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Scienze, scienze della mente e scienze cognitive

SUBCOGNIZIONE, ANALOGIA E SIMBOLI ATTIVI: VERSO UNA NUOVA TEORIA DEI CONCETT

4.2 Scienze, scienze della mente e scienze cognitive

Nel corso di questo lavoro sono stati toccati numerosi temi che riguardano problemi condivisi da più discipline interessate a spiegare i processi del pensiero e i fenomeni mentali. Tuttavia, parlare di mente in un’epoca in cui lo studio dei fenomeni che la riguardano è sempre più intrecciato con l’acquisizione di dati in merito al funzionamento del cervello appare quasi un’impresa anacronistica, di taglio storico più che teorico. I termini “mente” e “mentale” negli ultimi decenni hanno acquistato un sapore pre-scientifico e quasi naïve dal punto di vista filosofico. Eliminare dal discorso scientifico questa terminologia è un’impresa che, però, si è rivelata ardua anche a dispetto dell’enorme balzo in avanti compiuto dalle neuroscienze negli ultimi anni attraverso strumenti di indagine che permettono l’acquisizione di immagini in diretta del funzionamento del cervello, come nel caso della risonanza magnetica funzionale.

Tuttavia, se una svolta non c’è ancora stata è perché la “mente” resiste, non retoricamente, sia come termine descrittivo di un insieme di fenomeni, sia come campo di indagine privilegiato di alcune discipline che non potrebbero confrontarsi con la realtà che stanno analizzando se essa non comprendesse l’oggetto “mente”, ben distinto dall’oggetto “cervello”. Proviamo a immaginare cosa sarebbe la riflessione filosofica sul linguaggio e sul pensiero senza la possibilità di ricorrere al

mentale, ma anche come potrebbero prendere corpo numerose ricerche in differenti branche della psicologia senza il ricorso a un apparato teorico e terminologico che comprenda la possibilità di riferirsi a fenomeni specificamente mentali. O si pensi anche alle ricerche in una disciplina come l’IA, intesa in senso psicologistico, entrata ormai a far parte delle scienze cognitive, senza perdere tuttavia i suoi tratti peculiari di indagine simulativa dei processi di pensiero. Si potrebbe obiettare, però, che è solo questione di tempo e che nuove e più approfondite scoperte sul cervello mostreranno la superfluità dell’affidarsi a teorie che ancora comprendono un qualche riferimento alla mente, così come, ad esempio, la nascita di numerosi filoni biologistici e neural-like all’interno delle scienze cognitive sembra già indicare. Si potrebbe, cioè, sostenere che il riduzionismo fra mente e cervello, da mente a cervello, è lo stadio ultimo e inevitabile di ogni ricerca volta alla spiegazione definitiva dei fenomeni individuati come mentali.

Tuttavia, tutto porta a credere che la portata esplicativa di questi filoni di ricerca sarebbe estremamente impoverita senza un opportuno collegamento con un vocabolario che faccia uso di termini mentalistici e che la soluzione di questo particolare problema non sembra neppure all’orizzonte. Paradossalmente, è la stessa ricerca scientifica, per anni votata ad un abnegante riduzionismo, a mostrare i limiti di questa impostazione. Non è forse vero che i fondamenti ultimi della materia, le particelle subatomiche (del modello standard e di quello non standard) che appaiono “vivere” in un mondo complesso ma retto da leggi completamenti differenti da quelle del mondo in cui viviamo noi esseri umani, sono individuati in termini funzionali, essendo impossibile per definizione la loro identificazione concreta, oggettiva, materiale attraverso uniformi coordinate spazio-temporali? E cosa pensare delle recenti affermazioni del premio Nobel per la chimica Roald Hoffmann circa la natura non riduzionistica della propria disciplina alla fisica, fatto che al contrario viene dato per scontato dalla gran parte degli scienziati1?

In conformità a queste idee, la mente continua, dunque, a essere studiata come mente e il cervello come cervello. L’apparente dualismo ontologico cessa di dare fastidio nel momento in cui si riconoscono mente e cervello innanazitutto come due quadri concettuali. La coniugazione di questi due quadri sembra un’impresa molto meno difficile (appunto perché non impossibile) di quella del rapporto fra due sostanze disomogenee, espressioni come in Descartes non già di una fisica e di una anti-fisica, ma di due fisiche divergenti. Un’integrazione fra questi due universi separatamente indagabili sembra porsi sia come traguardo necessario sia, allo stesso tempo, come postulato della ricerca, ma non come indizio a favore o a riprova dell’inevitabilità del riduzionismo esplicativo (lasciando ancora da parte quello ontologico, che è un’altra questione ancora, relativa alle ontologie in gioco). Il problema sta nel modo in cui renderla effettiva e, dunque, in cui poter parlare in maniera sensata e adeguata di un apparentemente più opportuno e meno unilaterale “sistema mente- cervello” come continuum di livelli di fenomeni e di spiegazione di tali fenomeni.

1

Si veda l’intervento di Rohald Hoffmann dal titolo “La bellezza della chimica” su Il Sole-24 Ore. Domenica del 7 gennaio 2007 (p. 33).

Il primo ostacolo che incontra la ricerca volta allo studio dei fenomeni mentali consiste senza dubbio nella difficoltà a presentarsi come una ricerca di stampo scientifico nel senso tradizionale del termine. Nel primo capitolo, abbiamo introdotto la questione in maniera provocatoria, ipotizzando che le discipline simulative sono un tipo di sperimentazione situato a metà fra gli esperimenti scientifici tradizionali e i così detti Gedankenexperiment. La provocazione sta nella disomogeneità dei due approcci, sia per quanto riguarda la metodologia impiegata, sia per quanto riguarda gli obiettivi e il modo di condurre le scelte teoriche che rendono l’esperimento dotato di significato effettivo. Mentre i primi hanno il compito di scoprire fatti o di confermare con i fatti le teorie entro cui vengono impostati ed eseguiti, i secondi mettono alla prova le teorie dal punto di vista della loro tenuta concettuale, forzando o a rivedere i concetti impiegati o a cambiare, cioè a valutare diversamente, la pratica sperimentale stessa in quanto costruzione dei processi di scoperta. Così nel campo dell’IA e delle scienze cognitive in alcuni casi ciò che è in gioco è la conferma o disconferma di una teoria, oppure la scelta di una fra più teorie rivali; in altri, invece, sono le metodologie impiegate ad essere oggetto di disputa; in altri ancora, la simulazione ha il compito di stabilire non quale fatto conferma un fenomeno, ma quale è effettivamente il fenomeno che viene indagato.

Tutto ciò ha sicuramente a che fare con il fatto che l’oggetto di studio delle scienze cognitive è visto in maniera diversa da ogni particolare “scienza cognitiva” e che le persone che si dedicano a questo campo di indagine, gli scienziati cognitivi, provengono da formazioni scientifiche e teoriche molto differenti, ognuna delle quali porta con sé un retroscena implicito di principi sulla natura della ricerca e dell’impresa scientifica molto diversi fra loro. Ad esempio, se un neurofisiologo individua una parte specifica della corteccia cerebrale come sede privilegiata dei processi di, poniamo, pianificazione e, allo stesso tempo, uno psicologo ricostruisce da una serie di esperimenti il modo in cui tali processi di pianificazione vengono attuati dagli esseri umani, come dovrà procedere la ricerca simulativa? Riprendendo la struttura della porzione di corteccia preposta al compito e simularla (vista la specificità delle aree cerebrali quanto a conformazione neuronale) o piuttosto focalizzando la sua attenzione sul modo in cui avvengono i processi di produzione di azioni pianificate cercando di simularli in un meccanismo astratto e generale di costruzione di tali processi? E inoltre, chi può candidarsi ad essere miglior giudice della riuscita dell’esperimento se non qualcuno disposto a vedere l’interrelazione fra questi due apporti, da una parte considerando il modo in cui gli esperimenti vengono condotti e, dall’altra, procedendo a un’integrazione concettuale fra dati, metodi e risultati?

Per tali ragioni, è stato proposto di non considerare, dal punto di vista epistemologico, l’IA come una scienza (Matteuzzi, 1995) poiché sprovvista di almeno due dei requisiti necessari all’unitarietà di ogni approccio scientifico: un universo univoco di riferimento e un linguaggio unitario di espressione. Tale affermazione sembra anche più giustificata, ancorché paradossale, se viene estesa alle scienze cognitive in generale, che salverebbero la loro scientificità definendosi in maniera

plurale, pur mantenendo un indefinito quanto generalmente riconosciuto obiettivo di fondo, quello della spiegazione del pensiero.

Affermazioni del genere non sono mancate neppure da parte di chi ha ideato e sviluppato l’approccio subcognitivo allo studio della mente. Si consideri, ad esempio, il seguente passo di Hofstadter, ripreso da un saggio sulla valutazione della ricerca in questo campo e che ci porta direttamente ad affrontare la “spinosa questione” di come considerare i risultati da essa conseguiti:

[...] nell’ambito delle scienze cognitive/IA uno dei problemi più profondi è quello di riuscire a scoprire criteri universali che permettano di giudicare settori di ricerca. Il campo è molto confuso, giacché non sono poche le differenti pretese di validità, importanza e novità che vi si confrontano e competono, spesso parlando lingue del tutto diverse tra di loro. IA e scienze cognitive tentano di comprendere un fenomeno complesso al punto che ancora non si sa come giudicare le idee al riguardo.

[...] In breve, l’insieme IA/scienze cognitive è un pazzo bazar, o almeno uno stravagante folle insieme di discipline. Lo spettro delle competenze scientifiche di chi vi opera è enorme, e i progetti sono i più disparati. (Hofstadter, 1995c, pp. 393).