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OPRA L’I
NCORONATIONE DIR
IDOLFIII.
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OHEMIA,
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ERENISSIMOF
IGLIOLO DEL GRANM
ASSIMILIANO D’A
USTRIA,
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ACRATISSIMO
I
MPERATORE.
FRANCESCO MARIA VIALARDO, VERCELLESE.
I.
VOI Sacri colli udite, ornate frondi, Herbose spiagge, e cristallini fonti:187
Odi gran Re de Fiumi,188 e quante ascondi
Nell’antro tuo, ch’è ner, tra piani e monti Dee, Ninfe, e i pastor lieti, giocondi Desta ad udir, fin che l’aurora spunti, I chiari carmi, e risonanti accenti De’ più famosi Cigni al canto intenti. II.
Voi Dryade189 volgete il passo dove
Già la fama immortal battendo l’ale Eccita i più gran spirti a più gran prove Far del alto valor, che ’l Cor le assale Cantando del divino Augel di Giove,190
187 Apostrofe dell’autore alla «gran madre», ossia la
Terra e in generale la Natura, affiché ascolti i suoi «chiari carmi». L’ampia invocatio alla Natura, alle Muse e a Dio continua nelle ottave VIII-XIII, unendosi alla consueta captatio benevolentiae, modulata anche nei termini della falsa modestia.
188 Trattasi di Tritone, figlio di Poseidone, dio del mare,
e della nereide Anfitrite, accompagnato verosimilmente dal corteo delle ninfe potameidi, naiadi, pegee e limnadi.
189 Driade o adriade era la ninfa delle quercie.
Che da terra poggiando in alto sale Sì, che sopra i superni, e santi chiostri Col volo asceso hor spezza i Regni vostri. III.
Tu fuor mostrando il bell’aurato lembo De la gonna leggiadra, e vaga Aurora Schiva e sdegnosa dal canuto grembo Del tuo vecchio Titon surgi,191 et honora
Della candida brina il dolce nembo Doppiando, l’alta voce, pia, sonora Del sacro, chiaro, illustre Aonio stuolo,192
C’hor de l’Aquila celebra il gran volo. IV.
Uccei tra frondi, e liquidi cristalli Da Progne desti,193 o ver da Filomena,194
190 L’Aquila, figurazione zoomorfa e augurale del
nuovo imperarotore Rofolfo II d’Asburgo.
191 Personaggio mitologico, Titone fu così bello da fare
innamorare di sé l’Aurora. L’immagine di Titone allude dunque a quella di Massimiliano II d’Asburgo, padre di Rodolfo, mentre quella della «vaga Aurora» alla madre Maria di Spagna.
192 L’Aonio indica per convenzione i monti della
Beozia, sede delle Muse.
193 Procne o Progne. Figura mitologica figlia Pandione. 194 Filomena o Filomela. Sorella di Procne. La celebre
storia di Procne e Filomela si intreccia con quella di Tereo, figlio di Ares. Tereo ebbe in sposa Procne da Pandione e con lei generò un figlio di nome Iti. Sedotto dalla voce di Filomela, Tereo si innamorò di lei, mentre Procne, rinchiusa in una capanna dal padre, veniva da lui dichiarata morta. Venuta a conoscenza dell’inganno e per non rivelare l’intrigo, Procne fu privata della lingua e posta fra gli schiavi. Salvata dalla sorella, Procne decise di vendicarsi di Tereo facendo uccidere da Filomela, con atto scellerato, il figlio Iti. Com’è inoltre noto, Al fine di evitare nuovi folli gesti, gli dei trasformarono Procne in una rondine, Tereo in un’upupa e Filomena in un usignolo. Proprio lei, che provocò involontariamente la morte di Iti, con il suo malinconico cinguettio di usignolo, avrebbe ora cantato tra le mura di Atene il triste ritornello «itu! itu!». Numerose sono le fonti classiche che trasmettono il mito di Tereo, Procne e Filomena: Tucidide, II, 29; Strabone, IX, 3, 13; Pausania, I, 41, 8; Nonno, Dion., IV, 320; Pausania, I, 5, 4; I, 41, 8 e X, 4, 6; Igino, Miti, 45; Sofocle, Tereo; Ovidio, Met., VI, vv. 426-674. Apollodoro, modificando il mito, nel libro III, 14 della
Già fate liete risonar le valli,
Hor che l’Augel, che vi governa e’ affrena, Per diritto sentier, per dritti calli
Scorre il mondo di dove il Sol ne mena Con e’ suoi raggi l’infiammato ardore, Sin là, dov’ogni cosa ingombra horrore. V.
Sgombri la notte, e le campagne intorno, Levin dal verde il fosco, oscuro manto; E scarco homai del tenebroso giorno Il Ciel ratto splendendo d’ogni canto Si rivolga di mille gemme adorno; Ne mai più svegli l’infelice canto Dicendo oltraggio al dipartito Sole, Lo svergognato uccel, ch’Athene cole.195
VI.
E piegarò la cagion, s’in me si desta Pari al pronto voler qualche valore, Perché debba ogni cosa in gioia, e ’n festa Spender i giorni, e scacciar quel furore,
Biblioteca, sposta la macabra vicenda del taglio della lingua sulla giovane Filomena, divenuta ora sorella di Procne: «Ma Tereo si innamorò di Filomena, e la sedusse, dicendole che Procne era morta, mentre l’aveva nascosta in campagna. Poi la sposò, la possedette, e le tagliò la lingua. […] Procne andò a cercare la sorella, poi uccise il proprio figlioletto, Iti, lo cucinò, e lo offrì per cena all’inconsapevole Tereo. [...] A Daulia in Focide, ormai braccate, esse pregarono gli dèi di trasformarle in uccelli: Procne divenne un usignolo, Filomena una rondine. Anche Tereo fu trasformato in uccello, e divenne un’upupa». (APOLLODORO, Biblioteca, a cura di M. Cavalli, Milano, Mondadori, 2013, p. 187.). Sul mito dei figli di Pandione e di Tereo cfr. R. GRAVES, Greek Myths, Harmondsworth, Penguin, 1955, trad. it. di E. MORPURGO, I miti greci, Milano, Longanesi, 1963, pp. 148-293. Il mito è descritto da Ovidio nel sesto libro Metamorfosi: cfr. OVIDIO, Metamorfosi, a c. di P. BERNARDINI MARZOLLA, Tornio, Einaudi, 2015, pp. 231-243 (VI, vv. 411-674). L’antica grafia «o ver» indica la congiunzione ovvero.
195 «Cole», verbo poetico derivante dal latino colit,
duole; cfr. anche G.RUSCELLI, Il Rimario […], a c. di S.OCCHI, In Venetia, Presso Simone Occhi, 1815, p.. 252.
Che la rende noiosa, aspra, molesta, In questa parte, o ’n quella a tutte l’hore: Gioir dunque devransi anchora i fiori, L’herbe, frondi, animai, campi, pastori: VII.
Dryade, Ninfe, Dei, superbi, monti, Fiumi, antri, boschi, grotte, valli, e fiere, Ville, Città, Paesi, Mari, e Fonti, Colli, e di noi tutte l’ellette schiere, Quinci vedransi anchora alzar le fronti, Et inarcar le ciglia a le più fiere Genti di meraviglia, e di stupore, Scorgendo voi RIDOLFI in tanto honore. VIII.
Mostrerò in queste rozze, inculte carte Quanti toschi, veneni, atre faville Habbi sparte iracondo, altiero Marte, E come il grand’Augel di Giove stille Virtude in copia per spegner con arte L’ire ardenti di lui, ch’a mille a mille Nationi fer è oltraggio, è scorno, e danno Come per vera prova, è certa hor sanno. IX.
Spiegarò ancor in bassi, inetti carmi L’alta bontà de’ Dei verso il Signore, Del qual vorrei cantar, non già di marmi Degno, o di bronzo, o d’oro, o d’altro honore, Ch’a mortal si può dar, ma, come parmi, Di vittorie, d’Imperi, e ch’a tutt’hore S’adorassi il suo nome alto, immortale, Contra cui mai lancierà morte il strale. X.
Apri del Tempio tuo le porte hormai O sommo Dio, ch’eterne fai le cose, Apri al mio dono il sen, ch’in grembo mai Così bel don Poeta a te non pose.
Dipinto il nome, e l’opre alte, famose Del gran RIDOLFI d’Austria vero essempio Di quanti huomini son nel tuo gran tempio.196
XI.
Questi è colui, che per soccorso invoco Solo a miei versi, e a mie mal colte rime: Questi può far, ch’io tenga il primo loco Nel tuo nobil Theatro, alto e sublime: La morte, e ’l tempo, ch’ogni cosa opprime. Né chieder voglio s’ho il favor di lei Altra Musa, altr’Apollo, o altri Dei. XII.
Obligo immenso a quella stella io tengo197
Che il nascer mio serbato ha nei suoi giorni;198
Che se ben mi fu avara, e ch’al mio ingegno Non die’ quei doni, ond’ha mill’altri adorni, Pur fa che del suggetto Illustre e degno L’oscura notte del mio stil s’aggiorni, E ricompensa i miei diffetti, e i danni Con l’havermi produtto in sì begli anni. XIII.
E se una lingua d’huom divoto e pio, Benché sia priva d’eloquenza, e d’arte, Restar non dee di porger laude a Dio Con voci humil senza ornamento sparte, Perché dunque vo oppormi al bel desio, C’ho di ritrar gli honori, la gloria in carte Di quell’Alma real, ch’in terra scese Per far tutto il Cielo il ben palese. XIV.
196 Tempio celeste di Gerusalemme.
197 Propriamente, secondo il calendario siderale, sotto
le stelle Ausellus Borealis e Ausellus Australis della costellazione del Cancro, indicanti la nascita di Rodolfo II d’Asburgo, avvenuta il 18 luglio 1552 a Vienna.
198 Forse, un possibile riferimento al mese di nascita del
Vialardi, speculare a quello del nuovo imperatore Rodolfo II.
Un tempo la crudel, sanguigna spada Oprò Marte feroce a danni nostri, Né tenne mai la bella Europa a bada Suscitando crudeli, horrendi mostri199
(Sotto e quali forza e che virtù cada) Che dier materia di vergar d’inchiostri Le carte a i dotti figli d’Helicona,200
Di cui pe’l mondo chiaro il nome suona. XV.
S’alcuni ardir prendean solcar il Mare, Quantunque in nave ben spalmata e forte, Corsali colmi di voglie empie, amare201
Aprendo a l’impietà l’ingiuste porte Gli facean dal capo a i pie spogliare, E crucciavano tanto insin ch’a morte Giugnean da molti tormenti consonti, Onde a pietà movean le fiere, e i monti. XVI.
Tallhora il Mar gonfio, turbato e fiero Versò ’l lito sospinse un monte d’onde Soggiogando al feroce, al’alto Impero Le gran navi, c’hor empio, infido asconde. E pieno d’ira, e perciò in viso nero, Fremendo ancor fe’ impallidir le sponde; Onde ben fu quello naviglio stolto, Che del costui furor si fidò molto. XVII.
Colmo d’ira Nettun, di rabbia pieno Spargea per gli occhi, pe’l viso e la bocca Il crudel tosco, e l’aspro, e gran veneno, Ch’a guisa di saetta d’arco scocca Contra color, che lasciati il bel seno,
199 Si noti il riferimento allo stato politico belligeranza
dell’Europa politica di fine Cinquecento.
200 Propriamente coloro che praticavano le divine artes
et scientiae erano definiti i «figli d’Helicona», dal monte sacro alle nove Muse.
201 I corsali erano i ladri di mare, identificabili con gli
Come grandine, che dal Ciel giù fiocca, L’andaro a molestar con navi in mare, E percuoter co’ i legni l’onde amare. XVIII.
E s’alcun pensò mai d’esser uscito Fuor di travaglio, di periglio e pena Vedendo intorno al Mar rider il lito, Ei dolce in viso bagnar l’ampia arena: Allhora trova il legno suo sdruscito,202
E ’n oscura cangiarsi aria serena; Onde si sface, et ange, e quant’infido Sia ’l Mar conferma con publico grido. XIX.
Infin cosa non v’è qui sotto il cielo Stabile, e ferma, che la saggia mente, Quale ancora chiamanti oscuro velo Non mai fra varij desir varia, o mente: E non curando del pungente telo Di morte ria, con d’onde uscì, consente Bramando lieta di volar su in alto, E spogliarsi del fral, terreno smalto. XX.
Il foco hora vibrando le facelle,203 Hora fiamme spargendo in varie guise, Hor fa draconi, hora comete isnelle. Che scorrono per l’aria in sé divise, Hora incende, e salir fa al ciel querelle; Hora giova a mortai: onde s’en rise Sin che visse un gran dotto, e per cagione Che si cangia ogni cosa ogni stagione. XXI.
L’aria impresso di qualità diverse204
202 Sdrucito. Il verbo sdruscire, ponendo la consonante
s davanti alla c, aveva l’effetto di raddolcire il suono in certe uscite metrico-poetiche. Cfr. G. GHERARDINI, Lessicografia italiana […], Milano, Co’ tipi di Luigi di Giacomo Pirola, 1849, p. 501.
203 Primo elemento naturale.
Hor cria nembi, hor nubi, hor ghiaccio, hor nevi, Calar fa abbasso, sotto e quali immerse
Si scorgon cime d’alti monti, hor brevi, Hor lunghe pioggie manda, hor nette, e terse Ruggiadi dà a la terra, che ricevi:
Indi mille archi in mille bei colori
Dipinge, e hor frena, ed hor allenta humori.205
XXII.
L’acqueo humor hor si condensa e strigne206
D’onde la bella Ninfa il cristal fece; Hora vapori sino al ciel sospigne, E si formano nubi in loro vece, Hor acqueta le febri empie, maligne, Hora qual negra e venenata pece207
N’ammorba, snerva, spolpa, frange, e ancide,208
Sì che la terza Parca allegra ride.209
XXIII.
Ma la gran madre,210 che nel’ampio seno
Raccoglie dopo lagrimosa vita E dolci figli, e ciò che venir meno Vede da ’l tempo, o da morte sbandita, E ch’ogni cosa a noi ne porge a pieno211
In sé ritien mutation infinita,
Com’ombra c’hora dritta è, hor fere a lato: Così lei cangia e faccia, e stile, e stato. XXIV.
Questa gran madre de gli huomini et Dei Vien hor percossa da furor, tempesta, Da folgori, da sassi, e lampi rei, Hor fraccassata dalle palle e pesta:
204 Secondo elemento naturale.
205 Si noti l’ampio uso dell’anafora hor. 206 Terzo elemento naturale.
207 «Venenata» dal latino venenatus, ossia avvelenata
(cfr. veneno).
208 Si noti l’ampia climax sinestetico-allitterante. 209 Atropo.
210 La Terra, quarto elemento naturale. In termini più
ampi la «gran madre» indica anche la Natura.
Hor svenata al ciel alza e tristi omei, Hor scossa, e sottosopra volta, hor desta Dà colpi horrendi, hor da l’ardor consonta, Hor in tenebre avolta, e da horror sconta.212
XXV.
Febo tallhor quando temprato il raggio Gli manda, e la riscalda dolcemente,213
Si dice che pastor regale et saggio Fatto governa il gregge humanamente: Ma quando poi qual vento irato il faggio Suol, la percuote, e ’nfiamma acerbamente, L’accende, l’arde, e la consuma intanto, Che ’l tutto s’ode risonar di pianto. XXVI.
E se tallhor spunta l’aurora calda Segue costui spronando e suoi destrieri, Rallenta il fren dorato, e ogni gran falda Di neve strugge, e per tutti e sentieri Fa correr fiumi a furia, e ’l tutto scalda, Raccende i cori dispettosi e fieri, Gli move crudi assalti, e a dure imprese Gli eccita, a i sdegni antichi, a gli odi, a offese. XXVII.
Fetonte il fece quando verso terra Sferzò i destrier scorrendo ogni paese, Sì che ogni nostro ben mandò sotterra: Ma il gran padre Eridan sentir l’offese Fe’ al padre suo, ch’ogni impietade atterra, Qual mentre pensa castigarlo scese L’incauto giovinetto, e ’n Po s’immerse, Che da la rabbia spinto nel sommerse.214
212 Si noti ancora l’ampio uso dell’anafora hor.
213 Richiamo alle divinità di Apollo e in particolare di
Fetonte (cfr. ott. XXVII).
214 La suggestiva immagine della calda aurora che
accompagna Fetonte, o Elio, spronando i suoi cavalli si ricollega successivamente al mito e suo valore morale e sacrificale. Fetonte per aver sottratto il cocchio al padre Elio fu annentato da Zeus con una folgore, precipitando
XXVIII.
D’ira infiammato, e giustissimo duolo Apollo poi raccolse il carro vuoto,215
e sdegnoso passando a l’altro polo Vadin pur, disse, le città qui a nuoto, Le castella con le provincie, e solo Resti l’horrore, quanto vibro e scuoto Di mal, che costor prema, uccida, e straccia, Si cangi in dura pietra ogni lor faccia. XXIX.
E se non fia, che del gran CARLO QUINTO Di FERDINANDO, di RIDOLFI, e ALBERTO, Di MASSIMILIAN, FILIPPO cinto
Di vero honor, e del divino e certo
Seme d’AUSTRIA le stelle hanno qua spinto Per loro gloria, riverentia, e merto
Da li ampi giri lume santo, eterno, Saressimo sepolti hor nel’inferno. XXX.
Tra gl’altri Dei fu ver noi più crudele Colui che nacque in mezo la Tessaglia216
Fra gente fiera, al ferro avezza, e a vele, Che semina discordie, e a la battaglia, A le risse, a li assalti incita, e ’n tele Di fino acciar scuopre quanto ei ne vaglia Scuotendo i Regni a guisa di gran lampo, Che batte in spatioso, aperto campo.
nel Po. Qui Fetonte sarebbe stato compianto dalle sorelle, trasformate da Zeus in pioppi e poste lungo le rive del fiume. Sul celebre mito cfr. R.GRAVES, Greek Myths cit., pp. 138-141.
215 Corrispondenza tra il mito di Fetonte e quello
d’Apollo.
216 Si tratta di Marte, adirato con Vulcano per essere
stato sorpreso da lui con «La bella Dea», Venere. Si tenga a mente, che anche Apollo ebbe a sdegno Vulcano, che per mostrare l’adulterio di Venere agli altri dei, spalancò le porte della stanza da letto, dove la dea giaceva con Marte.
XXXI.
Costui sdegnato per Volcan, che colse La bella Dea con lui giacendo a lato Con sottil rete, 217 e ’l sol, che lieto accolse
Il splendor per mostrarlo invilupato A li altri Dei, del cui rider si dolse, D’ira, di rabbia, sdegno et odio armato Tant’ira accese ne gli humani cori, Che seguiro molti empi,218 infandi errori.
XXXII.
E così avien, ch’a chi lo sdegno ingombra Il petto, e ’l cor pien di bestial furore, Il giudicio, la mente, e virtù isgombra: Né questi sa che sia divin’ amore Seguendo sol de suoi vestigi l’ombra, E dove il falsa, e scelerato ardore
Lo sprona, alletta, sferza, spinge, e caccia Corre veloce, e fumi, ed ombre abbraccia. XXXIII.
Cantar del crudo, e sanguinoso Marte Altri li assalti, e le feroci imprese, E spiegarò altamente in dotte carte I sdegni suoi, l’ardenti ire, l’offese, Et ivi poser ogni ingegno ed arte Mostrando come ogni villa, e paese Suggetta fu al bellicoso ardore
A danni, a guerre, et al Martial furore.219
XXXIV.
Com’ hor armò contra la Grecia tutta
217 Venere, moglie di Vulcano. L’immagine della rete
fa riferimento all’artificio elaborato da Vulcano, per intrappolare i due amanti, Venere e Marte, durante un loro furtivo incontro d’amore – «Extemplo graciles ex aere catenas retiaque et laqueos, quae lumina fallere possent» (Met., IV, vv. 176-177) –. Il mito è narrato da Ovidio nel quarto libro delle Metamorfosi (cfr. OVIDIO, Metamorfosi cit., pp.140-143).
218 Seguirono.
219 Propriamente, l’ira del dio Marte.
L’Asia, hora spinse tutta Grecia a Troia, Hor da Romani ogni provincia strutta Come fu, e quanta guerra, e quanta noia Dié l’Egitto a l’Ethiopia nera, asciutta;220
E quant’hebbe il gran Persa,221 e ricco gioia
D’haver tolta di mano al grand’Assiro La Monarchia per via del forte Ciro. XXXV.
Come al Medo costui l’havea già tolto:222
Altri scrisser le guerre, e i fatti egregi Del popolo di Giuda, e come stolto Colui che si chiamava Re de Regi Fu da Thomyri, e i Sciti rotto, e colto Fatto morir per le barbare legi, E come l’alma disdegnosa in tanto Se n’andò a far lamenti a Rhadamanto.223
220 Le vicende belliche tra gli egiziani e gli etiopi, come
il ruolo di generale egizio di Mosé, sono narrate dallo storiografo ebreo Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche e nel Contra Apionem. In particolare nelle Antichità Giudaiche, il Flavio scriveva: «[…] Gli Etiopi, che cogli Egiziani confinano, corsene le terre, diedero loro gran guasto. Essi spinti da sdegno si collegavano conto i nimici per vendicar l’onta, che n’ebbero; e restati al di sotto nel fatto d’armi, parte vi furon morti e parte vergognosamente salvaronsi rifuggendo alle proprie terre; […] Consigliandoli dunque il Dio a valersi dell’uomo ebreo a sovvenitore, ingiugne il re alla figlia, che gli consenta Mosè per essere suo generale. […] Ora Mosè, non sol da Termuti ma dal re stesso esortatovi, di buon grado accetta l’impegno» (G. FLAVIO, Delle antichità Giudaiche, tradotte dal greco […]dall’abate F. Angiolini piacentino, Milano, Dalla tipografia di Gio. Battista Sonzogno, 1821, pp. 132-133). Va inoltre ricordato che nel 1544 era stata pubblicata a Venezia, appresso Vicenzo Vaugris, dal letterato modenese Pietro Lauro, una traduzione in lingua volgare delle Antichità Giudaiche.
221 Calco oraziano: «Audiet civis acuisse ferrum / quo
graves Persae melius perirent: / audiet pugnas, vitio parentum / rara iuventus» (Odi, I, II, vv. 21-24), cfr. ORAZIO, Odi, in Opere, a c. di T.COLAMARINO e D. BO, Torino, Utet, 2012, pp. 234-237.
222 Medo era il figlio di Medea e di Egeo, re di Atene.
Com’è noto Medea, per mantenere intatto il governo della città di Atene nelle mani del figlio Medo, cercò di allontanare Teseo, legittimo erede al trono; cfr. R. GRAVES, Greek Myths cit., pp. 302-306.
XXXVI.
Come ’l fier Macedon fra mille squadre, Mille esserciti vittorioso passa,
E come figlio di così gran Padre A Re toglie lo scettro, e indi fracassa Lor’ esserciti, e poi a la gran madre Suggetto a lei quasi nel grembo lassa L’alma, il corpo, le gran ricchezze e Imperi I Regni, le corone, e i scettri interi.
XXXVII.
Come i Tartari, e i turchi da spelunche Usciti soggiogaro al lor’ impero Quanto si stende dalle cime adunche Del maggior monte al popol sozzo e nero, E da la Persia sino a le gran conche Del mar d’Adria, del gran Sarmato fiero, E che crudi con barbaro furore
Non si curan di Dio, né del suo honore. XXXVIII.
Come i Romani folgori di guerra Ferno l’armi volar, le leggi, e ’l nome In ogni parte, e per tutta la terra;