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3. STRUMENTI, TECNICHE E STRATEGIE NEL PROCESSO DI TRANSIZIONE

3.4 Il leasing azionario

Il leasing azionario è uno strumento che consente di abbinare alla tutela del controllo dell’impresa familiare il perseguimento di ulteriori vantaggi, è opportuno ricordare l’istituto dell’usufrutto che ne costituisce il fondamento.

L’usufrutto rappresenta un diritto reale di godimento su cosa altrui in virtù del quale il proprietario originario di un bene si spoglia del diritto di godere dello stesso e dei frutti che ne discendono, per trasferirlo ad un altro soggetto, il quale prende il nome di usufruttuario. L’usufruttuario, da parte sua, ha l’obbligo di rispettarne la destinazione economica e di goderne utilizzando la diligenza del buon padre di famiglia. L’interesse nei confronti di tale istituto giuridico assume rilevanza, nell’ambito del presente lavoro, in virtù della previsione che oggetto di usufrutto possano essere le azioni sociali.

Le azioni rappresentano titoli di partecipazione al capitale di rischio dell’impresa e conferiscono al titolare, oltre la qualità di socio (meglio azionista), una serie di diritti distinguibili in amministrativi e patrimoniali: i primi attribuiscono all’azionista il diritto di partecipare alle assemblee, il diritto di intervenire nelle stesse esercitando il voto, i diritti inerenti al controllo della gestione della società; i secondi attribuiscono il diritto a percepire dividendi, qualora la gestione aziendale abbia generato degli utili, e di ottenere la quota di patrimonio spettante in sede di liquidazione, recesso e diritto d’opzione.

Mediante la costituzione di un diritto di usufrutto sulle azioni, l’azionista attribuisce alcuni diritti amministrativi e/o patrimoniali di cui dispone (uso e godimento dei frutti) ad un terzo soggetto (usufruttuario), senza per questo perdere la qualità di socio (nuda proprietà). L’usufruttuario delle azioni, pertanto, non diviene socio, ma esercita una serie di diritti quali, ad esempio, il diritto di voto, il diritto di intervento nelle assemblee ordinarie e straordinarie, il diritto di ispezione dei libri sociali, la denuncia di eventuali irregolarità agli amministratori e così via.

Quello appena descritto è un meccanismo che consente di gestire i rischi connessi al passaggio generazionale nelle imprese familiari, poiché permette agli eredi di subentrare gradualmente nella gestione sociale e alla famiglia di mantenere inalterato il controllo dell’azienda.

L’ipotesi più ricorrente è quella in cui l’imprenditore, titolare dell’impresa di famiglia, trasferisce la nuda proprietà delle azioni ai figli, consentendo loro di subentrare nella

compagine sociale, riservandosi l’usufrutto quale compenso per l’attività svolta nel corso degli anni. Fino a che non si verificherà il ricongiungimento dell’usufrutto alla nuda proprietà, gli eredi avranno a disposizione un periodo di tempo sufficiente per poter subentrare gradualmente nella gestione ed acquisire sempre maggiore autonomia e competenza, mentre l’imprenditore, partecipando attivamente alla vita aziendale, continuerà ad essere parte integrante nel perseguimento degli obiettivi prefissati.

Un’ulteriore applicazione è ravvisabile nella cessione o nel conferimento ad una terza società dell’usufrutto relativo ad un pacchetto di maggioranza.

Scaturita dalla volontà degli azionisti-eredi di sindacare le proprie azioni e realizzare la tutela del controllo societario, la costituzione dell’usufrutto su una partecipazione maggioritaria consente agli stessi di trattenere la nuda proprietà delle azioni trasferendo i diritti di voto in capo ad un unico soggetto che esprimerà una volontà unitaria (e, quindi, esercitare il potere di comando) coerente con gli obiettivi e le finalità che i familiari intendono perseguire nell’ottica della continuità.

Il medesimo fine, ovvero la salvaguardia del controllo della società, viene raggiunto nell’ipotesi di un’operazione di leasing azionario sebbene, piuttosto differenti, risultino le modalità attraverso le quali ciò si verifica.

In questo caso, infatti, l’impresa di famiglia delibera un incremento del capitale sociale a fronte del quale ai soci-eredi viene inibito l’esercizio del diritto d’opzione sulle azioni di nuova emissione a vantaggio di un partner finanziario costituito da una società (finanziaria), un fondo d’investimento mobiliare chiuso, una merchant bank, ecc.

Una volta che la sottoscrizione è stata effettuata, il partner finanziario provvede a costituire sulle azioni di nuova emissione un diritto di usufrutto (comprendente, come detto, tra gli altri, anche il diritto di voto), che contestualmente e temporaneamente viene ceduto contro il pagamento di un corrispettivo.

Più in particolare, si è in presenza del cosiddetto leasing azionario diretto qualora l’usufrutto venga costituito a favore della medesima impresa familiare che ha proceduto all’incremento del capitale destinato;

al contrario si parla di leasing azionario indiretto qualora tale usufrutto venga attribuito ai soci-eredi oppure, in presenza di un gruppo, alla società che controlla l’impresa di famiglia.

È evidente che la possibilità di controllare i diritti di voto attraverso la tecnica dell’usufrutto sulle azioni (“diretta” o “indiretta”) rappresenta lo strumento che consente al fondatore di garantire la continuità dell’impresa di famiglia attraverso il controllo della stessa.

Il partner finanziario, dunque, in seguito alla cessione dell’usufrutto sulle azioni sottoscritte, diviene nudo proprietario ed, in quanto tale, conserva esclusivamente la qualità di socio, mentre l’impresa familiare, o la controllante, o i soci, divengono usufruttuari e, quindi, titolari dei diritti di controllo sulla gestione sociale.

Alla scadenza del termine stabilito contrattualmente, il partner finanziario provvederà a trasferire all’usufruttuario (impresa familiare/soci-eredi/società controllante), dietro il pagamento di un prezzo convenuto, la nuda proprietà delle azioni possedute.

Risulta evidente come, attraverso questo strumento, possano essere conseguiti oltre al controllo dell’impresa di famiglia una serie di benefici, quali l’incremento di risorse particolarmente qualificate, attraverso la sottoscrizione delle azioni di nuova emissione da parte del partner finanziario, come sopra descritto; i mezzi propri rappresentano, invero, risorse finanziarie per le quali non sussiste un obbligo di rimborso, diversamente da quanto previsto per la categoria dei mezzi di debito. La possibilità di disporre di maggiori risorse finanziarie avvantaggia l’impresa su più fronti: dall’ampliamento delle scelte gestionali alla riduzione della dipendenza dal sistema creditizio, dalla possibilità di accedere ai mercati regolamentati all’ingresso di nuovi soggetti nella compagine sociale che contribuiscono a professionalizzare la struttura aziendale spersonalizzando l’impresa dalla figura del suo fondatore.

3.5 Il trust

Il trust è un istituto di origine anglosassone il quale, seppure riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico a seguito dell’entrata in vigore della Legge 16 ottobre 1989 n. 364 che ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 1985329, ha raccolto, fino ad ora, scarsa attenzione sia in ambito applicativo, che regolamentare.

Invero, a differenza dei Paesi di Common Law in cui il trust, rappresentando uno strumento economico, semplice e flessibile, ha incontrato il favore dell’ordinamento ed ha incrementato nel tempo le proprie possibilità applicative dirigendosi addirittura verso il raggiungimento di finalità previdenziali e di tipo commerciale, nei sistemi di Civil Law, qual è il nostro, la presenza di tale istituto ha incontrato non pochi ostacoli riconducibili sostanzialmente alla differente concezione del diritto di proprietà ed ai rimedi giurisdizionali posti a tutela dello stesso.

Solo negli ultimi anni vi è stata una serie di interventi concreti volti a colmare il divario esistente tra l’ordinamento nazionale e quelli stranieri.

Il riferimento è all’art. 34 del disegno di legge sullo “sviluppo” approvato dalla Camera dei Deputati il 5 luglio 2005 che, con l’introduzione nel Codice Civile dell’art. 2645-ter334 avrebbe, secondo il parere di taluni, legittimato definitivamente l’utilizzo di tale istituto. Invero, l’entrata in vigore del citato art. 2645-ter ha destato particolare interesse nel mondo professionale con riferimento alla circostanza che si fosse in presenza di una norma sugli atti ovvero di una norma sugli effetti.

Gli elementi che caratterizzano la struttura ed il funzionamento di tale istituto lo rendono estremamente efficiente ai fini della trasmissione di patrimoni in maniera coerente con le disposizioni precostituite dal proprietario-disponente.

Mediante il ricorso al trust, infatti, il proprietario originario, che prende il nome di Settlor, vincola il proprio patrimonio, o una parte di esso, trasferendolo ad un Trustee affinché questo si occupi della relativa gestione ed amministrazione, ne attribuisca i frutti ai titolari di un interesse beneficiario e provveda a trasferirlo a questi ultimi nel corso o al termine della durata prestabilita.

Il Settlor, dunque, attraverso l’atto istitutivo di trust ha la possibilità di affidare, irrevocabilmente o meno, i propri beni ad un soggetto il quale, utilizzando la diligenza di un prudente uomo d’affari, si obbliga a porre in essere tutti gli accorgimenti ed i comportamenti che dovessero rendersi necessari al perseguimento degli interessi sottesi al rapporto.

Con riferimento a tale aspetto è utile sottolineare come, ai fini dell’adempimento dell’obbligazione assunta, il Trustee è responsabile esclusivamente nei confronti dei beneficiari del trust, poiché al momento del trasferimento, la titolarità legale dei beni non può più essere ricondotta al Settlor, neppure in via presuntiva; ciò comporta, tra l’altro, l’impossibilità per il Trustee di succedere al Settlor e, conseguentemente, di

prevedere una qualche imposizione a loro carico o, a maggior ragione, a carico dei beneficiari.

Il trust, dunque, se da un lato consente di segregare una parte del patrimonio del Settlor, dall’altro lato permette di isolare la parte in questione rispetto al patrimonio del Trustee, sottraendolo alle sorti del medesimo, al fine di destinarlo alle finalità che il Settlor ha indicato nell’atto istitutivo di trust: con la costituzione del vincolo di destinazione nel patrimonio del Trustee si realizza una vera e propria attività traslativa dal disponente al Trustee stesso.

Il forte impatto del trust derivante dall’assimilabilità dei trasferimenti patrimoniali ad una particolare forma di acquisto della proprietà a titolo originario da parte del Trustee, è in parte mitigato dalla previsione dell’autonomia del patrimonio personale di quest’ultimo da quello proveniente dal Settlor. Tale autonomia comporta una serie di conseguenze di innegabile rilevanza: in primo luogo i creditori del Trustee non possono soddisfare le proprie ragioni sui patrimoni dei quali lo stesso si occupa assumendone, sostanzialmente, il ruolo di nudo proprietario; inoltre, poiché i patrimoni in questione sono finalizzati a perseguire l’effettiva realizzazione della volontà del disponente, non sono neppure aggredibili dai creditori dei beneficiari del trust. Pertanto, tali patrimoni seguono un percorso privilegiato destinato a garantirne l’unitarietà nel tempo.

Un ulteriore aspetto meritevole di nota è rappresentato dalla distinzione tra trusts nudi e trusts discrezionali. Nel primo caso il grado di autonomia di cui gode il Trustee nel compiere tutti gli atti necessari per una corretta e prudente amministrazione del patrimonio segregato, trova forti limiti nel diverso grado di volontà espressa dal Settlor al momento della costituzione del trust. Il Settlor, pertanto, impartendo precise istruzioni riguardanti, ad esempio, la nomina di un “guardiano” (o protector), ossia un soggetto che ha il compito di controllare l’operato del trustee ed evitare eventuali comportamenti dello stesso in contrasto con il buon andamento della gestione dei beni in trust, ovvero l’individuazione dei soci-eredi designati alla successione ovvero la

determinazione delle quote di beneficio da ripartire, vincola fortemente il potere decisionale del Trustee. Al contrario, nei trusts discrezionali il potere del Trustee è talmente ampio da ricomprendere, tra gli altri, l’individuazione e la nomina dei beneficiari, l’esclusione di quelli eventualmente designati dal disponente e il vincolo di alcuni beni in nuovi trusts20.

Tradizionalmente sia i beni istituiti in trust che il disponente trasferisce al Trustee (costituenti il patrimonio), sia le utilità che ne scaturiscono (cioè il reddito), sono di spettanza di uno o più beneficiari indicati nell’atto istitutivo; tuttavia, il verificarsi di tale coincidenza è soltanto eventuale. Il trust, in quanto strumento duttile in grado di adattarsi facilmente al perseguimento degli interessi e degli obiettivi specifici dei soggetti che ad esso ricorrono, potrebbe talora caratterizzarsi per una separata destinazione del fondo dai flussi che nel tempo sono stati generati. In tale circostanza, in sede di redazione dell’atto istitutivo, si renderà necessaria l’identificazione,

nell’ambito dei beneficiari del trust, di coloro ai quali il disponente abbia riservato esclusivamente il godimento dei frutti. Le ragioni che sottendono una tale scelta possono essere molteplici; nelle imprese familiari il ricorso a tale pratica agevola la trasmissione dell’attività d’impresa alle generazioni successive garantendo al tempo stesso ad alcuni membri della famiglia il godimento e la disposizione dei flussi reddituali prodotti mediante la costituzione di vere e proprie rendite.

Oltre alla misura e alla modalità di assegnazione delle consistenze patrimoniali e reddituali, il disponente può prevedere la delega del proprio potere di nomina dei beneficiari. L’individuazione di tale categoria di soggetti, fonte di rilevante criticità per il disponente e per tale motivo spesso soggetta al verificarsi di particolari condizioni sospensive o risolutive, può essere invero attribuita, attraverso un’apposita previsione nell’atto istitutivo, al Trustee ovvero a soggetti terzi.

Il trasferimento del potere di nomina dei beneficiari scaturisce solitamente dall’impossibilità di conoscere a priori alcune circostanze dalla cui manifestazione dipenderà la stessa scelta; è per tale motivo che i beneficiari del trust possono non essere indicati al momento della redazione dell’atto e venire ad esistenza successivamente, nel momento in cui il Trustee (ovvero il terzo designato) eserciterà il potere che gli è stato legittimamente trasferito. Il mancato esercizio di tale potere determina, all’opposto, il mantenimento del vincolo esistente sul patrimonio segregato e, in virtù di ciò, l’impossibilità della relativa attribuzione ad uno o più discendenti del disponente, a meno che, a fronte di questa eventualità, non sia stato prudentemente individuato un beneficiario residuale.

In conclusione, la flessibilità nell’attribuire e nel revocare determinati poteri, nel tutelare alcuni interessi piuttosto che altri, nel redigere le clausole più opportune al perseguimento di particolari finalità, nel gestire efficacemente il fattore temporale, giustifica e rende opportuno il ricorso da parte del disponente-imprenditore al trust quale strumento efficiente nella pianificazione e gestione della successione nelle imprese familiari.

Il trust, dunque, conserva una propria area di interessante utilizzabilità nell’ambito della successione imprenditoriale, superando i limiti e le problematiche inerenti la trasmissione ereditaria dei patrimoni aziendali che altri strumenti, alternativi allo stesso, presentano.