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Leibniz e il mulino della percezione

Il “ciclo di purificazione” introdotto nel paragrafo precedente descrive un possibile schema di valutazione epistemologica del processo di progettazione dei modelli computazionali, ovvero di quel processo che va dalla teoria alla realizzazione del modello. Esso evidenzia, fra le altre cose, l’importanza del ruolo ricoperto dal linguaggio in quanto sistema di simboli e di relazioni fra essi dal punto di vista dell’epistemologia dell’IA e delle scienze cognitive. Come si è affermato in precedenza, infatti, la questione della comprensione (e produzione) del linguaggio naturale costituisce, ad esempio, un tema cardine dell’IA e mette in evidenza meglio di altri, nella sua ambiguità e complessità, i problemi relativi alla costruzione di modelli simulativi ed esplicativi di fenomeni mentali (o cerebro-mentali). Per concludere questa esposizione sull’argomento della stanza, vedremo come già in età moderna esso fosse stato applicato a un’altra attività mentale di alto livello: la percezione39.

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Al contrario della sensazione che può essere considerata un’attività mentale di basso livello. Naturalmente, si tratta di etichette descrittive avalutative, che servono solo a distinguere una presunta, ma tradizionalmente ben consolidata e

Nel 1714 Leibniz scrive la Monadologia, che costituisce una summa sistematica del suo pensiero insieme ai Principi razionali della Natura e della Grazia. In quell’opera egli presenta il seguente argomento:

Si deve riconoscere che la percezione, e quel che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni

meccaniche, cioè mediante le figure e i movimenti. Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale

che sia capace di pensare, di sentire, di avere percezioni; supponiamola ora ingrandita, con le stesse proporzioni, in modo che vi si possa entrare come in un mulino. Fatto ciò, visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione. Quindi la [ragione della] percezione va cercata nella sostanza semplice, non già nel Composto, cioè nella macchina. Così è unicamente nella sostanza semplice che si possono trovare le percezioni e i loro mutamenti: solo in ciò, quindi, possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze semplici. (Leibniz, 1714/2001, p.65)

Questo argomento è stato variamente interpretato nella letteratura come un argomento antiriduzionista e antinaturalista40. Di conseguenza, si è sostenuto che con esso Leibniz abbia voluto negare la possibilità dell’attribuzione di stati mentali a stati fisici. Per Churchland, ad esempio, Leibniz non sa dove guardare, perché le sue conoscenze in merito al cervello sono inadeguate per indicare quali meccanismi neuronali possano realizzare la percezione, e, inoltre, in che modo possano farlo. Ciò lo porterebbe a una negazione del fenomeno, piuttosto che al riconoscimento di un’ignoranza contingente in merito e relativa allo stato delle conoscenze scientifiche raggiunte. Un neurofisiologo contemporaneo ha – o comunque avrà entro un certo periodo determinato di tempo – sicuramente gioco facile nell’individuare il fenomeno fisico cui può essere ridotta la percezione (Churchland, 1995, pp. 191-193).

Per Searle si tratta, più semplicemente, di una confusione dei livelli di descrizione (Searle, 1983, pp. 268-273). Eventi mentali causano eventi mentali, così come eventi fisici causano eventi fisici. Ma anche, eventi fisici realizzano, e perciò causano, eventi mentali. Di conseguenza, se un evento fisico realizza (causa) un evento mentale che causa (realizza?) un altro evento mentale, per la proprietà transitiva della causazione l’evento fisico primo è causa (anche) dell’ultimo evento mentale. Cercare, però, il mentale nel fisico senza un’adeguata conoscenza di come l’uno si riduca all’altro è una confusione di livelli che ha come diretta conseguenza il paradosso della negazione del fenomeno o che, più verosimilmente nell’ottica di Leibniz, porta a un riconoscimento dell’esistenza di una differenza ontologica fra i due livelli. Ma, anche per Searle, tutto ciò è solo questione di ignoranza: «se avessimo una conoscenza perfetta di come il cervello produca sete o esperienze visive, non avremmo nessuna esitazione nell’assegnare queste collocazioni di esperienza

accettata nelle scienze cognitive, distanza maggiore o minore dal cervello e dal livello neurofisiologico di indagine, ovvero anche dall’ambiente in cui è immerso il sistema cognitivo che agisce e percepisce.

nel cervello, se l’evidenza garantisse questi assegnamenti» (Searle, 1983, p. 271), e questo varrebbe anche nel senso di una localizzazione globale di eventi mentali in tutto il cervello o in vaste aree di esso. Ancora una volta, Leibniz mancherebbe di riconoscere la riconducibilità ultima del mentale ai poteri causali del cervello.

Ma come avrebbe potuto? Nel 1714, anno in cui viene redatta la Monadologia, il paradigma dualista inaugurato da Cartesio con il riconoscimento di due sostanze separate a comporre per giustapposizione l’unità dell’essere umano è all’apice della diffusione e del consolidamento. Anche per Leibniz il dualismo fra anima (mente) e corpo, o fra pensiero in quanto cosa pensante (res

cogitans) e substrato materiale in quanto cosa estesa (res extensa), è un dato di fatto e allo stesso

tempo un problema risolvibile soltanto attraverso l’armonia prestabilita la cui comprensione trascende l’ambito del mondo fisico. Di conseguenza, non può che essere connaturato con la totalità del suo sistema, in maniera radicale e indubitabile, l’assunto di una differenza di stampo ontologico fra stati fisici e stati mentali. Non deve stupire, perciò, che l’argomento del mulino conduca a esiti antiriduzionisti. Tuttavia, non ritengo che Leibniz lo abbia formulato con questo intento. Più plausibile sembra, invece, l’assegnare a esso un ruolo centrale nella definizione di un tipo accettabile di spiegazione dei fenomeni mentali e dei processi cognitivi.

Riconsideriamo l’argomento. L’attenzione di Leibniz appare essere tutta rivolta a quelle ragioni

meccaniche mediante cui è inesplicabile un fenomeno come la percezione. Questo porta a pensare

non che la percezione sia un fenomeno inspiegabile, bensì che ci sia un qualche altro tipo di spiegazione possibile, che si diano cioè «due tipi di spiegazione» per i fenomeni mentali, le qual,i come suggerisce Calabi, sono «la spiegazione per ragioni meccaniche e la spiegazione naturale» (Calabi, 2005, p. 194). Delle due, la prima sarebbe propriamente una spiegazione riduzionistica, e perciò finita e incompleta; la seconda «è una spiegazione che fa riferimento alle cause finali e non alle ragioni sufficienti e, in ultima analisi, equivale a una spiegazione per ragioni meccaniche che è infinitamente lunga» (ibidem). A partire da questa interpretazione Calabi ipotizza che Leibniz non introduca l’argomento del mulino per arrivare a conclusioni ontologiche in merito ai fenomeni mentali e conclude che Leibniz non era un riduzionista concettuale, ma piuttosto un riduzionista metafisico. L’insufficienza esplicativa sarebbe dovuta al fatto che la spiegazione naturale richiede un’analisi infinita, fattualmente impossibile, e l’intera questione si risolve, anche per Leibniz stesso, in un’indecidibilità in merito alla questione se gli stati mentali sono o non sono (riducibili a) stati fisici.

D’altra parte, se si accetta l’idea che il Gedankenexperiment del mulino «non è un argomento che da premesse epistemologiche conduce a conseguenze ontologiche» (Calabi, 2005, p. 210) ed è verosimile, come ho sostenuto, che l’intento di Leibniz non era quello di introdurre un argomento antitiduzionista in merito alla natura degli stati mentali, non è del tutto forzoso vedere nella situazione descritta da Leibniz non un rimando a una spiegazione soltanto di tipo metafisico della percezione, bensì l’affermazione che il meccanicismo inteso nel senso di una serie di interazioni

sequenziali causa-effetto non può essere considerato una spiegazione completa senza la sua integrazione con una visione di tipo finalistico, o relativa alle cause finali, del fenomeno stesso della percezione. In altri termini, Leibniz starebbe suggerendo la “risposta del sistema”. Vediamo in che modo è possibile argomentare questo punto.

L’esperimento mentale del mulino prende l’avvio dall’ipotesi di una «macchina strutturata in modo tale che sia capace di pensare, di sentire, di avere percezioni». Entrare in tale macchina (la stanza con i macchinari del mulino) ci permette di vedere «sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda». Tuttavia, per Leibniz tale macchina esiste, cioè esiste una macchina in grado di pensare e percepire grazie alla sua struttura. Di che macchina si tratta?

Nel paragrafo 64 della Monadologia, dopo aver già introdotto l’argomento del mulino, egli afferma che «il corpo organico di ogni essere vivente è una specie di macchina divina, o di automa naturale, che supera di gran lunga qualsiasi automa artificiale», nel senso che, rispetto alle macchine costruite dall’uomo «le macchine della Natura, cioè i corpi viventi, sono sempre delle macchine, fin nelle loro parti più minute, all’infinito» (Leibniz, 1714/2001, p.89). Il corpo umano è, dunque, una macchina i cui pezzi sono ancora delle macchine, mentre le macchine costruite dall’uomo sono costituite da «parti o frammenti che per noi non sono più qualcosa di artificiale e che, riguardo all’uso cui [la macchina] è destinata, non serbano più nessuna traccia meccanica» (ibidem). Questo suggerisce un’idea del corpo vivente come di una serie gerarchica di macchine, analizzabili ciascuna in quella di livello immediatamente inferiore, senza la possibilità di arrivare mai a un livello base. Si potrebbe vedere adombrata in queste affermazioni la moderna differenza fra genotipo e fenotipo, con l’importante differenza che nell’ipotesi di Leibniz non esiste una base genetica ultima. Tuttavia, il passaggio da un livello a quello superiore è dovuto, di volta in volta, alla presenza di una differente struttura organizzativa che caratterizza il livello in oggetto. Leibniz ci dice, inoltre, che anche l’anima è un automa meccanico e precisamente «un automa immateriale, la cui costituzione interna è una concentrazione o rappresentazione di un automa materiale, e produce, rappresentativamente, in questa anima lo stesso effetto» (Leibniz, 1963, p. 280). È questa la macchina che ci interessa, poiché, se la differenza ontologica, il dualismo delle sostanze, caratterizza la differenza fra automa naturale e automa immateriale, ciò che tra le due sostanze si mantiene è proprio lo stesso concetto di meccanicismo, applicabile, nello stesso tempo e alla stessa maniera, ad entrambi gli automi. Infatti, sia gli automi naturali che quelli immateriali contengono una loro peculiare struttura per via della preformazione divina che li ha creati e li ha messi in condizione di operare meccanicamente, seppur su piani differenti: «l’operazione degli automi spirituali, vale a dire delle anime, non è meccanica, bensì contiene eminentemente quanto vi è di bello nella meccanica» (Leibniz, 1710/2000, p. 388). L’automa spirituale è, perciò, la

rappresentazione dell’automa materiale, la rappresentazione della sua meccanicità secondo un principio di unità, che è quello della monade.

Per Leibniz la rappresentazione ha un ruolo centrale, non diversamente dai filosofi che nel diciassettesimo secolo e ancora negli anni in cui egli scriveva si occupavano di filosofia della conoscenza. La rappresentazione non è altro che la percezione stessa41, la quale non può darsi, cioè spiegarsi, nella scomposizione delle sue parti, o, meglio, nelle parti della macchina che la producono, ma risiede nel principio della sua unità, che è la monade, sostanza semplice e automa immateriale su cui si riflette la meccanicità delle parti del corpo materiale. Così si ritorna alla conclusione dell’argomento del mulino. Il principio di unità, alleggerito dal suo bagaglio ontologico, cioè a prescindere dalla inconoscibilità della sua metafisica natura ultima, può essere non avventatamente considerato principio di organizzazione strutturale. Di conseguenza, se si dà una macchina in grado di pensare e percepire, come Leibniz afferma, e vi si entra, non si vedrà nulla all’infuori di parti meccaniche che ne spingono altre42, a meno che non si conosca la funzione di ogni parte, le relazioni che legano le varie parti e l’organizzazione globale di tutto il sistema. Se non si accetta il principio esplicativo della struttura organizzativa – che si usi o meno una terminologia finalistica –, non si vede a che cosa possa servire nella situazione descritta da Leibniz la presenza di una macchina. Se la percezione risiedesse solo nella monade come principio trascendente, l’argomento del mulino sarebbe la negazione assoluta del meccanicismo, il che contrasterebbe con l’affermazione, pur non del tutto chiara, di Leibniz relativa all’attività degli automi spirituali, la quale non è meccanica, ma contiene ciò che di eminentemente bello è presente nella meccanica, ovvero la struttura globale relazionale e l’organizzazione funzionale unitaria delle parti connesse secondo leggi di causa-effetto43.