Tuttavia, su tale questione Searle non arriva a dare un adeguato chiarimento, verosimilmente perché il focus della sua attenzione rimane esclusivamente quello del linguaggio naturale. Sia Dennett che Hofstadter pongono il problema di che cosa sia veramente apprendere una lingua diversa rispetto a quella che si parla come madrelingua, arrivando a concludere che non è possibile che l’individuo nella stanza possa “internalizzare” tutte le istruzioni del manuale, in modo da rendere non valida la 1), l’obiezione del sistema (individuo + istruzioni). Infatti, se “internalizzare” vuol dire memorizzare, è ancora sempre il sistema che comprende. Non c’è differenza tra l’avere qualcosa scritto su un foglio di carta o nel ricordarlo pedissequamente per come è scritto su quel
foglio, come ha suggerito Putnam nel suo Gedankenexperiment. L’unica differenza sta nell’impiego di una gran quantità di risorse di memoria da parte del memorizzante. Se, al contrario, “internalizzare” il programma vuol dire inserirlo nei propri “sottosistemi” non si vede come questo possa essere fatto senza attuare una qualche forma di collegamento fra il programma e i sottosistemi, il quale dia luogo ad un uso consapevole delle conoscenze “internalizzate”. Si tratterebbe, in conclusione, di apprendimento, e, in questo particolare caso, dell’apprendimento di un’altra lingua38.
Ancora una volta, però, non è questo che probabilmente interessa Searle, o ciò che lui veramente intende con l’argomento della stanza cinese. Il problema centrale resta quello della simulazione della comprensione (e produzione) del linguaggio naturale e delle obiezioni che possono essere sollevate nei confronti di questa particolare attività cognitiva. I parametri di variazione dell’argomento individuati da Hofstadter possono essere visti, mutatis mutandis, come un’incompleta, ma efficace, lista di restrizioni a tutti i modelli simulativi, vale a dire, applicabili in linea di principio al retroscena teorico dei tentativi di simulazione di tutte le attività cognitive. Essi valgono anche nel momento in cui si affronta la comprensione, in un senso più estensivo di elaborazione del linguaggio naturale, come problema dell’IA. Con una differenza. Il linguaggio di
per sé pone il problema di come debba essere considerato, fra i due estremi del puro episodio
comportamentale esteriore, mero output di una serie di meccanismi, procedimenti, funzioni (simboliche o biologiche o entrambe) che si svolgono in un’interiorità costituita dalla mente e/o dal cervello, e della manipolazione simbolica in base a regole sintattico-formali e a regolarità semantiche che insieme permettono la comprensione e la produzione del linguaggio. L’analisi compiuta dell’argomento della stanza cinese ha mostrato come Searle si muova fra un estremo e l’altro, confondendoli e spingendo oltre limiti accettabili di plausibilità la situazione ideata da Turing nel gioco dell’imitazione.
Questo induce un’ultima riflessione. Si era parlato di un doppio passaggio che permettesse la costruzione del Gedankenexperiment della stanza cinese a partire dal gioco di Turing. Ora possiamo identificare meglio questa duplice trasformazione in due mosse specifiche. La prima, dal Gioco al Test, è una “mossa comportamentistica”, che trasforma la natura del linguaggio naturale nella simulazione da mezzo di comunicazione a output di una determinata attività cognitiva a garanzia della effettiva presenza di quest’ultima all’interno della macchina simulativa. La seconda, dal Test alla Stanza, la quale deriva direttamente dalla natura simbolica della componente segnica, fonetica e grafica, del linguaggio naturale, è una “mossa formalistica”, attraverso cui esso non è più soltanto un output di un’attività nella mente o nel cervello, ma qualcosa di interno a essi che può essere
38 A questo punto, disquisire se apprendere una lingua attraverso un fantomatico manuale di istruzioni per rispondere a
domande su un episodio narrato in quella lingua sia la stessa cosa che apprenderla attraverso un manuale di grammatica è lo stesso che chiedersi se c’è una differenza, non esclusivamente metodologica, tra chi apprende una lingua attraverso un corso teorico di insegnamento e chi, invece, a stretto contatto con la realtà sociale in cui quella lingua viene parlata. La diversità del risultato non sembra implicare l’implausibilità di nessuno dei due metodi.
ridotto a una serie di istruzioni le quali, allo stesso tempo, lo formalizzano e lo rendono impermeabile alla comprensione.
Tali mosse si possono applicare, separatamente, ai programmi dell’IA che hanno in qualche modo cercato di simulare differenti capacità cognitive. In altri termini, il rischio di una deriva comportamentistica interessa tutti i modelli dell’attività mentale, o di una qualche specifica attività mentale, anche quelli puramente connessionisti, nel momento in cui si verifica l’identificazione
della spiegazione di una prestazione con l’esecuzione della medesima. D’altro canto, la riduzione di
una prestazione a un procedimento che goda delle stesse caratteristiche di inesorabile formalità, meccanicità e rigidezza di una logica deduttiva (anche se predicativa e non “soltanto” proposizionale) è pure un punto di vista attraverso cui interpretare i differenti modelli dell’attività mentale, ma occorre che sia ben calibrato, per non ricadere in una prospettiva così analitica da perdere il suo potere esplicativo. Tale atteggiamento sembra risultare valido soltanto nella misura in cui viene considerato come uno dei punti di vista, necessario ma non sufficiente ai fini esplicativi, secondo cui valutare un modello dell’attività mentale. Nei casi del linguaggio naturale e della sua comprensione si è visto quanto facilmente siano soggetti a distorsioni dovute all’applicazione di queste due operazioni. Esiste una chiusura del circolo, una terza mossa che conduca nuovamente alla situazione iniziale, in un ciclo di verifica e filtrazione dalle obiezioni teorico-epistemologiche, il processo di costruzione dei modelli simulativi dell’IA? È un’ipotesi metodologica raffigurabile come in figura 1.1. mossa comportamentistica ? mossa formalistica Fig. 1.1
Lo schema che ne deriva può essere considerato una sorta di “ciclo di purificazione” dei modelli, nel senso che, nel proporre simulazioni cognitive, e quindi nell’ipotizzare una qualche spiegazione di un processo o di un fenomeno mentale, è sempre opportuno considerare i livelli di comportamentismo e di formalismo presenti nella componente esplicativa della simulazione e trarne
GIOCO DELLA IMITAZIONE TEST DI TURING ARGOMENTO DELLA STANZA
le opportune conseguenze, anche in termini di revisione del modello o della teoria che lo supporta, qualora non venga prodotta sufficiente o effettiva spiegazione dell’attività cognitiva indagata. Ma per quali ragioni, in senso specifico, dovrebbe essere auspicabile un ritorno a Turing e allo spirito del suo gioco dell’imitazione? Per due motivi almeno, legati entrambi al senso profondo del gioco da lui proposto, quello di valutare a che condizioni noi sperimentatori saremmo disposti ad ammettere di trovarci in presenza di macchine pensanti. In primo luogo, dal punto di vista metodologico. Come in altre discipline scientifiche, così anche nell’IA e nelle scienze cognitive non è mai conveniente sovrastimare la portata di un esperimento (simulativo). Occorre, invece, valutare attentamente il fenomeno in via di sperimentazione, fissarne le restrizioni, cioè le condizioni a cui
quel fenomeno continua a rimanere quel dato fenomeno anche nella simulazione, e infine anticipare
e verificare i risultati attesi. In secondo luogo, dal punto di vista teorico ed epistemologico. Infatti, bisogna avere una chiara idea del fenomeno che si intende modellare e non trascurare mai il fatto che il legame con la realtà del modello, almeno e necessariamente per qualche aspetto, non deve essere frutto di un’attribuzione dall’esterno, cioè da parte di un osservatore, fatto che esporrebbe inevitabilmente il modello alle critiche evidenziate in precedenza. Ne consegue che l’ultima mossa, quella del ritorno, si configura come una “mossa realistica” e il suo intento costituisce un richiamo a un imperativo epistemologico che lo studio dei processi di pensiero attraverso metodologie simulative non può disattendere, pure nella provocatoria circostanza, di cui si diceva all’inizio, che tali metodologie costituiscano una via intermedia di sperimentazione dei fenomeni oggetto della loro indagine.