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TOKYO GORE POLICE

THE MONSTER X STRIKES BACK ATTACK THE G8 SUMMIT

TOKYO GORE POLICE

東京残酷警察 – TŌKYŌ ZANKOKU KEISATSU POLIZIA CRUDELE DI TOKYO

TOKYO GORE POLICE

Sara Battilana

Soggetto e Sceneggiatura: Kaji Kengo, Nishimura Yoshi-hiro, Nakoshi Sayako (Mizui Maki)

Fotografia: Momose Shūji Musica: Nakagawa Kō

Montaggio: Nishimura Yoshihiro

Interpreti: Shiina Eihi, Itao Itsuji, Yukihide Benny, Bū Ji-ji, Horibe Keisuke

Produzione: Fever Dreams, Nikkatsu 2008, 110’

Nella Tokyo di un ipotetico futuro il corpo di polizia pri-vatizzato lotta contro pericolosi assassini mutanti detti engineer. In una escalation di violenza sanguinaria la protagonista Ruka si ritroverà ad affrontare il proprio passato e, divenuta ella stessa un engineer, avrà l'occa-sione di vendicare la morte del padre durante un acce-sissimo scontro finale.

Violenza cruda ed esplicita, effetti speciali (alla “vec-chia maniera” o generati mediante computer grafica), mutazioni genetiche che strizzano l’occhio alla science fiction, zombie, serial killer spietati: lo splatter è apocalis-se di corpi straziati e bagnati da ettolitri di sangue, carne-ficina impersonale, fredda raffigurazione di dolore da in-trattenimento. Le dettagliate scene cruente disgustano e

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divertono per l’ironia che accompagna le rappresentazio-ni di una violenza estrema e grottesca al tempo stesso, in un gioco la cui regola principale è oltrepassare il confine del gusto e della morale per scatenare nel pubblico rea-zioni genuine e contrastanti. Nessun sussulto per una porta che si apre all’improvviso o un acuto di violino ben piazzato, solo puro e “realistico” orrore di carni lacerate e sangue a fiotti. Dalla sua nascita nei tardi anni Sessanta il genere splatter ha una storia e una presenza variegate all’interno del cinema occidentale e orientale; nel Sol Le-vante, poi, l’utilizzo di scene cruente non si ritrova sola-mente nell’horror o in sottogeneri come il pinky violence (filone legato al pinku eiga che unisce violenza ed eroti-smo), ma anche in classici jidaigeki (film in costume) incentrati sulle gesta di valorosi samurai, nei quali i co-piosi spruzzi di sangue contribuiscono alla drammaticità della scena (esempio fra i tanti il celebre duello finale in

Tsubaki Sanjurō del 1962 di Kurosawa Akira).

In Tokyo Gore Police di Nishimura Yoshihiro la tra-ma a metà tra film d’azione e fantascienza non è che un pretesto, un suggerimento per la messa in scena di folli mutazioni e violenze estreme. Il teatro è la Tokyo di un futuro apparentemente non lontano, protetta da un corpo di polizia recentemente privatizzato, la Tokyo Police Cor-poration, che presenta i tratti di un piccolo esercito in un sistema totalitario e distopico. I cosiddetti engineer sono la minaccia da combattere a tutti i costi: assassini mutan-ti in grado di trasformare le ferite subite in armi auto-generate, come lame e cannoni, annientabili solo attra-verso il completo smembramento del loro corpo e la ri-mozione di un tumore a forma di chiave responsabile del-la mutazione. La protagonista Ruka (interpretata dall’attrice Shiina Eihi, già conosciuta per il ruolo in Audition del 1999 di Miike Takashi) è la cacciatrice di engineer

nume-ro uno all’interno delle forze di polizia, una giovane don-na dalle tendenze autolesioniste, segdon-nata dalla morte del padre in età adolescenziale e del quale ancora ricerca l’assassino. La missione della donna e dell’intero corpo di polizia è quello di catturare ed eliminare gli engineer, in particolare il serial killer responsabile di svariati omicidi: le vittime vengono smembrate, dissanguate e i pezzi ri-trovati in uno scatolone sul luogo del crimine, accompa-gnati da flaconi contenenti il sangue estratto — un vero e proprio guanto di sfida verso le forze dell’ordine e una minaccia per tutta la città. Il susseguirsi degli eventi che porterà Ruka al confronto diretto con l’engineer responsa-bile delle mutazioni, uno scienziato mosso dall’intenzione di creare una nazione di suoi simili e dalla sete di vendet-ta verso il capo della polizia, segna un punto di svolvendet-ta nel-la narrazione: nel-la trama fino a ora nel-lasciata in secondo pia-no subisce una repentina accelerazione, ribaltando i ruoli di buono e cattivo. Le forze di polizia diventano i nuovi carnefici, inaugurando una caccia indiscriminata e vio-lentissima ai mutanti, mero pretesto per una strage di in-nocenti senza remore o distinzioni tra uomini, donne e bambini; gli agenti in divisa mandati a uccidere chiunque sia minimamente sospetto eseguono l’ordine provando un divertimento puro e fanciullesco, tra massacri ed ese-cuzioni in stile milizia. L’epilogo ricorda il livello “boss fi-nale” di un videogioco e si svolge in un tripudio di pura azione da combattimento dalle sfumature trash e surreali, con una conclusione che sancisce la supremazia dell’eroina neo-engineer Ruka.

Il film è una letterale pioggia di sangue, talmente fitta e copiosa da imbrattare l’obiettivo di rosso, quasi a creare una sorta di filtro mediante il quale lo spettatore osserva la scena. Il regista non risparmia nulla alla visione del suo pubblico e attraverso dettagli e primi piani mostra una

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violenza estrema e cruda, svuotata di quella umanità in grado di generare empatia: la stessa protagonista mostra una forte incapacità emotiva, affrontando con freddezza e una sorta di apatia le situazioni di pericolo e orrore del proprio lavoro, seppur costantemente tormentata dagli incubi che le fanno rivivere la morte del padre.

Trucco ed effetti speciali contribuiscono alla caratteriz-zazione dei personaggi e dominano la rappresentazione: il regista e sceneggiatore Nishimura Yoshihiro aveva infatti già curato gli effetti speciali di Meatball Machine (id., 2005) di Yamaguchi Yūdai e The Machine Girl (Kataude mashin gāru, 2008) di Iguchi Noboru. Tokyo Gore Police è quindi un’opera fortemente esplicita, presenta una propria grammatica filmica e molta cura nella realizzazione: l’inquadratura si inclina nelle sequenze che ritraggono l’ambiente conferendo la sensazione di un luogo imperfet-to, difficile, in disfacimento; la rappresentazione di scene concitate, invece, utilizza i movimenti tremanti della came-ra a mano per dare un senso di urgenza e disordine. L’uso della camera a mano, in particolare, si inserisce perfetta-mente nello stile del genere; una tecnica che al lirismo di campi lunghi e lente carrellate contrappone un punto di vi-sta che immerge lo spettatore nella scena, un’inquadratura che permette una profonda immedesimazione proprio per-ché poco artificiosa, meno classicamente cinematografica e più legata all’amatoriale, al quotidiano, all’immediato. L’utilizzo dei colori tratteggia i diversi momenti e le sensa-zioni che il regista desidera comunicare: accostamenti di forti tonalità complementari e luci ad hoc sono il tocco e-spressionista che investe la fotografia di un forte ruolo co-municativo. I toni del blu e del grigio dipingono le atmosfe-re cittadine, mentatmosfe-re le sfumatuatmosfe-re calde e ambrate distin-guono gli incontri tra la protagonista e un personaggio femminile a lei caro, probabile figura materna e amica.

Interessante l’immagine della polizia costituita come organo privato, i cui agenti indossano una divisa di evi-dente ispirazione samuraica e, armati di spada, viaggiano su auto sormontate da piccole pagode: gli elementi di e-poca feudale e il recupero delle tradizioni hanno il sapore nazionalistico tipico dei regimi totalitari, suggerendo le possibili conseguenze di una privatizzazione dei servizi fondamentali per il cittadino.

Tra gli elementi che aggiungono dissonanza e curiosi-tà alla pellicola, una serie di false pubblicicuriosi-tà che inter-rompono la narrazione: la propaganda della Tokyo Police Corporation è disseminata nel corso del film con video che mirano a presentare il nuovo organo di polizia come un’istituzione votata alla sicurezza dei cittadini, un grup-po di eroi dediti alla lotta contro il crimine, rappresentati nell’atto di compiere il proprio dovere quotidiano tra bru-tali esecuzioni di criminali, con tanto di decapitazioni. Tolto il mascherino che copre loro gli occhi, gli agenti sorridono alla telecamera con il casco e il viso imbrattati di sangue, in scene completamente surreali e ben poco rassicuranti.

Non manca inoltre una sottile critica ad alcuni aspetti della moderna società giapponese, seppure non si tratti certamente di una tematica prevalente all’interno film. Una ulteriore serie di falsi spot rappresenta la riflessione sull’alto tasso di suicidi e sulla desensibilizzazione nei confronti della violenza: un taglierino “dal design kawaii” viene pubblicizzato da un trio di adolescenti in divisa sco-lastica, con lo stile di quelle pubblicità colorate ed edulco-rate della televisione giapponese che tanto divertono e stupiscono all’estero. In un altro spot, invece, il prodotto reclamizzato è un videogame che permette ai giocatori di vendicare un proprio caro torturando l’assassino per mezzo di un controller wireless.

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Ennesimo elemento dalla natura surreale è il perso-naggio interno alla polizia, apparentemente mutuato da

Battle Royale (id., 2000) di Fukasaku Kinji, che si occupa

delle comunicazioni con gli agenti: una donna dal fare al-legro e incitante, con divisa in stile “night club”, che risul-ta particolarmente grottesca nel modo in cui descrive la violenza in corso e intervalla le scene.

Nella fotografia, così come nella caratterizzazione dei personaggi, si nota anche una forte ispirazione all’estetica tipica dei manga: l’uso delle prospettive e della composi-zione, l’aspetto di personaggi come il medico della polizia, le pose dinamiche assunte dalla protagonista, così come le mutazioni e i costumi.

Tokyo Gore Police è puro intrattenimento violento,

un tripudio in pieno stile gore di carneficine ed erotismo al limite dell’assurdo, con un substrato profondamente comico e grottesco: nel divenire semplice carne da macel-lo, il corpo zampilla sangue con forza prorompente, si flette e si spezza, in un certo senso destinato a essere smembrato e riassemblato in un mondo — quasi — im-maginario che ha perso irrimediabilmente il controllo.

CAPITOLO 12

KOREEDA HIROKAZU

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