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La lingua simbolo di potere

Questa dunque era la volontà di Richelieu quando all’inizio del XVII secolo si rende conto che la Francia per affermare la sua grandezza ha bisogno di una lingua, ma non di una lingua per il popolo, quella esiste già, anzi ne esistono molte; ha bisogno di una lingua da esportare, di una lingua simbolo di quel potere che con le armi si è imposto nel mondo occidentale conquistandosi una posizione di rilievo fra le nazioni del vecchio continente europeo. Ma perché questa lingua possa assumere questa funzione di “rappresentanza”, deve essere codificata e distaccata dall’uso quotidiano che corrompe, deve diventare una lingua capace di competere con le lingue classiche: per questo ha bisogno di essere “ripulita”, “epurata” (prendo questo termine nella sua prima accezione che è quella di “rendere puro, purificare, depurare”) da quella massa di termini a cui la Pléiade aveva aperto le porte della creazione letteraria e portata ad una sua forma “pura e perfetta” per poterle poi aprire le porte dell’eternità. Bisogna tornare ad un rigore che i poeti cinquecenteschi avevano un po’ perso di vista e costituire una norma, un bon usage, destinato a dettar legge a tutti coloro che volessero avvicinarla.

Eccoci di fronte alla prima profonda dicotomia che è alla base di quell’interrogativo presente nel titolo di questo intervento: Du Bellay lamentava l’assenza di bons agriculteurs che, sull’esempio dei Romani,

D. R. Miller e A. Pano 92

innaffiassero con cure costanti e facessero fruttificare quella pianta (il volgare francese) che era stata in qualche modo abbandonata e ridotta ad un arbusto selvatico incapace di produrre alcunché; Malherbe e Vaugelas, i jardiniers cui allude invece Duneton nel suo testo,2 da parte loro, nel mettere mano a quest’opera di abbellimento e conservazione, avevano in mente però un giardino alla francese, un luogo di perfezione paesaggistica dove ogni cosa doveva occupare un posto prefissato e portare il proprio contributo all’estetica del luogo. Quest’idea si contrapponeva perciò a quella espressa da Du Bellay che avrebbe voluto una vegetazione curata sì ma con una crescita ricca, lussureggiante e in qualche modo “naturale”, idea che si troverà incarnata nel corso del Settecento in quello che sarà definito “giardino all’inglese”.3

Si contrappongono qui dunque due concezioni e due visioni del mondo che hanno e avranno importanti ripercussioni sulla cultura e sulla lingua francese. Da un lato si proponeva una lingua codificata,

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“Elle n’a l’aspect qu’elle présente, sa grâce, son odeur, que parce que des jardiniers l’ont fait naître; ils l’ont semée ou bouturée, et ils se sont bien occupés d’elle. Si on cesse brusquement de la soigner, de l’arroser, de lui fournir de l’engrais, elle meurt très vite. Elle s’étiole, elle sèche sur pied, la plante – belle est bonne à remplacer” (27-30).

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“Ainsi puis-je dire de notre langue, qui commence encore à fleurir sans fructifier, ou plutôt, comme une plante et vergette, n’a point encore fleuri, tant s’en faut qu’elle ait apporté tout le fruit qu’elle pourrait bien produire. Cela certainement non pour le défaut de la nature d’elle, aussi apte à engendrer que les autres, mais pour la coulpe de ceux qui l’ont eue en garde, et ne l’ont cultivée à suffisance, mais comme une plante sauvage, en celui même désert où elle avait commencé à naître, sans jamais l’arroser, la tailler, ni défendre des ronces et épines qui lui faisaient ombre, l’ont laissée envieillir et quasi mourir. Que si les anciens Romains eussent été aussi négligents à la culture de leur langue, quand premièrement elle commença à pulluler, pour certain en si peu de temps elle ne fût devenue si grande. Mais eux, en guise de bons agriculteurs, l’ont premièrement transmuée d’un lieu sauvage en un domestique ; puis afin que plus tôt et mieux elle pût fructifier, coupant à l’entour les inutiles rameaux, l’ont pour échange d’iceux restaurée de rameaux francs et domestiques, magistralement tirés de la langue grecque, lesquels soudainement se sont si bien entés et faits semblables à leur tronc, que désormais n’apparaissent plus adoptifs, mais naturels. De là sont nées en la langue latine ces fleurs et ces fruits colorés de cette grande éloquence, avec ces nombres et cette liaison si artificielle, toutes lesquelles choses, non tant de sa propre nature que par artifice, toute langue a coutume de produire” (ch. III).

standardizzata, attentamente studiata e descritta nella grammatica e nel dizionario dell’Académie, cui attribuire una funzione più simbolica che comunicativa destinata com’era a rappresentare la cultura, la conoscenza prima ancora che la nazione nella quale nasceva e gli uomini che la formavano. La Francia, alla forza delle armi e della politica andava ad affiancare questo strumento cesellato e pronto per diventare l’unica espressione della diplomazia, la lingua per eccellenza della trattativa e della mediazione.

Ad essa si contrapponeva l’uso linguistico della popolazione francese che non parlava un’unica lingua ma si esprimeva in molte lingue regionali e parlate locali che permettevano una comunicazione immediata per i bisogni quotidiani e per le trattative giornaliere.

Il Settecento, secolo dei lumi, creerà, grazie alla lingua francese codificata dei ponti tra gli intellettuali di tutti i paesi occidentali (quel co- linguismo di cui parla Renée Balibar) e tra tutte le corti europee diventando la lingua stessa della cultura, lingua universale, insomma. Mentre la lingua del popolo si manteneva all’oscuro di questi cambiamenti sviluppandosi liberamente senza alcun ostacolo.

La lingua francese aveva assunto dunque un ruolo di lingua di mediazione, capace di superare i confini nazionali e di espandersi ma fra simili, creando quella “république des lettres” che segnerà un momento altissimo della cultura occidentale e che è alla base dell’Europa moderna e dei principi su cui si fonda la nascita degli Stati Uniti d’America (come ricorda Fumaroli 2004).