L’attività medica, quindi, proprio perché volta a garantire la tutela del diritto alla salute, diritto costituzionalmente preservato, è irrinunciabile in una società civile.
Va però evidenziato che suddetta attività richiede, proprio in quanto capace di incidere sul diritto fondamentale per antonomasia, una legittimazione.
Problematica, infatti è la relazione della professione sanitaria con le norme del codice civile nonché di quelle del sistema penale.
L’indagine deve sicuramente principiare dall’ art. 5 c.c., che vieta categoricamente, gli atti di disposizione del corpo umano qualora capaci di diminuire, in maniera permanente, l’integrità fisica o quando contrari alla legge, ordine pubblico o buon costume. L’unica lettura ammissibile dell’art. 5 c.c. è quella che evidenzia che, è necessario non invertire mai l’ordine valoriale tra legge e Costituzione, e di conseguenza ne orienta e ne indirizza il significato rispetto ai principi costituzionali (e non viceversa), così che, sarebbe corretto parlare, prima che di atti di disposizione del proprio corpo, in termini di potere sul corpo ritenuto come un elemento autonomo e separato dalla persona umana, di “libertà di decidere in ordine a comportamenti e ad attività incidenti sul corpo”, rispetto alla persona umana “intesa come qualcosa di assolutamente unico e non separabile, composto di corpo e di mente”
Tale disposizione normativa, infatti, fu originariamente introdotta proprio al fine di evitare il mercimonio del corpo umano e di garantire la dignità di ciascun individuo102.
102 Così in modo assai condivisibile B. PEZZINI, Il diritto alla salute, Giuffrè,p.45. Determinate la vicenda, che costituì il presupposto della disposizione, ricostruita tra gli altri in R. ROMBOLI, Art. 5, Atti di disposizione del proprio corpo, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, Art. 1-10. Persone fisiche,
Ma è evidente che l’attività medico chirurgica sia però in grado di compromettere l’integrità fisica del paziente, seppur al dichiarato fine di garantire la cura. Si tratta, infatti, sicuramente di una attività socialmente rilevante ma suscettibile di arrecare lesioni all’individuo. Pertanto, l’art.5 c.c. va necessariamente coordinato con le disposizioni del codice penale e interpretato in chiave costituzionalmente orientata. Il codice penale, infatti, incrimina il reato di lesioni ex 590 c.p. 103nonché il delitto di omicidio ex 575
c.p104.
di un testicolo, dietro il compenso di diecimila lire, una fortuna per quei tempi (siamo negli anni Trenta del Novecento), secondo un metodo che allora sembrava scientificamente ineccepibile, il c.d. impianto Voronoff, da un giovane e
squattrinato studente napoletano ad un anziano e ricco uomo d’affari di nazionalità brasiliana, in cerca “di riacquistare l’ormai perduta virilità”; dopo tre gradi di giudizio, la Corte di cassazione assolse gli imputati, proprio sulla base della scriminante del consenso dato dal giovane, “trattandosi di diritto disponibile in quanto l’ablazione della ghiandola, mentre da un lato non limita sensibilmente la vigoria del corpo e la funzione sessuale e generativa del donatore, dall’altro rinvigorisce la funzione genetica e l’organismo della persona del ricevente”. Questa conclusione si spiega facilmente proprio in conseguenza della spinta
ideologica del fascismo che, su questo punto, vedeva fondamentalmente “nell’uomo il guerriero e produttore, e nella donna la riproduttrice della specie”.
103 La norma recita infatti “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309. Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da euro 309 a euro 1.239.Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme [sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle] per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni. Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale”.
104 La norma recita “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Si tratta di un reato a forma libera, quindi che può essere commesso attraverso differenti modalità. Ciò porta a considerare che può realizzarsi omicidio anche per omissione, qualora preesista a carico dell'agente un obbligo giuridico di impedire l'evento come ad esempio nel caso in cui un madre lascia il figlio neonato morire di stenti. Si ricordi poi la particolare categoria degli omicidi cosiddetti indiretti, che si realizzano qualora il soggetto attivo causi intenzionalmente la morte attraverso una condotta che in realtà integrerebbe n altro reato, come nel caso di contagio da malattie letali. Si ricordi che si parla di uomo a partire dal distacco del feto dall'utero materno, anche se non è avvenuta l'espulsione definitiva dal corpo della madre. no rilevano
Come evidenziato, infatti, l’individuo è alla base del sistema normativo costituzionale,civile e penale. Come naturale conseguenza, la tutela della persona è garantita anche attraverso la sanzione penale.
L’attività medica, dunque, è astrattamente riconducibile senz’altro nel reato di lesioni personali e non è da escludere l’applicazione del reato di omicidio in forma colposa.
Appare, dunque, necessario ricostruire la legittimazione della professione sanitaria e coordinarla con le disposizioni penali. Proprio la norma sulle lesioni,infatti, rende necessario un coordinamento del sistema.
La disposizione recita “ Chiunque cagiona ad alcuno una lesione
personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli artt. 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel n. 1 e nell'ultima parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa”.
Pertanto, la lesione si ravvisa laddove la condotta del soggetto agente sia idonea a generare una malattia. L’attività medica appare antitetica a tale previsione normativa ma, va evidenziato che, comunque, qualsiasi intervento chirurgico, terapie mediche, attività diagnostiche invasive, provocano sempre una qualche forma di alterazione anatomico-funzionale, una “malattia” intesa in senso
ovviamente e condizioni di corpo, di mente, la nazionalità o la razza della vittima, ma solamente che sia vivo, diversamente infatti il reato sarebbe altrimenti impossibile. Ciò non significa che si richieda anche la vitalità ovvero che il soggetto sia in grado di vivere a lungo, viene infatti considerato responsabile di omicidio anche chi cagiona la morte di un uomo agonizzante. Si rimanda ad altre fattispecie qualora il soggetto passivo ricopra una particolare posizione, come ad esempio all'omicidio del Presidente della Repubblica ex art. 276, a quello di un Capo di Stato estero ex art. 295 e a quello del Comandante di una nave da parte di un membro dell'equipaggio degli artt. 1150 o 1151 del codice della navigazione.
ampio, ovvero come generale peggioramento delle condizioni di salute del paziente.
Anche un intervento ben riuscito, a regola d’arte, astrattamente, potrebbe nella fase post-operatoria avere delle gravose ripercussioni sul paziente. Appare, dunque, necessario ricercare il fondamento della legittimazione dell’attività medica.
Ab origine, la dottrina penalistica tradizionale105 ricercava il
fondamento dell’attività medico chirurgica, nella scriminante del consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p.
Si evidenziava, infatti, che l’attività medica, socialmente adeguata, necessaria ed esclusivamente rivolta alla cura del paziente, veniva in realtà legittimata dal paziente stesso mediante il consenso. La condotta del medico, anche qualora avesse cagionato delle lesioni personali e persino la morte del paziente, se a regola d’arte, era legittimata dal consenso espresso dal paziente( se però adeguatamente informato) al trattamento sanitario. Tale teoria però, a ben vedere, era in conflitto con il disposto dell’art.5 c.c.
I critici evidenziavano che nessuno può prestare un valido consenso alla menomazione irreversibile della propria individualità psico-fsica, pena la violazione dell’art. 5 c.c. e indirettamente, la lesione del diritto alla salute ex art.32 Costituzione.
Tale teoria, a ben vedere, operava però una diretta trasposizione di una norma esclusivamente civilistica, nata per garantire la dignità dell’individuo, in sede penale.
Il diritto penale, è però, per antonomasia afflittivo e, configurare una responsabilità penale del medico operando una pedissequa traslazione dell’art. 5 c.c., significava mortificare l’attività sanitaria e frustare la concezione del diritto penale come extrema ratio.
Sulla base di tale incertezza, un secondo orientamento, evidenziava che la legittimazione dell’attività medica, a ben vedere, andasse ricercata in un’altra scriminante, ovvero l’art.51 c.p.
Il medico, operatore sanitario, incaricato di un pubblico servizio, nell’effettuare un intervento chirurgico, adempie ad un dovere e pertanto, non è penalmente responsabile, mancando l’antigiuridicità della condotta.
Ma anche tale costruzione aveva delle evidenti criticità. Ammettere l’applicazione dell’art. 51 c.p. per l’attività medica, significava legittimarla anche nel caso in cui vi fosse un dissenso espresso del paziente. Operando in tal senso, dunque, si rischiava di frustrare la libertà di autodeterminazione del paziente, legittimando l’attività medica in maniera aprioristica ed in parte, violando la libertà di scelta dei trattamenti sanitari sancita ex 32 Cost.
L’attività medica, infatti, non può auto legittimarsi. Il rapporto medico paziente, non è più di tipo paternalistico ma paritario. Il medico può intervenire autonomamente solo nei casi di assoluta urgenza, laddove la volontà del paziente non sia in alcun modo ricostruibile, ma non negli altri casi. Determinanti, in tal senso, le pronunce della S.C. in materia di trattamenti sanitari di trasfusione ai testimoni di Geova106. I pazienti che esprimano anche il diritto a
non curarsi, o meglio che consapevolmente dichiarino di rifiutare un preciso intervento sanitario, non possono esservi sottoposti contro la loro volontà. I testimoni di Geova, in base ad un preciso precetto religioso, negano la possibilità di sottoporsi ad interventi trasfusionali.
In tali ipotesi è evidente il contrasto tra due diritti fondamentali: quello alla libertà religiosa e quello alla salute. In suddetta ipotesi, è
106 A.FIORI, E. BOTTONE,E. D’ALESSANDRO, Quarant’anni di giurisprudenza della
Cassazione nella responsabilità medica, per tutte Cass. Civ. sez III, n.23676/2008,Giuffrè,
il paziente che sceglie, consapevolmente, di evitare la trasfusione ed il medico, non può forzatamente sottoporlo ad un trattamento sanitario rifiutato, pena la responsabilità penale per lesioni e/o violenza privata.
Tali pronunce, dunque, evidenziano l’inadeguatezza del ricorso all’art. 51 c.p. per legittimare l’attività medica.
La persistenza di contrasti interpretativi sulla legittimazione delle terapie medico chirurgiche ha imposto l’inevitabile intervento delle Sezioni Unite.107 La Suprema Corte ha evidenziato, a più riprese, che
l’attività medica richiede come presupposto il consenso informato del paziente, espressione suprema del diritto all’autodeterminazione e della libertà fondamentale dell’individuo108. Il consenso però resta un
presupposto, o meglio, l’attività medico sanitaria non è scriminata dal consenso dell’avente diritto ex 50 c.p. né dall’adempimento del dovere ex art. 51 c.p. ma trova la sua legittimazione direttamente dalla Carta Costituzionale ex art. 32 109.
107 Con tale sentenza le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, mediante un approccio conforme al diritto vivente e ad una lettura aggiornata della Carta Costituzionale, hanno risolto una questione, quella relativa alla rilevanza penale dell’attività medico-chirurgica a fini terapeutici in caso di mancato consenso del paziente, che da lungo tempo, oramai, aveva dato luogo a rilevanti contrasti giurisprudenziali e dottrinali.
La fattispecie concreta riguardava una paziente, ricoverata nel reparto di ginecologia di una struttura sanitaria, che veniva sottoposta ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità, a salpingectomia con la quale le veniva asportata la tuba sinistra. Procedutosi contro il medico, l’intervento asportativo risultava essere stato una scelta corretta ed obbligata, eseguito nel pieno rispetto delle leges artis e con una
competenza superiore alla media, tuttavia, secondo la prospettazione accusatoria, senza il consenso validamente prestato della paziente, informata soltanto della laparoscopia. Secondo i giudici di primo grado, infatti, già nella fase di programmazione della laparoscopia erano prevedibili: l’evoluzione dell’intervento in asportativo (essendovi un’elevata probabilità di asportazione della salpinge), la non opportunità dell’interruzione dell’intervento e la mancanza del pericolo di vita e, quindi, del presupposto del c.d.”stato di necessità” ex art. 54 c.p., quale causa di giustificazione dell’agire medico in assenza di consenso informato. L’omissione, pertanto, proprio in ragione dell’elevata probabilità dell’intervento doveva configurarsi non come una colpa del medico bensì come una sua scelta consapevole e volontaria.
Il fatto, poi, che ogni trattamento medico eseguito in assenza di un consenso valido e specifico integri una lesione della libertà di autodeterminazione valido e specifico integri una lesione della libertà di autodeterminazione
108 S.RODOTA’, Il diritto ad avere diritti, Editori Laterza, ROMA-BARI,2015 109 M.SANTISE,Coordinate ermeneutiche di diritto penale,Giappichelli, 2016,p.250 ss.
Ne consegue, la libertà di decidere e di autodeterminarsi, in ordine a comportamenti che in vario modo interessano e coinvolgono il corpo del paziente, dovendosi prendere atto della sostituzione del concetto statico di integrità fisica, con quello dinamico di salute.
In conclusione, l’attività medica necessita come presupposto, del consenso informato del paziente ma trova la sua piena legittimazione, il suo definitivo riconoscimento non nelle disposizioni legislative ordinarie, ma direttamente nella Carta dei diritti fondamentali ex 32.