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Il diritto di cittadinanza in Italia: uno studio basato sull'Advocacy Coalition Framework

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea Magistrale in Studi Internazionali

TESI DI LAUREA

Il diritto di cittadinanza in Italia:

uno studio basato sull'Advocacy Coalition Framework

CANDIDATO

RELATORE

Giovanni Evangelisti

Prof. Eugenio Pizzimenti

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Il diritto di cittadinanza in Italia:

uno studio basato sull'Advocacy Coalition Framework

Abstract

Il presente lavoro ha a oggetto l'insieme degli interventi di legge, delle azioni, delle idee implementati, in Italia, in tema di diritto di cittadinanza, adottando la prospettiva dei

policy studies. In particolare, ci concentreremo sulla questione della scelta dei requisiti

necessari per poter diventare cittadini italiani. Attualmente la legislazione in materia di cittadinanza è incentrata sul criterio dello ius sanguinis e nonostante vi siano state varie proposte di modifica, tra cui la più rilevante è il cosiddetto "Ddl Ius Soli", la materia non ha a oggi subito trasformazioni rilevanti dal 1992. L'analisi ha come scopo l'individuazione degli attori che, nel tempo, si sono mostrati favorevoli o contrari alla modifica degli attuali criteri, al fine di fornire un'interpretazione dei motivi per cui la materia non ha subito mutamenti. Il primo capitolo si occupa dell'approccio utilizzato per condurre lo studio, l'Advocacy Coalition Framework. Abbiamo preso in esame le caratteristiche degli studi orientati alle politiche pubbliche e la loro evoluzione fino ad arrivare all'ACF, di cui sono state analizzate le caratteristiche principali e le categorie concettuali più utili per rispondere ai nostri quesiti di partenza. In supporto all'ACF, è stata analizzata e utilizzata la teoria relativa al Framing e ai Frame narrativi.

Il secondo capitolo si concentra sull'individuazione del nesso tra politica migratoria e politica di cittadinanza, in Italia. Della prima sono stati messi in luce i contenuti, prendendo in considerazione le varie fasi attraversate dal nostro paese che è passato alla fine degli anni Settanta da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Successivamente si è passati al diritto di cittadinanza e alle varie fonti legislative che nel tempo lo hanno regolato, fino ad arrivare ai più recenti scenari.

Il terzo capitolo si apre con l'analisi delle elezioni del 2013, che hanno inaugurato la XVII legislatura. Questa legislatura rappresenta il focus della nostra ricerca dal momento che, tra il 2013 e il 2018, si è discusso in Parlamento il "Ddl ius soli". Questo ha rappresentato un tentativo di riforma sostanziale del diritto di cittadinanza, prevedendo l'introduzione di ius soli temperato e ius culturae, da affiancare allo ius sanguinis, ancora prevalente. Il tentativo di riforma ha portato alla luce gli schieramenti di attori favorevoli e contrari a queste modifiche, che di fatto avrebbero allargato i beneficiari della cittadinanza italiana ai minori stranieri nati in Italia o frequentanti le scuole italiane. Il capitolo

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prosegue poi con l'individuazione delle coalizioni di attori in campo. In primo luogo è stato analizzato il dibattito pubblico, attraverso la consultazione dei principali quotidiani italiani. In secondo luogo, è stato analizzato il dibattito parlamentare avvenuto in commissione Affari Costituzionali della Camera e poi in Assemblea. Sono state individuate in questo modo due advocacy coalition tra loro contrapposte: una composta da partiti di sinistra e varie associazioni cattoliche e laiche della società civile, l'altra composta da partiti di centro-destra e di estrema destra.

Il mancato policy change, conseguenza dell'arresto in Senato del "Ddl ius soli", può essere interpretato in relazione a eventi esterni al sottosistema di policy, che hanno influenzato notevolmente l'opinione pubblica e anche il posizionamento di alcuni partiti come il Nuovo Centrodestra. Alleato di governo e sostenitore della riforma alla Camera, il Nuovo Centrodestra ha successivamente rallentato sulle tempistiche di approvazione in Senato. A prevalere e a decidere l'esito del disegno di legge sono stati in definitiva i frame utilizzati dagli avversari della riforma, che etichettandolo come “ius soli” hanno deviato il dibattito dai suoi reali contenuti.

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Indice

Introduzione ... 6

Capitolo 1: L’Advocacy Coalition Framework ... 7

1.1 Studiare le politiche pubbliche ... 7

1.2 L’evoluzione dei policy studies ... 10

1.3 L’Advocacy Coalition Framework ... 15

1.3.1 Gli assunti di base ... 17

1.3.2 Gli attori... 19

1.3.3 Le categorie concettuali generali e le relazioni tra variabili .... 21

1.3.4 Il Policy Change ... 23

1.3.5 Le Advocacy Coalition ... 26

1.3.6 Il Policy oriented learning ... 29

1.4 Le ricerche ... 32

1.4.1 Argomenti di ricerca ... 34

1.5 Framing e frame ... 37

Capitolo 2: Migrazioni e Citttadinanza ... 43

2.1 L’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione ... 44

2.2 Le politiche di cittadinanza ... 54

2.3 La XVII legislatura: ius soli e ius culturae ... 62

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Capitolo 3: Le coalizioni in campo ... 68

3.1 Le elezioni del 2013 ... 68

3.1.2 La formazione del governo ... 73

3.2 Le advocacy coalition attraverso la ricostruzione del dibattito pubblico ... 75

3.2.1 L’opinione pubblica e le perturbazioni esterne ... 76

3.2.2 L’etichetta ius soli ... 77

3.2.3 Gli attori pro riforma ... 78

3.2.4 Gli attori contro la riforma ... 84

3.3 La ricostruzione del dibattito parlamentare ... 86

3.3.1 Commissione Affari Costituzionali... 88

3.3.2 La discussione alla Camera ... 92

3.4 Quadro della situazione ... 100

Conclusioni ... 105

Bibliografia... 108

Rassegna stampa………. .. .110

Sitografia ... 113

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Introduzione

Il diritto di cittadinanza in Italia viene attualmente regolato dalla legge n. 91 del 1992. Questa legge stabilisce i criteri per godere dello status di cittadino italiano privilegiando il principio dello ius sanguinis, in base al quale la cittadinanza si tramanda per nascita dai genitori ai figli, indipendentemente dal legame effettivo che il cittadino italiano vanta con la Stato di appartenenza. Essendo l’Italia diventata a partire dalle fine degli anni Settanta la meta di importanti flussi migratori intensificatisi notevolmente nel corso degli ultimi decenni, si è venuta a creare una situazione in cui molti stranieri che vivono stabilmente sul territorio italiano non ne possiedono la cittadinanza. Lo straniero può diventare infatti italiano al termine di un iter lungo e dall’esito non scontato di naturalizzazione mentre il minore che nasce in Italia da genitori stranieri acquista la cittadinanza dopo il raggiungimento della maggiore età e in maniera comunque non automatica. Questa situazione ha portato molti a chiedersi se la legge del 1992 non fosse ormai superata alla luce del contesto odierno.

Alla luce di ciò abbiamo cercato di rispondere ad alcune domande ma nel farlo abbiamo lasciato da parte ogni giudizio valoriale. Come mai, nonostante vari tentativi falliti di riforma della legge del 1992 e nonostante l’esempio di molti paesi europei, la legislazione italiana rimane ancorata a un rigido principio di ius sanguinis ?. Per rispondere a questa domanda di fondo innanzitutto abbiamo considerato il diritto di cittadinanza come una politica pubblica, che stabilisce i requisiti per essere cittadino dello stato italiano e di conseguenza godere del massimo grado di diritti previsti dall’ordinamento.

La cittadinanza intesa come politica pubblica rappresenta dunque l’oggetto di indagine del nostro lavoro, che in particolare si concentrata sul tentativo di riforma che ha avuto più possibilità di venire approvato, il cosiddetto “Ddl Ius Soli”. Approvato alla Camera durante la XVII legislatura, iniziata nel 2013 e conclusasi nel 2018, non ha poi ottenuto la ratifica del Senato e la riforma è stata successivamente accantonata. Ha rappresentato in ogni modo l’apice del dibattito pubblico sul tema della cittadinanza e per questo lo abbiamo ritenuto in grado di fornirci delle risposte. Le domande che ci premevano riguardavano quali attori volessero la riforma e quali fossero contrari e il perché il ddl non avesse ottenuto l’approvazione definitiva al Senato.

Nel primo capitolo l’attenzione è stata posta sul punto di vista che abbiamo adottato per analizzare l’oggetto della nostra indagine. Cosa si intende per politica pubblica? Cosa

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rappresenta lo studio delle politiche pubbliche e cosa sono gli approcci realmente incentrati sulle politiche? Come si sono evoluti nel tempo?. Dopo aver risposto a queste domande preliminari si è passata in rassegna la letteratura sul framework che abbiamo usato per definire gli argini del nostro lavoro, ossia l’Advocacy coalition framework, ritenuto il più opportuno per i quesiti che ci siamo posti. A questo abbiamo affiancato un ulteriore strumento, la teoria riguardante il framing e i frame, pensandolo in grado di aiutare notevolmente nel caso di attori in conflitto tra loro sulla politica da adottare.

Il secondo capitolo tratta del nesso fondamentale che intercorre tra la politica che regola i flussi migratori e la politica della cittadinanza. Della prima sono state innanzitutto ripercorse le tappe e le principali riforme, con l’aiuto indispensabile della letteratura di Zincone, che usando lo stesso framework ci ha fornito una chiara immagine delle coalizioni presenti in quel sottosistema di policy strettamente correlato al nostro. Successivamente si è tornati sulla cittadinanza, facendo chiarezza sui due principi contrapposti ma spesso conviventi dello ius sanguinis e dello ius soli. Ripercorrendo le tappe della legislazione italiana e le varie ipotesi di riforma abortite, si è giunti al tentativo di riforma centrale per il nostro lavoro, ossia il “Ddl ius soli”. Di questo è stata ripercorsa la nascita, le alterne fortune fino alla conclusione della possibilità di riuscita, il favore mostratogli dai principali partiti e attori politici, infine i reali contenuti.

Nel terzo capitolo in primo luogo si è riflettuto sulle elezioni del 2013 paragonandole con quelle precedenti e cercando di interpretarne gli elementi di svolta. I gruppi parlamentari che si sono formati, i governi che si sono avvicendati, i partiti che sono stati scissi o creati sono stati elementi da chiarire imprescindibilmente prima di passare al vivo della ricerca.

Per rispondere alle domande da cui siamo partiti, ossia se e quali advocacy

coalition sono presenti nel sottosistema della politica pubblica della cittadinanza, abbiamo

utilizzato due strumenti. Il primo è stato l’utilizzo dei quotidiani più importanti a livello nazionale per continuare l’analisi del dibattito pubblico iniziata nel secondo capitolo sull’argomento della riforma, con l’intento di cercare tutti i possibili attori che si sono attivati per influenzare la policy. Il secondo è stato l’analisi del dibattito parlamentare, per tratteggiare le idee dei gruppi parlamentari, considerate dal nostro framework come il collante di eventuali coalizioni. La scelta di utilizzare il dibattito parlamentare è derivata da una preventiva scelta a riguardo del tipo di politica che ci trovavamo di fronte. Per poter procedere è stata richiamata la famosa tipologia di Lowi che ha distinto le politiche in quattro diversi tipi, ognuno dei quali prefigura un’arena privilegiata in cui ne sono prese le

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principali decisioni. Il lavoro svolto in Commissione Affari Costituzionali della Camera e il dibattito in Assemblea ci hanno fornito il quadro degli schieramenti e delle contrapposte idee di policy sul campo. Nella conclusione del capitolo abbiamo cercato di rispondere alle domande di partenza da cui siamo partiti.

CAPITOLO 1: L’ADVOCACY COALITION FRAMEWORK

Il primo capitolo ha per oggetto l’Advocacy Coalition Framework con un focus finale sulla teoria dei frames. Questi sono gli strumenti che utilizzeremo successivamente analizzando la politica pubblica di regolazione dei flussi migratori e la politica pubblica della cittadinanza, oggetto specifico della nostra indagine.

1.1 Studiare le politiche pubbliche

L’ Advocacy coalition framework, che da ora in poi abbrevieremo con l’acronimo ACF, è un metodo di analisi delle politiche pubbliche elaborato da Paul A. Sabatier e Hank-Jenkins Smith alla fine degli anni Ottanta del Novecento. Studiare le politiche pubbliche significa indagare le azioni intraprese dalle autorità pubbliche al fine di risolvere, ma anche di rinviare o eludere, problemi pubblici di un determinato ambito (Capano e Giuliani, 2002).

L’ ACF è soltanto uno dei moltissimi possibili approcci allo studio delle politiche pubbliche, approcci etichettabili nel loro complesso come “policy studies”. Secondo Capano e Giuliani (2002), un primo aspetto che accomuna tutti i policy studies è il fatto che la loro unità di analisi è sempre un determinato problema di pubblica rilevanza e quindi uno o più settori di intervento pubblico. Altra caratteristica comune riguarda l’interdisciplinarità che la gran parte di questi studi possiede. Ogni intervento pubblico va infatti ad insistere su un contesto pienamente comprensibile solo adotta ndo insieme il punto di vista dell’economista, del sociologo, dello storico, del geografo, dello statista, cosi come dello scienziato nucleare se l’ambito in questione riguarda questo particolare aspetto. Terza caratteristica, che rimanda alla definizione di politica pubblica, riguarda il riconoscimento del carattere convenzionale della delimitazione di una politica. Diventa pertanto compito del ricercatore esplicitare i confini del suo oggetto di indagine, che altrimenti rimangono poco evidenti e sovrapposti spesso a quelli di altre politiche

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pubbliche. Come ultima caratteristica comune, la varietà dei filtri utilizzabili per selezionare i fatti salienti della politica in esame. Ci sarà infatti molta differenza se ad essere selezionati saranno solo gli atti legislativi, oppure unitamente gli atti legislativi e quelli della pubblica amministrazione. Il pregio dell’evoluzione dei policy studies è proprio quello di avere esteso l’analisi a tutti gli atti in grado di creare conseguenze in quel determinato settore di intervento pubblico. Queste caratteristiche segnano pertanto la differenza tra tutti i policy studies, compreso quindi l’ACF, e i vari approcci storico, economico, sociologico, che pure ricoprono un importante ruolo per i primi. Da tali caratteristiche deriva in ultima analisi l’autonomia disciplinare di questi studi (ivi, p. 394).

Nel loro complesso i policy studies sono però tutt’altro che un mondo omogeneo e le distinzioni analiticamente possibili sono molte. Le dimensioni che sembrano tuttavia essere maggiormente pertinenti a suddividerli riguardano l’asse della prescrizione/descrizione e quello deduttivo/induttivo1.

Per quanto riguarda il primo asse, gli studi con finalità prescrittiva sono quelli indirizzati direttamente al policy maker affinché venga migliorata la sua capacità di intervento. Gli studi vengono condotti dalla figura dell’analista, che dall’interno o dall’esterno delle istituzioni lavora in stretto contatto con coloro che effettivamente svilupperanno le politiche. Gli studi con finalità descrittiva si pongono invece come obiettivo la rappresentazione più dettagliata possibile dei processi delle politiche pubbliche per arrivare a comprendere e se possibile a prevedere. I primi sono di solito definiti studi

per il policy making, mentre i secondi studi del policy making (ivi, p. 398).

Considerando invece il secondo asse, con approccio deduttivo si intende un approccio top-down, che parte cioè da massime universali per applicarle allo studio dei fenomeni politici e in particolare alle politiche pubbliche. Viceversa, con approccio induttivo si intende un procedimento top-down, che parte dalla raccolta di dati empirici per arrivare successivamente a generalizzazioni e proposizioni che possono avere applicazione generale.

Queste dimensioni non forniscono tuttavia dei confini rigidi entro i quali poter inserire i vari tipi di policy studies, rappresentando piuttosto un’esigenza pratica di suddivisione. Molti studi si pongono infatti al confine delle varie dimensioni.

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La scelta di presentare la suddivisone dei policy studies in base a queste categorie è adottata sia nel

Dizionario di politiche pubbliche a cura di Capano e Giuliani sia in Come studiare le politiche pubbliche di

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Il framework ACF, che useremo per la nostra ricerca, fa parte degli studi fortemente orientati alle politiche, il cui significato sarà chiaro al termine di questo excursus. Questi studi, spesso definiti semplicemente Public policy, si propongono finalità descrittive, sono interessati al reale processo di elaborazione, approvazione e implementazione delle politiche pubbliche e hanno come interlocutori di rilievo la scienza politica e la sociologia politica (ivi, p. 400).

Gli studi orientati alle politiche rifiutano quindi il metodo deduttivo, ma al contempo nutrono scetticismo circa la possibilità di arrivare a teorie generali partendo dalle analisi empiriche del metodo induttivo. La precisione e l’adeguatezza di attente generalizzazioni sono preferite all’eleganza e alla sobrietà di teorie generali (Howlett e Ramesh, 2003, p.47)2.

Per capire come si è arrivati a questo genere di impostazione è utile tratteggiare il profilo storico di questi approcci realmente incentrati sulle politiche pubbliche.

1.2 L’evoluzione dei policy studies

Seguendo l’impostazione di Regonini (2001), per tratteggiare il profilo storico dei

public policy è necessario partire dagli anni Cinquanta, facendo quindi riferimento a quella

che può essere considerata la seconda generazione3 dei policy studies. Il valore attribuito ai dati, alle descrizioni precise che non cedono il passo a frettolosi inquadramenti teorici, alle valutazioni dei cittadini, tutti aspetti che caratterizzano la scuola di Chicago negli anni Trenta e Quaranta, acquistarono negli anni Cinquanta un maggiore inquadramento metodologico, sfociando nel paradigma conosciuto come comportamentismo. Questo paradigma, la cui portata era tale da far parlare di rivoluzione comportamentalista, unito ad altre due correnti di ricerca degli anni Cinquanta, la teoria del sistema politico elaborato da Robert Easton nel 1953 e il movimento per le policy sciences di Harold Lasswell del 1951, fornirono ai policy studies l’ombrello necessario al loro sviluppo e consolidamento come disciplina autonoma.

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Il rifiuto di inserire gli studi orientati alle politiche tra quelli deduttivi sembra differenziarsi

dall’impostazione del dizionario di politiche pubbliche che fa rientrare i public policy tra gli studi descrittivi con metodo induttivo (tabella p. 400).

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Le radici dei policy studies sono indubbiamente da rintracciare nella cultura politica americana di inizio Novecento, quando il progressive movement sosteneva la possibilità di un approccio scientifico ai problemi sociali. Negli anni successivi, con l’influenza di Jhon Dewey e del pragmatismo, maturava la convinzione che i dibattiti ideologici dovessero lasciare il posto alla sperimentazione scientifica al fine di ottenere politiche efficaci. Un connubio, quello tra politica e conoscenza, destinato a rafforzarsi con l’esperienza del Brain Trust durante il New Deal di Roosevelt e ancora durante la Seconda guerra mondiale grazie al contributo dato da molti studiosi all’attività di intelligence americana

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Quando si parla di sistema politico si fa riferimento a una concezione della sfera politica immaginata come un sistema nel quale sono innanzitutto introdotti degli input da parte dei gruppi di interesse e dei partiti, in base alle domande dei cittadini. Le istituzioni rilevano questo input e lo trasformano in output, cioè in politiche pubbliche che rispondono a quelle domande. Attraverso il feedback, terzo elemento della teoria del sistema politico, la società aggiusta e ricalibra gli input in base agli output che ha ricevuto, in un processo costante e ininterrotto. Proprio il concetto di processo è l’elemento fondamentale da considerare al fine dello sviluppo dei policy studies, dal momento che l’attenzione al processo portò gli scienziati politici a considerare elementi fino ad allora considerati privi di valenza scientifica, come i ricatti e le pressioni, ma fondamentali per la comprensione delle politiche pubbliche.

Un altro contributo fondamentale venne da Lasswell e Lerner, che coniarono nel 1951 il termine policy sciences per il loro programma di ricerca incentrato sulle politiche pubbliche. Il proposito era quello di fornire ai policy maker della democrazia americana informazioni utili all’elaborazione ed esecuzione delle politiche pubbliche. Uno stretto connubio quindi tra conoscenza scientifica e democrazia e una continuità con l’approccio pragmatico di Dewey. Il carisma di Lassweel giocò sicuramente un ruolo importante nell’attirare scienziati politici allo studio delle policy e del loro impatto sulla società, anche se l’approccio prescrittivo non era certo quello verso cui si indirizzarono i public policy.

Se le grandi correnti di pensiero di quegli anni fornirono le basi per lo sviluppo degli studi delle politiche pubbliche, secondo Easton e altri grandi autori come Truman, Dahl, Eulau, rappresentarono anche, paradossalmente, un ostacolo a un approccio realmente incentrato sulle politiche pubbliche. Comportamentalismo, teoria del sistema politico, policy sciences avevano il grande pregio di permettere agli studiosi di politiche di lasciarsi alle spalle concezioni formalistiche delle istituzioni e delle politiche e di concentrarsi sui veri processi delle politiche. Inoltre, ed è questo il concetto più importante, permettevano ai policy studies di tenersi alla larga dal conflitto epistemologico tra il polo naturalistico che spiegava la società sulla base di macroleggi e quello antinaturalistico, dell’interpretazione, secondo l’orientamento weberiano. La ricerca di cause generali non è mai stata in linea con l’orientamento delle scienze sociali americane e queste correnti permettevano proprio agli studiosi di policy di non scomodarle. Se è infatti vero che un input genera un output, questo processo non ha comunque la stessa linearità causa -effetto che ha per esempio il calore sulla trasformazione dell’acqua in vapore.

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L’ombrello di queste correnti, utile quindi a un primo sviluppo per la scientificità che garantiva, andava tuttavia abbandonato per il rischio di derive positiviste che comunque non potevano essere del tutto eliminate. La svolta arrivò nel 1969 quando Easton, presidente dell’American Political Science Association, diede avvio al post-comportamentalismo, con un accorato appello agli scienziati politici a lasciar perdere il formalismo delle ricerche e dedicarsi attivamente all’impatto che le politiche hanno sulle reali condizioni di vita delle persone4. Da questo momento gli studi sulle politiche pubbliche presero tre diversi indirizzi: policy sciences e neopragmatismo, nuova economia politica, politiche pubbliche.

Questo terzo filone, che a noi interessa, è formato da tutti quegli studiosi che rimasero negli anni Settanta ancorati alle ricerche e ai temi degli anni precedenti, facendo tesoro dei concetti di politica pubblica come bidoni della spazzatura, conoscenze in uso, processi. Con un miglioramento dell’impianto metodologico e con la consapevolezza maggiore dell’estrema complessità dell’oggetto di indagine, nei primi anni Settanta si assistette alla piena istituzionalizzazione dello studio delle politiche pubbliche e alla sua definizione come campo autonomo di ricerca.

Gli anni Settanta furono estremamente importanti nel portare i policy studies alla fase di maturità anche per un altro motivo. È infatti in questo periodo che la ricerca sulle politiche pubbliche uscì dai confini americani per diventare internazionale. Gli studi diventano comparati grazie alla riduzione dei costi di elaborazione di dati sempre più ricchi e grazie allo sviluppo delle risorse computazionali. Molte delle categorie fondamentali delle public policy odierne si svilupparono proprio grazie a questo cambio di passo.

Gli anni Settanta, anche grazie all’ internazionalizzazione degli studi, portò con sé interrogativi nuovi e scottanti che misero in discussione le tradizionali ipotesi di base delle politiche pubbliche. Anche grazie agli studiosi europei, che assistettero al fallimento dei programmi riformisti elaborati sulla spinta del movimento operaio, il principale interrogativo ricorrente in svariati studi diventò: does politics matter?, la politica è davvero fondamentale per il tipo di politiche pubbliche elaborate e per il loro successo?, impostazioni ideologiche diverse a livello di governo danno realmente vita a politiche pubbliche differenti ?. L’assunto che le policy siano frutto della politic venne messo

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Dalle parole di David Easton, che segnano l’inizio della fase postcomportamentalista, si evince la

percezione del clima di quegli anni e la posizione degli scienziati sociali << messi di fronte negli Stati Uniti a una guerra disastrosa nel Vietnam, a bambini che muoiono di fame, a negri in collera, a bianchi spaventati, a cittadini d’ordine mobilitati, a rivolte studentesche nelle università e ai progetti di guerriglia >> [Easton 1971, 396 trad. it. ]

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definitivamente in discussione e lo sguardo si rivolse con sempre maggiore attenzione alle politiche in sé, con l’intenzione di capirne effettivamente i meccanismi.

Policy studies

▪ Analisi dei problemi di pubblica rilevanza ▪ Interdisciplinarità

▪ Superamento dell’atto legsilativo ↓

Public policy

▪ Fanno parte dei policy studies. ▪ Centralità della politica pubblica

▪ Politica pubblica come prodotto e produttrice del sistema ▪ Finalità descrittive ≠ prescrittive

▪ Ricerca delle determinant delle politiche pubbliche ↓

Advocacy Coalition Framework (ACF)

▪ Fa parte dei public policy

▪ Interesse per le coalizioni di attori ▪ Centralità del sottosistema di policy ▪ Spiegazione del policy change

Tabella 1.1 Evoluzione dei policy studies

L’approccio realmente orientato alle politiche che si delineò in quegli anni aveva definitivamente sostituito la ricerca degli input tipici dell’approccio sistemico con la ricerca delle determinant delle politiche, individuabile soprattutto grazie alla comparazione. Ma delle determinant o cause nel senso tipico delle scienze naturali, come già sottolineato, lo studioso del policy making tendeva a diffidare, senza però trincerarsi dietro la sola descrizione dei processi. Quello che stava avvenendo era un tentativo di sfuggire alla dicotomia attore-sistema, micro- macro, intenzionalità-causalità per cercare di delineare un approccio intermedio.

Questa posizione di medio raggio è la caratteristica fondamentale degli studi realmente orientati alle politiche e vale la pena fare alcune precisazioni. Il posizionamento intermedio fra i due poli di micro e macro e di attore e sistema non è tanto una sterile posizione di mezzo, ma una possibilità di navigare tra i due poli della dicotomia in entrambi i sensi. Le politiche diventano al tempo stesso esito del sistema ma anche produttrici del sistema stesso. Sono allo stesso tempo prodotti e processi. Abbiamo quindi un attore, o meglio una pluralità di attori in relazione tra di loro, che cercano di risolvere problemi collettivi e che devono fare i conti con un sistema non ordinato e lineare come

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quello naturale, regolato da precise leggi di causa effetto, bensì caotico e aperto. Il sistema del policy making ha infatti a che fare con il caso, come la teoria del garbage can insegna, e con la dipendenza dai percorsi già tracciati in precedenza, come sottolineato dagli studi del path dependency. In definitiva: «Quel che normalmente è considerato come variabile dipendente (l’output delle politiche) è anche la variabile indipendente. Le politiche sono inevitabilmente costruite sulle politiche, spostando in avanti ciò che è stato ereditato, o correggendolo, o ripudiandolo». (Heclo, 1974)

Dopo aver chiarito le origini del tipo di approccio da cui muovono i public policy, vale la pena, prima di passare definitivamente agli aspetti specifici dell’ACF, entrare concretamente nel vivo delle categorie utilizzate per analizzare le politiche pubbliche. Gli autori decisamente orientati alle politiche analizzano il loro oggetto di studi ponendosi cinque quesiti fondamentali: chi?, quando?, dove?, come?, che cosa?, rispondendo poi ad esse in modo diverso.

Per quanto riguarda il chi, ad essere presi in considerazione sono gli attori delle politiche pubbliche, con un’indagine empirica che non tiene conto dei formalismi ma cerca di capire davvero quali sono i ruoli giocati in ogni vicenda di policy. A tal riguardo sono stati nel tempo elaborati modelli che hanno privilegiato una certa categoria predominante di attori, modelli quindi basati sulla prevalenza, e modelli che hanno evidenziato il rapporto tra varie categorie di attori, tutti dotati di un peso influente nella politica pubblica analizzata. Ed è proprio in questo secondo tipo di modelli che si fa largo l’ACF, prendendo in considerazione vari attori che si uniscono in coalizioni tra loro configgenti. Alla domanda quando, viene risposto con i vari passaggi di una politica pubblica dalla sua elaborazione all’implementazione e valutazione. Per il come, si prendono in considerazione gli stili di policy. Analizzando invece l’impatto che l’ambiente esterno, in particolare le istituzioni, ha sulle politiche, si risponde alla domanda dove. Al che cosa si risponde infine con il tipo di politiche attuate e di importanza fondamentale in questo ambito è la celebre tipologia elaborata da Lowi con la divisione delle politiche in distributive, regolative, redistributive e costituenti5.

Un concetto fondamentale che fa parte del bagaglio degli studi di public policy è quello di sottosistema di policy. Elaborato nel contesto americano dai primi critici del pluralismo, i sottosistemi sono le specifiche arene di ciascuna politica pubblica, in cui si

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Il concetto elaborato da Lowi per cui policy determines politics [Lowi, 1972] , stando a significare che sono le politiche stesse a elaborare le proprie arene di potere , il suo processo, le sue elite, rappresenta secondo Regonini (2001) un’intuizione fondamentale nel percorso che porta allo studio delle politiche come ambito autonomo e non come mero output del sistema.

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muovono specifici attori. Questo concetto consente di individuare il contesto in cui avviene il policy process, evitando le formali distinzioni tra stato e società, tra livelli di governo e tra attori pubblici e privati (Lanzalaco e Prontera, 2012). Un primo tipo di rapporto fra attori del sottosistema ad essere ipotizzato fu quello degli iron triangles, cioè un rapporto stretto tra gruppi di interesse, commissioni del congresso e agenzie governative che dominava il proprio sottosistema di policy. Questo tipo di relazione fra attori, molto chiusa e rigida, fu messa in discussione durante gli anni Sessanta e Settanta da vari studiosi tra cui Hugh Heclo (Howlett e Ramesh, 2003 p. 135). Costui, pur riconoscendo che alcuni sottosistemi fossero retti da tali rapporti tra attori, ipotizzò che i triangoli di ferro fossero solo l’estremità di un continuum che terminava al capo opposto con un tipo di relazione tra attori molto più fluida e aperta, chiamata da lui issue network. Il lavoro di Heclo incoraggiò vari autori a perfezionare il concetto di sottosistema e a indagare il tipo di relazione tra attori che si instaura in ogni campo di politica pubblica. Da qui i concetti di

policy network6 e policy communities7 e quello che più ci riguarda, cioè il concetto advocacy coalition che pur appartenendo alla famiglia dei policy networks, assunse una sua

specificità in virtù del fatto che presupponeva l’esistenza di almeno due coalizioni in lotta tra loro all’interno di ciascun sottosistema di policy (Capano e Giuliani 1996, in Lanzalaco e Prontera, 2012, p. 125).

1.3 L’Advocacy Coalition Framework

La prima versione dell’ACF è stata il frutto di vari anni di lavoro da parte di Paul Sabatier, iniziati con un seminario di ricerca a cavallo del 1981 e 1982 e culminati con due articoli del 1987 e del 1988. A metà degli anni Ottanta, Sabatier iniziò una collaborazione con Hank Jenkins-Smith, che aveva iniziato indipendentemente a lavorare su concetti simili a quelli di Sabatier, in particolare sul ruolo della scienza nelle dinamiche di policy. Da questa collaborazione uscirono importanti revisioni congiunte del framework, tra cui quella del 1988 e quella più matura del 1993. Ulteriori revisioni del framework fecero seguito nel 1999 e nel 2007.

Tra le esigenze fondamentali degli autori c’era la volontà di rispondere a domande inerenti il cambiamento delle politiche (policy change), il ruolo delle informazioni scientifiche e tecniche nell’influenzare la posizione degli attori in campo, i conflitti

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I policy network sono i legami che uniscono gli attori dello stato e quelli della società nel processo di policy.

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La policy community comprende gli attori e potenziali attori che condividono un policy focus comune. Il network è il tipo di collegamento tra questi attori o tra le community.

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ideologici, la formazione e il mantenimento di colazioni a sostegno di una determinata policy (Weible e Sabatier, 2017, p. 135).

I due padri dell’ACF sentivano la necessità di adottare un approccio di lungo periodo per capire le dinamiche di policy. Ritenevano che fosse necessario adottare una visione complessa dei sottosistemi e sviluppare un modello dell’individuo realistico, a razionalità limitata, ancorato maggiormente alla psicologia piuttosto che alla microeconomia (Weible et.al. 2011, p.349). Era percepita l’esigenza di trovare un modello alternativo rispetto agli stages heuristc, che dominavano le ricerche di quegli anni, e quella di sintetizzare le caratteristiche positive degli approcci alle politiche di tipo top-down e

bottom-up. Era inoltre necessario trovare un ruolo adeguato all’informazione scientifica e

tecnica all’interno del policy proces.

Dalla fine degli anni Ottanta iniziarono dunque le applicazioni dell’ACF e negli anni Novanta iniziò ad essere uno dei framework più utilizzati con il pregio di essere rivolto sia allo studio di singoli casi, sia all’analisi comparata. Il proposito di un framework è quello di fornire una piattaforma di ricerca condivisa a chiunque voglia descrivere e spiegare determinati fenomeni in vari contesti, elaborando un vocabolario comprensibile per studiosi di varie impostazioni disciplinari, che provengono da diverse parti del mondo e che hanno interesse in diverse aree di policy. L’ACF, in quanto framework, è composto di varie e interconnesse teorie al suo interno. Coloro che lo adottano non verificano il framework nel suo complesso, bensì le teorie di cui è composto, che forniscono una definizione dei concetti sotto forma di ipotesi da testare e eventualmente falsificare.

Un framework fornisce quindi le basi per indagini prescrittive e descrittive, categoria di cui l’ACF fa parte, stabilendo una serie di assunti di base, di scopi, di concetti e di relazioni tra concetti. L’ACF, in particolare, definisce un programma di ricerca adottabile universalmente da studiosi che intendano indagare il policy proces partendo da un bagaglio di concetti simile, con la possibilità di concentrarsi su molteplici focus teorici differenti (Weible et.al. pp. 351-355).

Rispecchia inoltre i criteri per essere definito come teoria scientifica in base a Lave and March (1975). Infatti, secondo Sabatier (1998, p. 122), la maggior parte dei termini critici sono definiti chiaramente e le proposizioni sono internamente coerenti. Contiene, come vedremo, due motori causali rappresentati dai core values dei membri delle coalizioni e dalle perturbazioni esterne. Contiene ipotesi falsificabili attraverso ricerche empiriche ed è applicabile alla maggior parte dei policy domain, almeno in tutti i paesi OECD.

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17 1.3.1 Gli assunti di base

I sottosistemi di policy rappresentano l’unità di analisi fondamentale per la comprensione del processo delle politiche. Ciascun sottosistema è composto da un proprio

topic, da un ambito territoriale definito e da attori che in qualche modo influenzano quella

determinata politica pubblica. Ogni sottosistema è composto da varie componenti che interagiscono tra loro per produrre output e outcome della politica. Il sistema di credenze degli attori o le risorse politiche sono esempi di queste componenti. Il sottosistema consente di individuare gli attori attivi circa quel topic, che non corrispondono a tutti gli individui su cui quella politica ha effetto. Essendo infatti le risorse di tempo e attenzione limitate, non tutti gli individui si attivano in sottosistemi e quelli che lo fanno sono di solito attivi in uno o al limite pochissimi dei sottosistemi esistenti. I sottosistemi sono poi semi indipendenti ma spesso hanno sovrapposizioni tra di loro o sono innestati l’uno nell’altro. Dispongono inoltre di una qualche forma di autorità ad esempio nel procedimento legislativo o comunque la potenzialità di dare vita a nuove politiche che modificano lo status quo. Infine, alternano periodi di stasi, di cambiamento graduale o radicale (Weible e Sabatier, 2017 p.139).

Weible (2008) ha sviluppato un’utile tipologia di sottosistemi distinguendoli in unitari, collaborativi e conflittuali. Le differenze sono individuate in base a cinque dimensioni: natura delle coalizioni che ne fanno parte, policy image, grado di centralizzazione e interdipendenza8, accesso alle arene decisionali e contenuto delle policy,

strumenti utilizzati. Ne risulta che in un sottosistema unitario vi è un’unica coalizione con elevato livello di compatibilità nelle credenze dei membri e altro grado di coordinamento, una sola policy image, un’autorità centralizzata, politiche che retribuiscono benefici all’unica coalizione dominante. In un sottosistema collaborativo si trovano invece coalizioni che collaborano con un certo grado di convergenza nelle credenze e discreto coordinamento, compatibilità fra le policy images, l’utilizzo di istituzioni basate sul consenso tra le parti e politiche vantaggiose per tutte le coalizioni. Infine, in un sottosistema conflittuale, troviamo coalizioni in conflitto con credenze fortemente polarizzate, una policy image controversa, autorità frammentata tra vari livelli di governo e

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Si fa riferimento alla ripartizione dell’autorità decisionale tra agenzie e livelli di governo e l’interconnessione tra vari sottosistemi.

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agenzie governative, ricorso al venue shopping, chiari vincitori e vinti in base alle politiche elaborate.

Un’altra distinzione possibile è quella fra sottosistemi maturi e sottosistemi nascenti. Per sottosistemi maturi si intendono quei sottosistemi che hanno alle spalle almeno dieci anni di vita. In questi sottosistemi, gli attori percepiscono se stessi come una comunità semiautonoma che dispone di un dominio comune di conoscenze e competenze sul topic su cui il sottosistema si regge. Questi attori cercano di influenzare le politiche pubbliche a vantaggio della propria coalizione e sono impegnati in questa attività da più anni, tra i sette e i dieci almeno. Nelle agenzie governative, a tutti i livelli, sono presenti delle sottounità appositamente dedicate al topic del sottosistema e c’è un gruppo di interesse o una apposita sua unità che considera il topic come questione ad alta rilevanza (Sabatier, 1998 p.114). Per quanto riguarda invece i sottosistemi nascenti, secondo Sabatier (1998) possono nascere attraverso un processo di spin-off da un sottosistema già maturo quando alcuni attori ritengono che il sottosistema non dia abbastanza peso ad una specifica questione, oppure possono nascere autonomamente in seguito ad un evento rilevante o alla concettualizzazione di un problema.

Un ulteriore questione che riguarda i sottosistemi e che costringe coloro che vogliano adottare il framework a prendere una decisione in merito, è fornita da quei domini di policy che per loro natura coinvolgono più livelli di governo, siano questi nazionale e locale o nazionale e internazionale. Le due strade che a questo punto si presentano sono quella di considerare più sottosistemi a seconda di quanti siano i livelli coinvolti, oppure considerare un unico sottosistema di policy sviluppato su più livelli. La scelta, come suggerito da Sabatier, può essere fatta basandosi su considerazioni empiriche che riguardano il grado di autonomia decisionale dei livelli coinvolti e le relazioni tra gli attori dei vari livelli. Nel caso ad esempio del contesto europeo e dell’implementazione a livello nazionale delle leggi europee, la scelta migliore potrebbe essere quella di considerare più sottosistemi, che rispecchino il livello di governo dell’UE e dei singoli Stati ( Sabatier, 1998, p.115 ).

Il riconoscere ad un sottosistema di policy un grado elevato di autonomia rientra, come si è visto, nel concetto stesso di sottosistema. Se è vero che il riconoscimento di vari sottosistemi autonomi è uno strumento utilissimo a ridurre la complessità degli argomenti, questa suddivisione è valida fintantoché l’interdipendenza tra sottosistemi può essere temporaneamente ignorata. Molti problemi che l’ACF incontra sembrano infatti derivare dalla difficoltà di tracciare delle linee di separazione tra i sottosistemi. La nuova tendenza,

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incoraggiata dagli stessi teorici principali dell’ACF, è quindi quella di considerare sempre di più l’interdipendenza nel disegno di ricerca. Seguendo questa linea, Fenger e Klok (2001, in Weible, Sabatier e McQueen 2009), hanno descritto tre forme di possibile interdipendenza, suddividendola in competitiva, indipendente e simbiotica.

1.3.2 Gli attori

Gli attori considerati sono tutti coloro che direttamente o indirettamente influenzano ciò che riguarda il sottosistema, indipendentemente dal ruolo ricoperto. Si guarda quindi al di là delle sole tradizionali categorie di attori come gruppi di interessi, agenzie governative e comitati legislativi, per aprire lo sguardo verso il settore privato, i media, l’opinione pubblica, la burocrazia a qualsiasi livello, le organizzazioni no-profit, i membri della magistratura.

L’ACF si basa su una versione modificata dell’individualismo metodologico, ancorata molto più alle teorie della psicologia cognitiva e sociale piuttosto che sull’economia. Secondo questa concezione, sono gli individui e non i gruppi a modificare il mondo e anche quando si parla di gruppi si fa sempre riferimento agli individui di cui è composto (Weible e Sabatier 2017). L’individuo sarebbe dunque dotato di una limitata capacità razionale. In questo senso, cerca di usare le informazioni e le risorse, di cui dispone in maniera limitata, per raggiungere i propri obiettivi. Questi non si basano primariamente su interessi personali di tipo economico o politico, sono complessi e di difficile misurazione. Quando cerca di filtrare gli stimoli provenienti dal mondo esterno, la sua razionalità limitata non gli consente di processare i dati in maniera adeguata, con il risultato che l’individuo è costretto a filtrare tutto ciò che percepisce in base alle lenti del sistema di credenze e dei valori di cui è già in possesso. Gli errori di valutazione sono quindi molto frequenti e gli obiettivi sono difficili da raggiungere (Sabatier, 1998 p.109).

Il fatto che le credenze dell’individuo e in particolare le policy core beliefs vengono usate come lenti per filtrare gli stimoli e le informazioni nuove, ha una forte implicazione sulle coalizioni e sulla loro stabilità. Dal momento che i membri di una stessa coalizione condividono le stesse policy core beliefs, uno stesso evento può avere significati molto diversi nella lettura che ne danno le opposte coalizioni in campo. Questo può portare i membri di una coalizione a ritenere che una lettura di un evento o di un informazione, condotta in maniera così diversa dai propri avversari, sia frutto di calcolo interessato o di malafede. Quando le coalizioni altamente conflittuali entrano in questo tipo di ragionamento siamo di fronte al fenomeno denominato devil shift, ossia la tendenza a

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considerare l’avversario più forte e malintenzionato di quello che è in realtà (Sabatier et.al. 1987).

Per quanto riguarda il sistema di credenze di ogni individuo, l’ACF opera una tripartizione basata sul livello di profondità a cui queste sono situate. Al livello più profondo si trovano le deep core belief che sono giudizi valoriali e assiomi ontologici. Non riguardano direttamente nessuna politica pubblica e proprio per la loro generalità sono potenzialmente applicabili a qualsiasi sottosistema con cui l’individuo interagisca. La tradizionale distinzione tra attori politici secondo l’asse destra-sinistra può essere ricollegata a questo livello. Al secondo livello sono situate le policy core belief, che sono invece legate a un preciso ambito di policy. Possono essere di tipo normativo e quindi implicare un giudizio valoriale oppure essere di tipo empirico e quindi riguardare valutazioni sui problemi e modalità per risolverli. Per ultime, al terzo posto, le secondary

beliefs, che hanno a che fare con aspetti secondari della politica pubblica e con gli

strumenti da utilizzare per raggiungere i fini verso cui le policy core beliefs indirizzano il soggetto.

Nelle prime versioni dell’ACF, compresa quella del 1993, la distinzione tra i tre livelli rimaneva non del tutto definita e in particolare non era chiaro se le distinzioni riguardassero maggiormente il campo di applicazione delle credenze o il loro grado di astrazione. Un punto di svolta in questo senso è rappresentato dall’applicazione dell’ACF che Sabatier fece sul problema di inquinamento riguardante il lago Tahoe (Sabatier e Brasher, 1993)9. Le ricerche fecero concludere che le policy core beliefs delle coalizioni in lotta erano tutt’altro che astratte ed erano al contrario rappresentate da interessi concreti e materiali come il profitto o le quote di mercato. L’affinamento progressivo del framework ha portato quindi all’individuazione di scope e topic come caratteristiche fondamentali per definire le policy core beliefs (Sabatier 1998, p. 110) Per quanto riguarda lo scope, le credenze sono policy core quando si applicano virtualmente a tutte le questioni del sottosistema. I topic che definiscono una credenza policy core riguardano ad esempio la definizione dei problemi, il metodo di finanziamento dei programmi l’orientamento valoriale.

Uno dei problemi che si pone all’analista è il fatto che sarebbe estremamente complicato descrivere i sottosistemi facendo riferimento agli svariati attori che lo

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Questa applicazione rientra nei temi da sempre trattati dall’ACF, cioè le politiche ambientali. A

confrontarsi erano due coalizioni ben distinte di cui una era formata da quanti volevano proteggere il lago e in particolare il suo grado di trasparenza in progressivo peggioramento, l’altra da chi aveva interesse a proseguire le attività antropiche responsabili del suddetto peggioramento.

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influenzano se questi vengono presi singolarmente. L’approccio vincente diventa quindi quello di valutare i sistemi di credenze degli attori e la loro eventuale collaborazione per uno scopo comune se tali credenze sono condivise. Verranno quindi alla luce coalizioni formate da attori con stesse convinzioni, spesso stabili nel tempo e fondamentali per la comprensione delle strategie utilizzate al fine di influenzare una politica pubblica. Le politiche pubbliche possono essere interpretate, partendo da questi presupposti, come la traslazione in leggi, incentivi, sanzioni e ogni altro strumento che regola una data questione, del sistema di credenze di una o più coalizioni di un sottosistema (Jhenkins-Smith et.al. 2014, in Weible e Sabatier, 2017).

Un altro assunto di base dell’ACF riguarda il ruolo e l’importanza dell’informazione scientifica e tecnica. Il sistema di credenze degli individui non si basa infatti soltanto su congetture astratte, ma trae spunto da come il mondo viene interpretato sulla base di leggi causali. Queste leggi causa-effetto sono chiaramente influenzate dal sapere e dalle informazioni scientifiche e tecniche, che quindi concorrono in maniera forte a indirizzare il soggetto verso specifiche relazioni causali e verso alternative di policy in linea con queste.

1.3.3 Le categorie concettuali generali e le relazioni tra insiemi di variabili Per spiegare le categorie concettuali generali e le relazioni tra queste categorie, Weible e Sabatier (2017)10 descrivono un ipotetico sottosistema in cui due coalizioni configgenti tra loro usano varie strategie per influenzare le decisioni delle autorità governative. Queste strategie possono consistere nel tentativo di modificare leggi, budget o personale, ma sono tutte accomunate dal fatto che in ultima analisi cercano di indirizzare le decisioni di policy verso obiettivi prefissati. Queste decisioni da parte delle autorità hanno un effetto sull’output e sull’outcome della politica pubblica che quindi influenza a sua volta il sottosistema, con ripercussioni possibili anche sulle dinamiche di sottosistemi esterni. A questo punto le coalizioni modificano le proprie credenze e le proprie straregie, in base a quelle che sono state le risposte di policy (Sabatier, 1998, p.104).

Una prima categoria di variabili che influenza il sottosistema, e quindi l’intero processo descritto, è quella dei parametri relativamente stabili. Vi rientrano ad esempio la distribuzione delle risorse naturali, i valori socioculturali, la struttura sociale o quella del sistema istituzionale. Questi esempi sono accomunati dal fatto di essere fattori

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In questa pubblicazione ma anche nelle precedenti versioni dell’ACF, gli autori hanno sempre usato un diagramma a flusso per collegare tra di loro i vari concetti.

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relativamente stabili nel tempo. Gli eventi dinamici esterni compongono una seconda categoria di variabili, accomunate dal fatto di essere più soggette al cambiamento, come l’opinione pubblica o il cambiamento della composizione della coalizione di governo. Per quanto riguarda quest’ultima, è necessario precisare a cosa si riferisca a seconda del sistema preso in considerazione. Se è infatti abbastanza agevole ritenere che in un sistema basato sulla separazione dei poteri si ha un cambiamento nella systemic governing

coalition quando in seguito ad elezioni si avvicendano le coalizioni di governo sia in

parlamento che nell’esecutivo, non è cosi agevole quando siamo di fronte a sistemi parlamentari pluripartitici. In questo caso non basterebbe un cambiamento del partito principale, ma dovrebbe concretizzarsi un passaggio del 60-70 % dei seggi parlamentari a partiti prima non appartenenti alla coalizione di governo, per poter parlare di change in the

systemic governing coalition (Sabatier, 1998). Tra queste due categorie, in una posizione

intermedia, troviamo la struttura delle opportunità della coalizione, che comprendono il grado di consenso necessario a un cambiamento significativo della policy e il grado di apertura del sistema politico (Sabatier, Weible 2007). La struttura delle opportunità è una categoria fondamentale di mediazione tra la dimensione esterna e quella interna dei sottosistemi, su cui Sabatier e Weible si sono concentrati successivamente, mossi anche dall’esigenza di rispondere ad alcune critiche rivolte all’ACF11

. Queste critiche sostenevano il fatto che l’ACF desse troppo per scontato l’impatto del sistema pluralista americano sui processi di policy, con la conseguenza che il framework sarebbe applicabile solo a quel preciso contesto politico. Le caratteristiche di lobby ben strutturate, partiti politici deboli, molteplici arene decisionali e ampie maggioranze necessarie a prendere le decisioni, erano cosi distanti da quelle rintracciabili in altri contesti da rendere l’ACF difficilmente utilizzabile in contesti come quello europeo o dei paesi in via di sviluppo.

Con la struttura delle opportunità i sostenitori dell’ACF hanno quindi tradotto in variabili ben precise alcune diverse caratteristiche dei sistemi politici. Alcuni paesi, come Svizzera e Olanda, necessitano della più ampia maggioranza possibile per poter prendere decisioni. All’estremo opposto troviamo i regimi autoritari, in cui piccole maggioranze regolano i processi di policy. Su questo continuum troviamo il caso americano con le ampie maggioranze necessarie in un sistema ricco di veto points, e i sistemi di tipo Westminster in cui il ruolo forte del partito al governo riduce la soglia del consenso necessario. Da ciò deriva che più alto è il grado di consenso necessario a prendere

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Questa categoria è assente nelle prime versioni del framework ed è stata inserita a partire dal 2007 nella versione del framework di Sabatier e Weible,

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decisioni in ambito di policy, tanto più le coalizioni saranno inclusive, nel tentativo di aggregare tanti più attori possibili, aperte alla circolazione di informazioni e alla continua ricerca del compromesso. Per quanto riguarda la seconda variabile, ovvero il grado di apertura del sistema politico, sono due le variabili che concorrono nel definirla: il numero di arene decisionali in cui devono passare le riforme delle policy e il grado di accessibilità di queste arene. In questo caso è possibile operare una distinzione tra il modello americano, dotato di varie arene decisionali e di agenzie amministrative fortemente accessibili, e quello corporativo, con processi decisionali accentrati e numero ridotto di attori. Da una parte quindi un contesto con alto grado di apertura e dall’altro un grado nettamente inferiore. Il risultato è che nel secondo caso troveremo advocacy coalition formate da un numero minore di attori più propensi al compromesso. In definitiva la struttura delle opportunità può essere: di tipo pluralista, con grande apertura e scarsa ricerca del compromesso, di tipo corporativo, con minore apertura e maggior ricerca del compromesso, di tipo Westiminster, con assenza di ricerca del compromesso e pochi attori coinvolti, di tipo autoritario, con pochissimi attori coinvolti e bassa ricerca del compromesso. L’applicabilità al contesto europeo è accresciuta notevolmente grazie all’attenzione dell’ACF per questa categoria di variabili, che ha favorito contemporaneamente anche lo studio comparato dei casi, consentendo di controllare l’impatto che queste variabili hanno sul processo.

Tornando alle categorie concettuali, tra gli eventi esterni e i sottosistemi, troviamo le risorse e i vincoli di breve periodo degli attori di policy. Questa posizione intermedia nel diagramma significa che cambiamenti esterni creano per le coalizioni opportunità di breve termine da sfruttare a proprio favore per influenzare la policy.

1.3.4 Il Policy Change

Uno dei principali focus teorici dell’ACF è stato da sempre il policy change. Il tentativo di spiegare i cambiamenti individuandone le cause ha portato a una grande mole di ricerche empiriche che hanno nel tempo accresciuto la conoscenza del tema. La domanda a cui si cercava di rispondere era il perché alcune politiche rimanessero stabili nel tempo o tutt’al più mutassero lentamente e per gradi, mentre altri programmi di policy mutassero radicalmente in loro aspetti centrali o addirittura venissero cancellati o sostituiti con nuovi e diversi programmi.

Innanzitutto, partendo dal presupposto che le politiche siano trasposizioni del sistema di credenze delle coalizioni, il cambiamento di policy può essere distinto in minor

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policy change e in major policy change. Il primo corrisponde a cambiamenti di aspetti

secondari di policy, che non richiedono un alto grado di accordo tra gli attori del sottosistema né un cambiamento radicale nella redistribuzione delle risorse, e hanno a che fare con la categoria delle secondary beliefs. Il secondo tipo di cambiamento riguarda invece aspetti centrali di policy e difficilmente potrà avvenire senza che l’advocacy

coalition che sostiene quella specifica politica perda la sua posizione di potere.

L’ACF evidenzia quattro percorsi possibili che portano al policy change. Il primo di questi parte da eventi esterni al sottosistema, nelle categorie dei dynamic external events o anche dei relatively stable parameters. Alcuni esempi possono essere un cambiamento di regime, una forte crisi economica, un disastro naturale. Questi shock esterni sono comunque al di fuori del controllo degli attori del sottosistema, nel senso che accadono al di fuori della loro volontà. Affinché si verifichi effettivamente il policy change, questi eventi rappresentano tuttavia un fattore necessario ma non sufficiente. Deve infatti verificarsi una ridistribuzione delle risorse delle coalizioni e l’apertura di una finestra di policy, durante la quale la coalizione fino a quel momento minoritaria sfrutta la congiuntura per imporre un cambiamento radicale di policy (Weible e Sabatier 2017).

Per quanto riguarda gli external events, è interessante la tipologia che è stata elaborata da Nohrstedt e Weible (2010) integrando l’ACF con gli studi sul crisis

management. Partendo sempre dal presupposto che un policy subsystem si costituisce

attorno a un policy domain, con una delimitazione geografica e con attori in campo interessati a influenzare le attività del sottosistema, questi autori hanno individuato due dimensioni chiave nel definire un evento esterno: la contiguità geografica e la contiguità di policy. Con la prima si fa riferimento alle coordinate spaziali dell’evento, che può ricadere dall’area geografica di rifermento del sottosistema in esame. Un’alluvione in uno stato X ricade sicuramente nell’area di intervento del sottosistema dello stato X che ha come oggetto la protezione della popolazione, ma allo stesso tempo anche nell’area di altri sottosistemi dello stato X che nulla hanno a che fare con le alluvioni. Il grado di pertinenza nei confronti del policy domain di un sottosistema è infatti definito attraverso il concetto di

policy proximity. Se un evento possiede un’alta contiguità geografica e allo stesso tempo

un’alta contiguità di policy, si parlerà in questo caso di crisi diretta. Viceversa, se entrambe le contiguità sono basse, si parlerà di crisi indiretta.

Nonostante la ricerca empirica scarseggi ancora in questo campo, è facilmente ipotizzabile come siano le crisi dirette ad avere maggiori capacità di portare al policy

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portare l’advocacy coalition del sottosistema ad apprendere e di conseguenza modificare le politiche in vigore.

Il major policy change può avvenire anche attraverso un altro percorso, che parte da shock questa volta interni al sottosistema, come il fallimento di un programma di policy elaborato dalla coalizione dominante, uno scandalo politico interno al sottosistema, una crisi nella coalizione dominante. Ma anche in questo caso l’evento in sé non basta. La coalizione di minoranza del sottosistema deve sfruttare l’evento e imporre le sue policy

core belief su quelle della coalizione maggioritaria fino a quel momento, con le stesse

dinamiche viste per il primo percorso.

Per quando riguarda il minor policy change, può essere innescato dall’apprendimento finalizzato alle politiche (policy-oriented learning) di cui sono protagonisti i partecipanti delle coalizioni attraverso policy analysis. Questo accrescimento di conoscenze gioca il ruolo fondamentale di modificare concetti e ipotesi sulle policy dei partecipanti alle coalizioni con il risultato di portare gradualmente al policy change.

Una quarta strada che porta al major policy change può essere quella di un accordo negoziato tra due coalizioni fino a quel momento in lotta tra loro. Affinché si verifichi questo è necessario che le due coalizioni percepiscano la situazione di stallo in cui si trovano come dannosa per entrambe e quindi cerchino, tramite un mediatore, di arrivare ad un compromesso.

La versione più recente del framework, datata 2007, riassume quanto detto in due ipotesi cosi formulate:

Ipotesi 1: Shock esterni al sottosistema, shock interni al sottosistema, apprendimento indirizzato alle politiche e accordi tra coalizioni sono fattori necessari ma non sufficienti a garantire il policy change12.

Ipotesi 2: Gli attributi fondamentali di un programma di policy attuato da un ente governativo in una data giurisdizione, non saranno modificati consistentemente fino a quando l’advocacy coalition che ha instaurato quel programma rimanga al potere in quella giurisdizione, a meno che il cambiamento non sia imposto da una giurisdizione gerarchicamente superiore.

Nella versione del framework che risale al 1993, troviamo già la seconda ipotesi cosi come è formulata nelle versioni più recenti, mentre non era presente la prima ipotesi.

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Questa ipotesi ha guadagnato nel tempo molto supporto attraverso i test degli applicatori del framework. Ha inoltre portato molti studiosi a concentrarsi sul momento fondamentale in cui le coalizioni devono sfruttare gli eventi per arrivare a un cambiamento di policy o alla sua preservazione.

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Quest’ultima fu inserita nel 1997 con delle differenze significative rispetto alla versione attuale. Prevedeva infatti che l’unica strada possibile per il major policy change fosse una significativa perturbazione esterna al sottosistema o, come visto nell’altra ipotesi, un’imposizione da parte di una giurisdizione gerarchicamente superiore. Tra gli esempi di eventi esterni che compaiono nella formulazione dell’ipotesi, troviamo cambiamenti delle condizioni socio-economiche, cambiamenti nell’opinione pubblica, cambi di coalizioni al governo o output prodotti da altri sottosistemi. Tutti questi eventi sono considerati come cause necessarie, ma non sufficienti, del policy change (Sabatier, 1998). Le altre strade furono quindi inserite successivamente rispetto alle versioni iniziali del framework. Per quanto riguarda il policy oriented learning, fu inserito nel 1999 (da verificare), mentre la possibilità che il policy change avvenga a causa di una perturbazione interna o di un negoziato, è stata inserita nella prima ipotesi sopra citata a partire dalla versione del 2007 (Sabatier, Weible, 2007).

Alla luce della frequente applicazione dell’ACF al di fuori dei confini americani, è importante fare chiarezza sulle tipologie dei documenti di policy rintracciabili nei sistemi di governo presi in considerazione. Nei sistemi di tipo parlamentare, questi documenti assumono spesso la forma di resoconti o white paper, il cui status legale è più incerto delle leggi dei sistemi presidenziali. Se quindi in questi ultimi una legge nuova è un chiaro indicatore di cambiamenti di policy, l’equazione non è cosi immediata se ci troviamo di fronte ad alcuni tipi di documenti tipici dei sistemi parlamentari (Sabatier, 1998, p. 120). Inoltre, la scadenza più lunga tra le elezioni in molti sistemi parlamentari, in confronto agli Stati Uniti, consente spesso alle maggioranze di governo di approvare riforme importanti in svariati passaggi che vanno da un primo white paper a una legge quadro e poi a successive leggi o decreti riguardanti l’implementazione. Ciò in definitiva rende difficile l’accertamento del se e del quando avvenga un policy change (Casey et al. 1997; in Sabatier 1998).

1.3.5 Le Advocacy Coalition

Le advocacy coalition, elemento centrale per l’ACF, sono coalizioni composte da attori che condividono stesse policy core beliefs e che coordinano le proprie azioni al fine di influenzare un sottosistema di policy (Weible, Sabatier 2017, p. 148).

L’ACF ha sempre considerato una vasta gamma di attori, non solo quelli tradizionali, quali componenti delle coalizioni. Uno degli aspetti innovativi è stato proprio quello di ritenere che non ci fossero differenze fondamentali tra attori molto diversi tra

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loro, come parlamentati, pubblica amministrazione, gruppi di interesse, ricercatori e giornalisti. In molti degli approcci classici, solo i parlamentari e i membri gruppi di interesse sono considerati attori attivi nell’influenzare la policy, mentre amministratori, ricercatori e giornalisti sembrano ricoprire un ruolo passivo o indifferente alla policy. L’ACF, di contro, ha sempre spinto a considerare che anche questi attori fossero dotati di determinate policy beliefs che li spingono ad attivarsi in una coalizione piuttosto che in un’altra, al fine di raggiungere obiettivi di policy perseguiti al pari degli attori tradizionali (Sabatier, 1998, pp. 107-108).

Le ipotesi formulate dall’ACF riguardo le coalizioni sono:

Ipotesi 1: quando all’interno di un sottosistema vi è una controversia profonda che riguarda le policy core beliefs, lo schieramento di alleati e rivali che si forma tenda ad essere stabile nel tempo per un periodo di circa una decade.

Ipotesi 2: all’interno di una stessa coalizione i membri dimostrano una forte sintonia sugli aspetti di core beliefs, mentre spesso possono non essere d’accordo su aspetti secondari. Le core beliefs rappresentano quindi il collante principale delle coalizioni.

Ipotesi 3: Da ciò deriva che gli attori sono più propensi ad abbandonare e modificare credenze secondarie piuttosto che riconoscere la debolezza di aspetti core.

Ipotesi 4: In una colazione, gli attori che ricoprono un ruolo amministrativo tendono ad avere posizioni più moderate dei membri dei gruppi di interesse alleati.

Ipotesi 5: gli attori dei purposive groups sono più limitati nell’esprimere le proprie credenze e posizioni di policy rispetto agli attori dei material groups.

Queste rappresentano le ipotesi che troviamo nell’ultima versione dell’ACF. Se guardiamo alle prime versioni del framework possiamo notare come tutte e cinque queste ipotesi siano già presenti nella versione che risale al 1993, ma anche che le ultime due, riguardanti rispettivamente il ruolo amministrativo degli attori e la distinzione tra material e purposive groups, siano state inserite proprio nella versione di quell’anno.

Secondo Weible e Sabatier (2017, pp. 148-149), le verifiche attraverso la ricerca empirica volta a testare le ipotesi sopraelencate hanno confermato in larga parte l’ipotesi 1, aggiungendo molte informazioni importanti. Hanno infatti evidenziato che benché le coalizioni siano stabili, le defezioni di alcuni membri sono sempre possibili e anzi avvengono spesso. I membri estremisti possono lasciare la coalizione per prevenire l’adozione di una politica di compromesso che non condividono. Alcuni membri lo fanno invece in maniera opportunistica per raggiungere obiettivi di breve termine. Le elezioni

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