione e finalità dello strumento giuridico della cittadinanza (ibidem).

Un caso emblematico fu rappresentato dalla grande naturalizzazione attuata dal Brasile nel 1891. La Costituzione brasiliana sancì che tutti gli stranieri che in quel momento risiedessero sul territorio nazionale diventassero automaticamente cittadini brasiliani a meno che non avessero manifestato, entro sei mesi, la volontà di conservare la propria cittadinanza di origine. L’Italia, che aveva una grossa comunità di cittadini in Brasile, reagì cercando di creare un fronte diplomatico insieme a altri Stati europei, ma la lontananza tra Europa e Sud America, l’ignoranza dei connazionali che lavoravano nelle

fazendas brasiliane e il disinteresse degli emigrati che risiedevano nelle città, avvantaggiati

anzi dall’acquisto della cittadinanza brasiliana, resero vano l’impegno italiano. Divenne chiaro che l’unica strada percorribile era quella intrapresa dalla Germania, che aveva previsto facilitazioni di riacquisto della cittadinanza anche per i discendenti degli emigrati, puntando sulla forza del legame di sangue piuttosto che sulla lotta contro le politiche degli Stati di destinazione dell’emigrazione (ibidem). Diventava inoltre chiara l’inadeguatezza delle norme contenute nel codice albertino e la necessità di introdurre una legge ad hoc, in linea con uno scenario totalmente mutato ma anche con le riforme della cittadinanza che gli altri paesi europei stavano facendo negli stessi anni. Una forte spinta in questo senso venne data dai rappresentanti degli Italiani residenti all’estero, che si riunirono nel loro primo congresso a Roma nel 1908 e approvarono un ordine del giorno che chiedeva

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espressamente una legge organica in cui fossero previste facilitazioni per il riacquisto della cittadinanza.

La discussione parlamentare della riforma, iniziata in Parlamento nel 1911, evidenziava chiaramente uno dei nodi principali: da una parte si chiedeva agli emigrati una piena integrazione nel tessuto sociale dello Stato in cui si trovavano, dall’altra si chiedeva che il legame con l’Italia non venisse sciolto del tutto, così da poter continuare a contare sulle rimesse e su una lobby italiana nelle varie nazioni di destinazione del flusso italiano (ibidem). Queste esigenze furono tradotte nella legge sulla cittadinanza del 1912. La legge stabiliva che la cittadinanza italiana, trasmessa con il principio dello ius sanguinis, si perdesse solo con un atto volontario. Era eliminata quindi la rigidità del codice del 1865 che ne prevedeva la perdita all’acquisto di una cittadinanza straniera. Veniva quindi introdotta, anche se non esplicitamente, la possibilità della doppia cittadinanza. Se il figlio di un emigrato italiano era considerato per nascita, al di fuori della sua volontà, cittadino dello Stato in cui viveva, conservava comunque anche la cittadinanza italiana a meno che non ne facesse espressa rinuncia alla maggiore età. Inoltre, coloro che perdevano la cittadinanza italiana perche spontaneamente sceglievano un’altra cittadinanza, potevano riacquistare quella italiana tornando in patria e risiedendovi per due anni, con un meccanismo automatico. Anche lo ius soli era previsto in ipotesi residuali, nel caso di soggetti che prestavano la leva o erano impiegati in pubblici uffici, unitamente a manifestazione di volontà e residenza decennale. La naturalizzazione era affidata alla discrezionalità dell’esecutivo, che poteva concederla con decreto reale anche a soggetti residenti da 5 anni sul territorio nazionale.

In definitiva, la legge del 1912 sanciva la natura estremamente persistente del vincolo di cittadinanza tramandato per via ereditaria e allo stesso tempo operava un oggettivo depotenziamento di questo vincolo. Se infatti da un punto di vista simbolico la cittadinanza acquistava un forte valore, da un punto di vista pratico veniva meno l’effettivo collegamento tra il cittadino all’estero e l’ordinamento giuridico italiano. La legge appariva quindi un compromesso discutibile sotto il profilo del rigore politico e concettuale, ma sopravvisse al Fascismo e al dibattito dell’Assemblea costituente.

La Costituzione si limitò a sancire, all’art.22, che nessuno poteva essere privato della cittadinanza sulla base di motivi politici, un aspetto molto sentito vista l’esperienza del Fascismo, ma lasciò al legislatore ordinario la modifica della legge di cittadinanza. Sebbene alcuni membri dell’Assemblea avessero palesemente auspicato l’intervento del legislatore sul tema, nessuna riforma si concretizzò nel breve periodo (Bascherini,2019).

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L’esigenza di modificare la legge del 1912 era sentita per il fatto che l’emigrazione transoceanica era ripresa e si concretizzavano problemi pratici di doppia cittadinanza dal momento che i paesi americani erano saldamente improntati al principio dello ius soli. Uno dei problemi pratici era quello del cumulo degli obblighi militari. Da questo punto di vista il problema venne risolto dall’Italia solo bilateralmente con l’Argentina con un trattato del 1971. Il trattato si basava sul criterio della residenza per stabilire a quali diritti e doveri un soggetto dotato di doppia cittadinanza dovesse attenersi e sulla conseguente sospensione dei diritti e doveri collegati alla cittadinanza dello Stato in cui il cittadino non risiedeva (Ibidem).

Dopo tanta attesa e con numerose iniziative legislative fallite, la riforma organica della cittadinanza arrivò nel 1992, a fine legislatura, al termine di un iter parlamentare lungo ma dalla discussione poco approfondita, e per dare un segnale forte alla comunità di emigrati italiani all’estero, senza tenere conto di una dinamica migratoria che nel frattempo era profondamente mutata. Se infatti già a metà degli anni Settanta gli arrivi avevano superato le partenze, fu proprio agli inizi degli anni Novanta che l’Italia scopriva di essere diventato un paese di immigrazione (ibidem).

La legge del 1992 andava quindi nella stessa direzione della legge del 1912, e anzi la rafforzava, continuando ad interpretare la cittadinanza come un legame persistente che si tramanda e non si estingue se non per scelta individuale (Pastore, 2001). La possibile tensione che questa interpretazione poteva creare nei paesi di destinazione dell’emigrazione italiana veniva inoltre superata stabilendo questa volta in maniera esplicita la possibilità della doppia cittadinanza, distruggendo di fatto il dogma dell’unicità della cittadinanza. Un cittadino italiano, anche naturalizzato ad esempio americano, conserva la cittadinanza italiana. Oltre a ciò venivano moltiplicate le opportunità di riacquisto della cittadinanza da parte degli emigrati e dei loro discendenti: la naturalizzazione degli stranieri discendenti fino al secondo grado in linea retta da italiani veniva subordinata alla residenza per un periodo di soli tre anni in Italia ed era inoltre prevista la possibilità temporanea di riacquisto per coloro che l’avevano persa con la legge del 1912 a causa della naturalizzazione in un paese straniero (ibidem).

Pur mancando rilevazioni ad hoc sul numero preciso di coloro che hanno beneficiato del riacquisto o dell’acquisto ex novo, si può affermare che dopo un primo massiccio riacquisto da parte di coloro che l’avevano persa per naturalizzazione, durante gli anni Novanta non furono moltissimi coloro che approfittarono della legge, dal momento che il Sud America stava vivendo una congiuntura economica positiva che non incentivava

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il riacquisto della cittadinanza come trampolino per un’emigrazione di ritorno in Italia (ibidem). Un caso contrario ed emblematico è rappresentato dall’Argentina, dove a causa della dura crisi economica iniziata a fine secolo, le domande di riacquisto della cittadinanza sono aumentate fino a più di 30.0000 nel 2001.

Se da un lato lo ius sanguinis veniva confermato e rafforzato rispetto alla legge del 1912, dall’altro la normativa inerente lo ius soli e i criteri per la naturalizzazione mutava in maniera più restrittiva. I figli di immigrati nati nel territorio italiano potevano e possono infatti ottenere la cittadinanza italiana con una residenza legale ininterrotta fino alla maggiore età e una dichiarazione di volontà sull’acquisto della cittadinanza. Per quando riguarda invece la naturalizzazione, se per gli stranieri comunitari veniva ridotto da 5 a 4 anni il requisito di residenza necessario, per i non-comunitari la normativa estendeva il requisito dai 5 anni previsti dalla legge del 1912 agli attuali 10 anni, con un procedimento non automatico ma che presuppone, oltre alla residenza ininterrotta, il rispetto di indicatori socio-economici di integrazione e la decisione ultima, e discrezionale, dell’amministrazione italiana.

Da questo punto di vista la legge del 1992 appare come un grande salto all’indietro rispetto alle esigenze totalmente mutate del contesto migratorio italiano (Zincone, Pennix e Borkert, 2011), una legge che ha creato un grosso scarto tra forma e sostanza dell’appartenenza, cioè tra coloro che pur non avendo alcun legame con l’Italia ne sono tuttavia cittadini e coloro che non lo sono, pur avendo nella sostanza ogni tipo di legame (Bascherini, 2019). Il dibattito su questo aspetto nelle sedi politiche e in quella parlamentare, così come nella società civile, fu scarso o assente, la discussione sulla legge nel complesso fu miope e frettolosa e si creò una sorta di intesa tra partiti apertamente contrari alla cittadinanza per gli immigrati e partiti progressisti che, pur non essendo contrari a questa, non erano intenzionati a dare battaglia su questo punto (Pastore, 2001). A dimostrazione di ciò, il testo della legge fu approvato all’unanimità in Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati nella seduta del 14 gennaio 1992.

La legge del 1992 era comunque il risultato conclusivo di progetti di riforma della cittadinanza che erano stati concepiti a partire dagli anni Sessanta in uno scenario totalmente diverso. Sebbene il dibattito non fosse stato acceso, molti membri progressisti del Parlamento si rendevano conto che la legge era fuori tempo. I fattori che Zincone (Zincone, Pennix e Borkert, 2011) annovera tra quelli che ritardarono l’approvazione dei progetti ideati dagli anni Sessanta, sono il susseguirsi di congiunture economiche negative

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e l’instabilità governativa italiana che conta ben 32 governi tra il primo disegno di legge sulla cittadinanza del 1960 e l’approvazione della legge del 1992.

Uno degli effetti della modifica delle norme sulla naturalizzazione, resa più difficile per i non comunitari ma più facile per gli stranieri comunitari e per gli ex italiani, fu quello di creare una differenziazione di accesso alla cittadinanza in base alla provenienza e alla discendenza. Inoltre, data la relativa facilità di acquisto della cittadinanza tramite matrimonio, è aumentato considerevolmente il fenomeno dei matrimoni fittizi.

L’atteggiamento di sostanziale chiusura per la cittadinanza ai cittadini stranieri è proseguito anche negli anni dei governi di centro-sinistra dal 1996 al 2001, la XIII legislatura. Inizialmente, nel disegno di legge originario della Turco-Napolitano del 1998 era prevista l’estensione del diritto politico di voto locale, di cui godevano gli stranieri comunitari, anche agli stranieri non comunitari in possesso della carta di soggiorno istituita con la stessa legge, andando quindi a configurare una sorta di cittadinanza locale. Ma resistenze nella stessa maggioranza di centro-sinistra, unite alla fretta di portare a termine la riforma del 1998, fecero decadere l’iniziativa e nessuna nuova proposta in questo senso riapparve nel corso della legislatura. Nel settembre del 1998 il governo aveva però dato alla Commissione per le politiche di integrazione il compito di valutare le piste per una apertura del diritto di cittadinanza e i risultati vennero presentati durante un convegno a Roma nel febbraio 1999. La Commissione sosteneva la necessità di facilitare l’acquisizione della cittadinanza per gli stranieri nati in Italia, per esempio riducendo il tempo di residenza legale necessario per farne domanda al raggiungimento della maggiore età. Anche in tema di naturalizzazione proponeva una diminuzione dei tempi di residenza da 10 anni a 5 o quantomeno 7 e una semplificazione delle procedure. Nonostante un convinto sostegno da parte di Rosa Russo Jervolino, Ministro dell’Interno, e Livia Turco, ministro per la Solidarietà sociale, nessun disegno di legge fu presentato durante la legislatura. Ancora una volta lo slancio riformista della sinistra veniva frenato da altre emergenze e dalla preoccupazione per l’appuntamento elettorale (Pastore, 2001).

La XIV legislatura, con i governi Berlusconi II e Berlusconi III, si è caratterizzata per la riforma del 2002 alla legge Turco-Napolitano del 1998. Le modifiche approvate, che in generale hanno reso più instabile la condizione amministrativa dello straniero regolare, hanno causato una maggiore difficoltà di maturazione del tempo di residenza necessario alla naturalizzazione (Pastore 2001, p.29, Bascherini, 2019)

Durante la campagna elettorale che lo ha portato alla vittoria di misura alle elezioni del 2006, il centro-sinistra ha promesso una riforma della nazionalità, che ha dato vita al

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disegno di legge presentato da Giuliano Amato, ministro dell’Interno. Il disegno di legge rispecchiava la proposta elaborata nel 1999, proponeva di ridurre a 5 anni la residenza legale necessaria per maturare la naturalizzazione ma allo stesso tempo proponeva il rafforzamento dei requisiti di integrazione e lealtà da dimostrare ai fini dell’accesso alla cittadinanza. Era quindi espressione di una politica bilanciata, finalizzata alla ricerca di consensi nello schieramento del centro-destra, che però si opponeva per guadagnare consensi e rafforzando l’alleanza tra Berlusconi e la Lega Nord, su posizioni fortemente contrarie agli immigrati (Zincone, 2010a). La prematura fine della legislatura nel 2008 interruppe naturalmente anche il disegno di legge Amato.

La XVI legislatura, con la maggioranza composta da Pdl e Lega Nord ma priva dell’Udc e quindi meno influenzabile dall’associazionismo cattolico, presentò la grande peculiarità della proposta di riforma bipartisan Sarubbi (Pdl, omponente finiana)- Granata(Pd). La proposta, che prevedeva la riduzione a 5 anni dei tempi per la naturalizzazione, era inaspettata dal momento che partiva da una maggioranza che come strategia generale in tema migratorio puntava a una repressione della criminalità, a un controllo dei flussi e a un generale inasprimento dei diritti per i lungo-residenti, ma era spiegabile inquadrandola nella già ricordata strategia di Massimo Fini di posizionare se stesso e il Pdl su posizioni più centrali dello spettro politico, distanziandolo da una Lega Nord ostile agli immigrati e islamofoba (Zincone, Pennix e Borkert, 2011).

Nonostante la maggioranza nella maggioranza, e la Lega Nord in blocco, rifiutasse la proposta Sarubbi-Granata, lo scontrò che si verificò questa volta non solo tra centro- destra e centro-sinistra, ma anche nella maggioranza stessa e all’interno del Pdl, portarono il tema della nazionalità ad essere per la prima volta una hot political issue (Zincone, 2010a). La polarizzazione che il tema assunse portò all’adozione da parte di alcune forze politiche di frames e di un conseguente story-telling che iniziavano a semplificare e banalizzare il dibattito, una caratteristica protrattasi, come vedremo, anche successivamente. Ad esempio, in occasione degli scontri di Rosarno Calabro, Calderoli, ministro della Lega Nord, approfittò per sostenere che sarebbe stato un problema se agli immigrati fosse garantito un accesso facile alla cittadinanza, senza tenere in considerazione che nessuna riforma aveva mai sostenuto la possibilità di accesso alla cittadinanza per gli irregolari (Zincone, 2010a, p. 16).

Per concludere e prima di passare alla discussione della riforma della cittadinanza pensata ma non realizzata durante la XVII legislatura, è utile riassumere l’atteggiamento generale sull’estensione del diritto di cittadinanza fino a qui tenuto delle due maggioranze

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di segno politico opposto. Seguendo l’impostazione di Zincone (Zincone, Pennix e Borkert, 2011), è possibile notare innanzitutto che l’approccio co-entnico è stato condiviso sia dal centro-destra sia dal centro-sinistra. Mentre non sorprende la sua condivisone da parte del centro-destra, per quanto riguarda il centro-sinistra questo atteggiamento si può spiegare con il fatto che gli emigrati italiani erano per lo più lavoratori poveri e disoccupati e sono pensati e ricordati in quanto tali26. Appare invece più complicato spiegare il perché delle posizioni del centro-sinistra sul diritto di cittadinanza agli immigrati, che se in linea di massima sono sempre state favorevoli, non sono però mai state incisive durante i periodi di governo. I motivi sono riconducibili a due tipi di fattori tra loro connessi, che dimostrano la relazione forte della cittadinanza con le politiche di gestione dell’immigrazione. L’advocacy coalition solidarista ha sempre spinto per la garanzia di diritti sociali agli strati più svantaggiati dell’immigrazione e, insieme alla lobby delle associazioni dei datori di lavoro, per le sanatorie e per l’ampliamento dei flussi, mentre l’impegno per i diritti politici e la cittadinanza è stato meno tenace. L’opinione pubblica al contrario ha sempre insistito per misure legalitarie e di riduzione dei flussi, che si sono però dimostrate difficilissime da realizzare per i governi, a causa delle necessità effettive di un sistema economico in cui è forte il peso delle piccole imprese e delle famiglie, entrambe utilizzatrici di lavoro immigrato irregolare, e che ha bisogno di più manodopera importata rispetto a quella prevista nelle quote programmate (Zincone, Pennix e Borkert, 2011;

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