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2. L‟Ente Comunale di Assistenza (1937-1944)

2.1 La legge 19 giugno 1937, n 847

Con il Regio Decreto del 19 giugno 1937, n. 847, entrato in vigore il 1° luglio, nasceva l‟Ente Comunale di Assistenza, che assorbiva ed ereditava le funzioni e le strutture sia degli Enti Opere Assistenziali sia della vecchia Congregazioni di Carità. Il disegno di legge fu presentato alla Camera dei deputati dallo stesso Mussolini, nella funzione di ministro dell‟Interno. Nel testo non compariva alcun riferimento al ruolo del partito fascista. La stessa denominazione scelta per il nuovo ente era una riprova della sua identificazione più con l‟amministrazione statale che col partito, nonostante fosse prevista la presenza di membri dei locali fasci di combattimento e, soprattutto, del podestà, all‟interno del consiglio di amministrazione.

L‟Ente Comunale di Assistenza doveva essere istituito in ogni comune del Regno al fine di assistere gli individui e le famiglie che si trovassero in condizioni di particolare necessità (art. 1), e doveva essere amministrato da un Comitato presieduto dal podestà e composto da un rappresentante del Fascio locale di combattimento, designato dal segretario dello stesso, dalla segretaria del Fascio femminile, e da un numero variabile di rappresentanti delle associazioni sindacali61.

Creato come ente morale di carattere pubblico e autarchico, l‟ECA poteva possedere un proprio ristretto patrimonio e godeva in teoria di una buona autonomia, sia finanziaria che organizzativa, rispetto al governo centrale. Indipendenza che non lo sottraeva al controllo sull‟attività svolta da parte del prefetto, secondo le norme di vigilanza delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. Non era un ente territoriale bensì istituzionale, cioè caratterizzato dallo scopo con cui era stato creato piuttosto che dal territorio su cui esercitava la

61 I rappresentanti sindacali erano quattro nei comuni con popolazione superiore ai 20mila abitanti,

sei nei comuni non superiori a 100mila e otto negli altri. Essi erano nominati dal prefetto in base a terne proposte dalle associazioni sindacali legalmente riconosciute, ovvero quelle fasciste. Duravano in carica quattro anni e avevano la possibilità di essere riconfermati alla scadenza del mandato.

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propria attività. Delle vecchie Congregazioni di Carità raccolse la funzione di aiuto legale ai poveri, mentre molti più legami sono riscontrabili con la passata attività degli EOA, come i criteri adottati per la selezione degli aventi diritto all‟assistenza e l‟utilizzo del già citato libretto di assistenza.

Nel Novissimo Digesto Italiano del 1957 vi è una voce dedicata all‟Ente comunale di assistenza elaborata da Michele La Torre, il quale riassunse quelli che erano stati, a suo avviso, i motivi ispiratori della legge n. 847:

1) L‟opportunità di coordinare e fondere l‟attività delle Congregazioni con quella degli Enti Opere Assistenziali, istituiti in ogni capoluogo di provincia dal partito fascista. Poiché questa attività, anziché transitoria, sembrava divenire stabile, conveniva fondere gli sforzi di vari enti in uno solo;

2) Necessità di elevare l‟attività dal piano della “beneficenza elemosiniera” a quello più moderno dell‟assistenza, che mira a sovvenire il bisognoso in modo più adeguato e fruttuoso (per quanto possibile con aiuti continuativi, con provvidenze che assicurino la cosiddetta qualificazione del lavoratore e il collocamento di lui in un posto di lavoro, ecc.)

3) Necessità di estendere l‟attività benefica, avvalendosi di apporti svariati (proventi di sottoscrizioni, imposta addizionale per l‟assistenza sociale) 4) Convenienza di accentrare il potere in poche mani politicamente sicure, a

tal fine fu compreso nell‟amministrazione dell‟ente il capo del comune, il podestà, ed altri esponenti del fascismo locale62.

La legge n. 847 presentava però alcuni difetti che contraddistingueranno la vita dei vari ECA nazionali per tutto il periodo in cui furono attivi. Nella definizione dei compiti sono presenti caratteri di eccessiva genericità, concedendo, di conseguenza, ampi spazi di autonomia a chi aveva il compito di gestire la nuova istituzione comunale. Ciò si rivelò un‟arma a doppio taglio: da un lato gli amministratori potevano adattare i loro interventi alle esigenze degli indigenti del posto, ma dall‟altro lato un raggio d‟azione così ampio finiva per disperdere in mille rivoli le loro già scarse risorse, andando a creare anche

62 Cfr. M. La Torre, “Ente Comunale di Assistenza”, in A. Azara, E. Eula (a cura di), “Novissimo

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situazioni di sovrapposizione con enti affini. Questa discrezionalità, inoltre, si scontrava in modo netto con il principio, sancito dalla legge Crispi, del divieto di parzialità per motivi politici o religiosi perché, non definendo dei limiti precisi, l‟erogazione dei sussidi era a discrezione di chi aveva il compito di vagliare le richieste di assistenza. Un organo come l‟ECA, erogatore di servizi propri e con funzioni di controllo su altri enti affini, avrebbe necessitato di compiti più precisi e vincolanti. Essi erano racchiusi nella formula “assistenza generica”, e per questo motivo tutte le disposizioni testamentarie in favore dei poveri, prive dell‟indicazione dell‟istituto cui erano destinate, andavano a confluire nelle casse dell‟ente. La riforma ebbe comunque il merito di sancire la definitiva affermazione della responsabilità statale nei confronti degli indigenti, poiché il finanziamento di tali enti era realizzato attraverso l‟imposizione di un‟addizionale e la creazione di un apposito capitolo di spesa nel bilancio del Ministero dell‟Interno.

Per ciò che riguarda adunanze, deliberazioni, vigilanza, impiego di capitali, la legge non portò alcuna innovazione, rimandando alla regolamentazione adottata con la riforma crispina e modificata successivamente nel 1923. L‟assistenza generica agli indigenti, tramite sussidi in denaro o in natura, non escludeva altri tipi di prestazioni, come quelle rivolte verso l‟assistenza sanitaria, quella scolastica o nei confronti dei capifamiglia disoccupati. L‟assistenza in denaro fu sempre praticata, ma era anche fortemente sconsigliata, perché più facilmente soggetta a speculazioni e a creare forme di dipendenza dagli aiuti statali. Inoltre doveva essere riservata una particolare considerazione ai cittadini più meritevoli come i reduci della prima guerra mondiale o i fascisti della prima ora. Per poter ricevere assistenza da un ECA bisognava avere il „domicilio di soccorso‟ nel comune in cui esso si trovava, altrimenti si potevano ricevere solo aiuti “minimi”, come razioni alimentari o accessi alla mensa gratuita.

I sussidi potevano essere temporanei o continuativi: i primi servivano a coprire una condizione di bisogno contingente, dovuta a una malattia, una disoccupazione di breve periodo o altre circostanze simili; i secondi venivano invece distribuiti a quelle famiglie di cui era stato accertato lo stato permanente di bisogno, come nuclei molto numerosi (almeno tre figli con non più di 14 anni), o

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composti da vedove con figli a carico o da persone inabili al lavoro63. L‟importo dei sussidi aveva un valore diverso in ogni singolo comune italiano e dipendeva strettamente dalle capacità finanziarie di ciascun ente. Per questo motivo due famiglie con la stessa composizione ma residenti in città diverse ricevevano forme di aiuto differenti. Questo fattore contribuiva a rendere impossibile la definizione di una soglia minima valida in tutto il Paese e a cui i singoli enti dovevano conformarsi nell‟erogazione delle loro prestazioni, a tutto discapito degli indigenti dei comuni in cui operavano gli ECA con minori risorse, presenti soprattutto nel Meridione e nelle Isole.

La distribuzione dei fondi da parte del ministero dell‟Interno non seguiva criteri ben definiti, legati alla popolazione povera della città o al contributo che gli abitanti del comune avevano versato a titolo di addizionale ECA, ma era a discrezione dell‟organo statale. Ciò che accomunava però tutti gli enti era l‟inadeguatezza delle entrate per sostenere delle iniziative conformi alle richieste, tanto che molto spesso si veniva a creare una notevole divergenza tra i bilanci presentati nei conti preventivi e quelli dei conti consuntivi. Nel 1937 il bilancio preventivo dell‟ente pisano era stato di 1 milione e 378mila lire, mentre il bilancio consuntivo fu di appena 433mila £ in entrata e poco più di 400mila in uscita64. Le entrate totali erano date dalle entrate effettive ordinarie, dal movimento di capitali (ritenute per pensioni e depositi fruttiferi) e dalle partite di giro (magazzino oggetti, imposte e tasse, fondazioni, ecc.), ma queste ultime erano irrilevanti in rapporto al contributo stanziato dal governo.

L‟istituzione dell‟ECA prevedeva la fusione obbligatoria con esso delle altre istituzioni Pie aventi ugual fine presenti nel territorio (art. 7) e il decentramento delle istituzioni che avevano fine diverso dall'assistenza generica, come ospedali, orfanotrofi, ricoveri per anziani, etc. (art. 8). Tra queste istituzioni ereditate dall‟ECA pisano troviamo la Pia Casa di Misericordia, la Pia Eredità Ceuli, la Pia Eredità dal Poggio, l‟Opera Pia Mezzanotte, la Pia Eredità Ruschi, la Pia Eredità Fancelli, l‟Opera Pia Casciani e l‟Opera Pia del Voto dei Pisani, le quali erano tutte state create con il fine di conferire doti a fanciulle povere della

63 Cfr. M. Paniga, “Welfare ambrosiano …”, op. cit., p. 51.

64 Cfr. ASPi, Fondo Ente comunale di assistenza di Pisa e delle Opere Pie aggregate, b. 1145,

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città di Pisa. Dell‟ente entrarono a far parte anche il Collegio Puteano, fondato nel 1605 dall‟arcivescovo di Pisa per il mantenimento degli studi universitari di giovani piemontesi bisognosi, l‟Opera dei Bagni di San Giuliano, stazione per le cure termali, l‟Ospizio Marino di Bocca d‟Arno, il Legato Aulla, l‟Eredità Bertolli, la Fondazione Italia, la Liberalità Pardo-Roques, l‟Eredità Piamonti, l‟Eredità del Rinfresco e dell‟Assunta e la fondazione Rosario65

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Molti di questi erano istituti erano stati amministrati dalla Federazione Pisana di Opere Pie Elemosiniere e di Cura, istituita con decreto prefettizio del 27 maggio 1928 n. 6791. La sua costituzione rispondeva ad una specifica esigenza legata al fatto che la consistenza patrimoniale di ciascuna opera pia non permetteva il mantenimento necessario per assicurarne il buon funzionamento, garantito invece grazie ad un personale amministrativo valido per tutti e stipendiato tramite il pagamento di una somma versata da ogni singola istituzione66. Nei piani del regime vi era la convinzione che le fusioni delle IPAB avrebbero portato alla costituzione di un buon patrimonio da aggiungere a quello delle Congregazioni. In realtà queste avevano fondi molto scarsi e vivevano dei contributi dei soci, i quali, privati ormai della gestione diretta, smisero progressivamente di versare tali quote. Il risultato fu che la concentrazione delle altre IPAB finì per costituire un onere gravoso per gli ECA, invece di essere una risorsa in più rispetto al contributo governativo67.

Con la fusione degli EOA e delle Congregazioni di Carità in un unico ente con scopi più vasti e importanti, fu necessario provvedere all‟assunzione di personale adeguatamente preparato ed esperto nel settore assistenziale. A Pisa, si scelse di destinare all‟ECA personale proveniente dalla Federazione dei Fasci di combattimento, in aggiunta al personale di servizio presso la Federazione Pisana delle Opere Pie elemosiniere e di Cura e che era semplicemente rappresentato da un segretario, un tesoriere, un custode usciere e un applicato di ragioneria, ruolo svolto da un pensionato che prestava servizio saltuariamente. Fu inoltre aperto un

65 Cfr. ASPi, Fondo Ente comunale di assistenza di Pisa e delle Opere Pie aggregate, b. 1022,

“Opere Pie amministrate”.

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Con la costituzione dell'ECA, dotato di autonomia amministrativa, la Federazione perse progressivamente importanza, finché venne definitivamente sciolta con decreto prefettizio il 27 luglio 1970 n. 1217.

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Ufficio di Assistenza con un direttore, un impiegato di concetto distaccato presso la prefettura, un applicato e un dattilografo/archivista. Un altro dipendente venne selezionato tra i reduci dell‟Africa Orientale Italiana che avevano prestato servizio volontario presso l‟ECA prima di andare in guerra68

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L‟ente comunale, oltre ad essere stato designato come organo di assistenza generica, aveva tra i suoi fini anche la tutela degli interessi dei poveri e la loro difesa in tribunale. Grazie a queste attribuzioni esso rivestiva una posizione di maggior rilievo rispetto agli altri enti assistenziali, ma in realtà la sua istituzione non aveva rivoluzionato il settore, poiché i suoi compiti non si discostavano molto da quelli avuti in precedenza dalla Congregazione di Carità: l‟erogazione di sussidi, la distribuzione di generi alimentari e di medicinali, la gestione di mense, ricoveri e colonie estive. La creazione di questo nuovo ente non apportò quindi nessuna innovazione significativa per ciò che riguarda la concezione dell‟assistenza, che continuò a mantenere caratteristiche di residualità e di inefficienza, senza introdurre quell‟intervento alle “origini del problema della povertà” che la stampa fascista aveva cercato di prefigurare:

“la legge riguarda non soltanto le istituzioni puramente caritative, ma anche

quelle le quali, più che a soddisfare i bisogni dei singoli, mirano a scopi generali di conservazione, di tranquillità, di benessere, di miglioramento economico e morale della società e, senza confondersi con gli istituti di previdenza, si propongono la protezione delle nuove generazioni, mediante l‟assistenza della maternità e dell‟infanzia, e la prevenzione degli effetti socialmente dannosi, sull‟inabilità, delle malattie, della vecchiaia e della disoccupazione, integrando con idonee prestazioni le risorse individuali. Il concetto di povero rimane lo stesso, ovvero non che manchi assolutamente di tutto, ma che non abbia in misura sufficiente quanto gli occorra per sussistere convenientemente”69.

Benessere, tranquillità, miglioramento economico e morale, sono espressioni che non ritroviamo nel testo della legge n. 847, e infatti lo stesso articolo, poche righe dopo, afferma che la concezione di povero non arriva a nessuna modifica. Nessuno scarto sostanziale, dunque, fu rappresentato dall‟ECA rispetto alla Congregazione di Carità.

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Cfr. ASPi, Fondo Comune di Pisa (sezione separata dell‟archivio comunale postunitario), b. 214, “Lettera del direttore tecnico dell‟ufficio di assistenza dell‟ECA, Enzo Leoni, al podestà Zami”.

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L‟ente svolgeva inoltre quelle funzioni proprie delle varie istituzioni che era chiamato a gestire, come il soccorso invernale ai disoccupati, misure d‟emergenza in caso di terremoti o alluvioni, sussidi a profughi, ciechi, invalidi, e, dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, si occuperà anche dell‟assistenza post-bellica. Le richieste di aiuto ricevute erano tantissime, anche perché i Fasci femminili e i Gruppi rionali avevano smesso di fornire aiuti agli indigenti come avveniva nel passato, pur rimanendo un fondamentale punto di appoggio per l‟elargizione degli aiuti da parte dell‟ente, perché radicati sul territorio e già a conoscenza delle famiglie indigenti.

La circolare 15 giungo 1937, n° 25292.2, del Ministro dell‟interno Mussolini, anticipava ai prefetti del Regno le motivazioni alla base della costituzione del nuovo ente. La volontà era quella di dare continuità alla riforma del 1923, andando sempre più verso il superamento del concetto di beneficenza in favore di pratiche più moderne che avrebbero dovuto tenere conto delle esigenze minime della vita umana e sociale:

“se la riforma del 1923 della vecchia legge sulle opere pie aveva integrato il vieto e superato criterio della beneficenza con quello dell‟assistenza e l‟oggetto dell‟attività relativa aveva indicato non più e non tanto nella povertà, nel senso pietistico e tradizionale della parola, bensì, e più, nella necessità di aiuto, ragguagliata ad un criterio di valutazione offerto da una visione modernamente realistica delle esigenze minime della vita umana e sociale, la legge di prossima pubblicazione da corpo e figura alla attività soccorritrice come funzione sociale di una umana e civile solidarietà, definendo con l‟art. 1, secondo comma, in armonia con tale fisionomia, le condizioni di coloro che permanentemente o in via transitoria debbano essere sostenuti, e adeguando ai principi così accolti la struttura dell‟organo cui è demandata l‟esplicazione di tale attività.” 70

La circolare aveva lasciato la possibilità, per i prefetti, di affidare la gestione straordinaria dell‟ente a soli tre elementi: podestà, segretaria del Fascio femminile e rappresentante del Fascio di combattimento. Ciò rispondeva all‟esigenza di accelerare i tempi del passaggio di competenze e procedere alla normalizzazione del settore nel più breve tempo possibile, ma a Pisa ciò non accadde. Venne costituita una Commissione straordinaria, preludio del futuro consiglio di amministrazione ufficiale, che si riunì per la prima volta il 1 luglio

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1937, con il compito di gestire la fase di transizione dei poteri. Essa era composta dall‟onorevole Giovanni D‟Achiardi, podestà di Pisa, nel ruolo di presidente, dal segretario Pietro Giachetti, dal Ragioniere Giuseppe Cassola, dal comm. Federigo Menna, rappresentante del Fascio di combattimento e dalla dott.ssa Giuseppina de Guidi, segretaria del Fascio femminile. In più erano presenti gli amministratori della Congregazione di Carità e quelli delle Opere pie. Erano invece assenti i rappresentanti delle associazioni corporative. Essi faranno la loro apparizione nella riunione del 20 novembre 1937, nella quale vennero prese le prime disposizioni per l‟avvio del soccorso invernale. Erano presenti il signor Giulio Buoncristiani, rappresentante dell‟Unione Fascista Industriali, il comm. Giovanni Ballestrero, rappresentante dell‟unione dei Commercianti, il comm. Ferrucci, rappresentante dell‟Unione fascista degli agricoltori, il cav. Macchi Celestino, rappresentante dell‟Unione fascista dei lavoratori dell‟agricoltura, il cav. Giannuzzi Guglielmo, rappresentante dell‟Unione fascista dei professionisti e degli artisti71.

Al momento della sua istituzione, l‟Ente Comunale di Assistenza pisano aveva un fondo di £ 71.026,65, eredità della Congregazione di Carità cittadina72. Il primo compito che la Commissione straordinaria dovette svolgere, come definito dalla circolare di Mussolini, fu quello di stilare il programma di intervento per l‟anno successivo. L‟art. 9 della legge imponeva agli amministratori di farlo entro il 30 giugno successivo, poi prorogato al 31 luglio. All‟approvazione del prefetto doveva essere portato anche un dettagliato resoconto sull‟operato svolto dall‟ente nei dodici mesi precedenti, così come disposto per tutte le IPAB. L‟ECA era inoltre sottoposto anche alla tutela della Giunta provinciale amministrativa (GPA).

Per non appesantire l‟amministrazione con istituti aventi fini diversi e lontani (ospedali, orfanotrofi, ecc), fino ad allora compresi all‟interno delle Congregazioni di Carità, fu ammessa, nell‟articolo 8 della legge n. 847, la possibilità di lasciare, per tali istituti, una rappresentanza autonoma da realizzare

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Cfr. “L‟insediamento della commissione amministratrice dell‟ECA”, in “La Nazione”, 20/11/1937.

72 Cfr. ASPi, Fondo Comune di Pisa (sezione separata dell‟archivio comunale postunitario), b.

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attraverso il loro decentramento, entro il primo anno di vita dell‟ente. Questa scelta permetteva all‟ECA di esercitare la funzione di vigilanza sulla loro attività amministrativa, delegandone però l‟onere agli stessi istituti.

Queste le parole usate nella circolare del 15 giungo ‟37 dal ministro dell‟Interno, per descrivere le modalità con cui avrebbe dovuto regolare la propria attività assistenziale:

“Ciascun ente comunale dovrà contare, nella determinazione del programma,

anzitutto sulle risorse che potrà procurarsi localmente, da coloro, enti e privati, che più sono a contatto e più devono quindi essere a conoscenza delle necessità locali, e non possono non sentire il dovere di continuare a dare, per l‟avvenire come per il passato, il loro soccorso all‟azione soccorritrice di quelle necessità”73

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Un‟affermazione che delegava, di fatto, parte degli oneri finanziari e organizzativi alla generosità dei privati e delle istituzioni benefiche, che da sempre avevano gestito il sistema caritativo italiano. Inoltre, il compito di vigilare sull‟operato dell‟ente veniva lasciato alle autorità locali, attraverso il decentramento dei poteri ai prefetti:

“L‟art. 9 della legge, dichiarando al secondo comma che l‟ente è soggetto alla vigilanza e alla tutela previste dalle leggi sulle IPAB, esclude dal sistema che queste accolgono gli atti inerenti all‟esercizio pratico della legge; che per essi dispone sinteticamente il primo comma dello stesso articolo, che affida ogni facoltà al riguardo al prefetto, demandandogli l‟approvazione del programma preventivo e della relazione consuntiva dell‟attività assistenziale”74.