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THE LIGHTNING TREE

THE MONSTER X STRIKES BACK ATTACK THE G8 SUMMIT

THE LIGHTNING TREE

雷桜 – RAIOU

THE LIGHTNING TREE

Gianpiero Mendini

Soggetto originale: Ueza Mari

Sceneggiatura: Tanaka Sachiko, Katō Masato Fotografia: Nabeshima Atsuhiro

Musica: Ōhashi Yoshinori Montaggio: Kikuchi Jun’ichi

Interpreti: Aoi Yū, Okada Masaki, Koide Keisuke, Emoto Akira, Kōra Kengo, Ōsugi Ren

Produzione: IMJ Entertainment 2010, 133’

Narimichi, giovane signore appartenente al clan dei To-kugawa, trascorre i suoi giorni annoiato, solo e tormen-tato da incubi che non lo fanno dormire. Una notte, dopo aver ascoltato il racconto di un suo fedele servitore, de-cide impulsivamente di partire alla volta del villaggio di Seta per cercare di risolvere il mistero del tengu (demo-ne) che pare viva nelle montagne che dominano il vil-laggio. Il tengu in realtà è Rai, una ragazza allevata nel-la foresta dall’uomo che avrebbe dovuto uccidernel-la quand’era in fasce, ma che disobbedì agli ordini, finendo in esilio forzato fra le montagne. L’incontro fra Narimi-chi e Rai cambierà completamente la loro vita.

«Omae wa, omae da» (tu sei te stesso). Questa breve battuta, espressa con disarmante saggezza dalla voce di

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Aoi Yū, riassume con estrema sintesi il significato di que-sta prima incursione nel cinema jidaigeki (film in costu-me) di Hiroki Ryūichi.

In realtà, a ben vedere, è forse il senso di tutto il ci-nema dell’autore di Vibrator (id., 2003) e di It’s Only

Talk (Yawarakai seikatsu, lett. Una vita morbida, 2005). I

protagonisti delle sue storie sono sempre persone e non personaggi, sono esseri umani che esprimono umanità a modo loro. Non sempre riescono nel loro intento, spesso a causa di forze esterne e interne che remano contro, ma ci provano. Con tutta l’energia che hanno in corpo. Un po’ come quando i due protagonisti di The Lightning Tree urlano alla pioggia i loro pensieri senza filtro, per sfogare la loro rabbia e frustrazione: quella di vivere in un mondo che non gli appartiene pienamente.

Fin dalla prima scena si ha la sensazione che Hiroki sia davvero riuscito a non piegare il suo stile nel tentativo di assecondare certe regole che il “genere” solitamente impone. Anzi, è come se portasse una ventata di freschez-za narrativa e riuscisse a superare certi stilemi (forse) ormai obsoleti. In un universo cinematografico (pensia-mo ad esempio ai capolavori di Kobayashi Masaki o alla più recente “trilogia della spada” di Yamada Yōji) fatto di inquadrature fisse e carrellate geometricamente perfette, ecco apparire i movimenti di camera a mano, spesso volu-tamente traballanti (un suo marchio di fabbrica) o i pri-missimi piani dei volti dei due protagonisti, che ci avvici-nano senza alcuna paura alle loro emozioni più vere.

Hiroki Ryūichi prende per mano il genere classico per eccellenza del cinema giapponese e lo accompagna nel proprio habitat naturale, fatto di emozioni che esplodono, di sguardi trattenuti, di parole urlate. oppure solo sussur-rate. Non è l’unico autore che in questi ultimi anni si è avvicinato al genere. Molti suoi colleghi, da Koreeda

Hi-rokazu a Shiota Akihiko, come lui più a loro agio con am-bientazioni e storie urbane, si sono messi alla prova con il

jidaigeki, con risultati altalenanti ma sempre gradevoli e

tutto sommato coerenti con la loro idea di cinema.

Tratto dall’omonimo romanzo di Ueza Mari, il film racconta le gesta di Shimizu Narimichi, figlio di un ricco feudatario giapponese, oppresso dalla sua vita da recluso e perseguitato da orrendi incubi. Spocchioso, annoiato e problematico, accetta il consiglio di un giovane servitore e parte alla ricerca di un demone che controlla le montagne di Seta, il paese natio del fedele servitore. Giunto nei pressi della foresta, Narimichi scopre che il demone è in realtà Rai, una ragazza che con tutte le sue forze protegge la montagna dagli intrusi. In breve tempo i due scoprono di amarsi, ma le differenze di rango, le vere origini della ragazza e la malattia di Narimichi condurranno il loro rapporto verso un esito decisamente prevedibile.

Se il riferimento più immediato (e spesso citato nei commenti critici al film) è Romeo e Giulietta, adattato e “corretto” per renderlo credibile in ambientazioni feudali del periodo Edo, è impossibile non notare l’influenza di

Principessa Mononoke (Mononoke hime, 1997) nella

ca-ratterizzazione del personaggio interpretato da Aoi Yū, nel “male” che divora internamente il protagonista ma-schile e nell’utilizzo narrativo della natura come contro-parte attiva nell’evolversi della storia.

Il titolo originale del film racchiude in se vari signifi-cati. Raiou letteralmente accosta l'ideogramma di “ne” a quello di “ciliegio”, richiamando la scena del fulmi-ne che alla nascita della protagonista colpisce l’albero di gingko, lo taglia a metà e fa crescere al suo interno un al-bero di ciliegio. Però foneticamente il titolo gioca anche sul nome della protagonista: Rai, il nome fittizio scelto dal suo padre/rapitore, e Yū, il suo vero nome.

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Un aspetto degno di nota è il rapporto con la musica e i suoni d’ambiente. Gli elementi della natura sono vivi e presenti. Pioggia, vento e fuoco sono parte integrante del-la narrazione e scandiscono alcuni fra i momenti più im-portanti e significativi del film. L’inizio, ad esempio, con la foresta che vive e scaccia gli ospiti indesiderati. La pra-teria, sfondo bucolico ma affascinante del primo incon-tro/scontro fra i due amanti. L’immenso albero di gingko e ciliegio la cui imponente presenza scandisce la vita di Rai/Yū e di chi le sta vicino. La pioggia incessante che raccoglie le loro grida. E il fuoco. Che brucia le speranze di Rai/Yū di vivere nella foresta al riparo dalla vita “civi-le”, ma che ha anche il compito di riunire i due protago-nisti durante la scena dello Himatsuri (festa del fuoco). Qui il regista dà forse il meglio di sé riuscendo sapiente-mente a calibrare più livelli: il rumore del fuoco, i canti propiziatori, i movimenti della danza (ripresi prima a ve-locità naturale e poi al ralenti), la successiva (quasi) as-senza di suoni e rumori per fare spazio alle note di una canzone malinconica e toccante.

L’evolversi della storia è abbastanza prevedibile, con i due protagonisti così diversi ma allo stesso tempo uniti dall’amore. La forza del film però sta più che altro nella capacità di tratteggiare le loro emozioni, semplici e natu-rali, ma difficili da rappresentare senza cadere nel cliché tipico di operazioni simili.

La scelta di Aoi Yū è vincente per la freschezza e na-turalezza che dimostra nell’interpretare questo spirito li-bero e combattivo, che poco ha a che fare con l’idea di fi-gura femminile dell’epoca Edo (e che la accomuna per questo a certi personaggi miyazakiani). Lontana anni luce dalla ragazzina eterea e sbarazzina di Honey & Clover (Hachimitsu to kurōbā, 2006), riesce a sviluppare il pro-prio ruolo in un miracoloso equilibrio fra la sua indole

i-stintiva e selvaggia e la convenzione sociale che la porta a trovare un punto di contatto con il mondo civile.

Okada Masaki prova a far suo il tormentato perso-naggio di Narimichi (giovane signore appartenente al clan dei Tokugawa che soffre di una malattia genetica che lo porterà alla pazzia), ma la sua prova è forse la meno ri-uscita. Il suo viso pulito da idol non aiuta a rendere cre-dibile il suo malessere spirituale e la sua sofferenza fisica. Il tentativo è comunque lodevole e in certi momenti (i più importanti, in verità) riesce a trasmettere le giuste emo-zioni.

L’immagine non perde quasi mai la sua cinematogra-ficità (grazie anche a una eccellente fotografia, a cura di Nabeshima Atsuhiro) e poche volte si scade nell’effetto “dorama”41. Certo, alcune scene forzatamente romantiche non mancano e un finale affrettato e poco credibile chiu-de il film lasciando nello spettatore il senso di una man-cata “soddisfazione piena”. Ma questi “difetti” non sono sufficienti per togliere valore alla prova, decisamente riu-scita, di Hiroki Ryūichi nel cimentarsi con il jidaigeki. A quando il prossimo tentativo?

41 Serie televisive di fiction trasmesse regolarmente dalle principali emit-tenti della TV giapponese, spesso caratterizzate da una fotografia piatta e po-co curata.

CAPITOLO 18

GU SU-YEON

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