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lità in rapporto al «diritto di cura»

Nell’ambito della dottrina civilistica non esiste la «categoria giuridica» dell’anziano, ma l’ordinamento valuta la vecchiaia come condizione sociale meritevole di tutela perché collegata a situazioni concomitanti che pongono la persona anziana in stato di emarginazione. Questo differenzia la categoria dell’anziano da quella del disabile, che invece appare come persona protetta anche dall’articolo 38 della Costituzione.

Poche sono le norme del codice civile che riguardano la prote- zione dell’anziano. In particolare ricordiamo la violenza morale (art. 1435 c.c.), che porta all’annullamento di un contratto laddove si ravvisa il «vizio» di tale violenza. In campo penale troviamo ipotesi paradigmatiche quali i delitti contro il patrimonio, attraverso frode praticata ai danni dell’anziano stesso.

Le osservazioni rilevate portano a considerazioni sulla defini- zione di «anziano» e di «disabile», definizioni che hanno trovato una evoluzione nominale prevalentemente dettata da atteggiamenti culturali di non discrimina- zione delle persone. Non è difficile infatti rinvenire nelle analisi retrospettive della normativa dal 1950 al 1970 i termini di minorazione, handicap, cronicità, come sinonimi di stati patologici e di salute «insufficiente»; lo stesso può dirsi per le malattie mentali. Tali terminologie favorivano anche l’inclusione di queste persone nelle diverse forme assistenziali al tempo previste: dalle scuole speciali, agli istituti medico-psico-pedagogici, alle istituzioni manicomiali.

Certamente la situazione descritta aveva meno positività per il recupero delle persone e spesso le stigmatizzava, ma nessuno metteva in dubbio che l’assistenza degli handicappati o minorati fosse a carico del Ministero della Sanità che vi provvedeva, attraverso i medici provinciali, oppure per malati di mente erano le amministrazioni provinciali che gestivano ospedali psichiatrici e servizi territoriali di «igiene mentale». Per i cronici purtroppo non era altret- tanto «semplice» individuare un Ente competente: se emergevano screzi psichici (Alzheimer e deterioramenti psico-organici) e si provvedeva anche attraverso l’igiene mentale, oppure se si imputava la cronicità a vecchiaia, l’orientamento era quello dell’assistenza pubblica, delegata alle IPAB (Istituzioni pubbliche di Assistenza e Beneficenza), agli Enti Comunali di Assistenza (ECA) e alle stesse amministrazioni comunali, con il concorso finanziario della persona e della famiglia laddove il reddito lo consentiva.

Oggi, con leggi più adeguate, risposte più appropriate, emerge spesso la difficoltà di definizioni univoche per definire lo stato di fragilità di una persona: si parla di disabilità, di non autosufficienza, di problemi comportamentali, di deterioramento psichico, per non aggiungere la recente definizione di «diversamente abili» che traducendo contenuti di percezione sociale, finiscono per negare «diritti» collegati a concreti bisogni derivati da patologie congenite o acquisite e loro esiti.

Ciò comporta senz’altro una revisione di terminologie clini- che obsolete, ma anche la rinuncia a definizioni di grande superficialità (es: diversamente abili), che peraltro solo apparentemente superano lo «stigma» che spesso accompagna tutte le fragilità fisiche e psichiche (si pensi solo allo stato di superamento delle barriere architettoniche in Italia).

Le considerazioni evidenziate richiedono un lavoro di approfon- dimento comune della medicina e della giurisprudenza per individuare termini

inequivocabili nel definire lo stato di salute (o di malattia) della persona, che non neghi diritti di cura, di riabilitazione e di assistenza a carico dei sistemi (sanitario e sociale opportunamente integrati), preposti ad offrire le prestazioni necessarie rispondenti ai bisogni delle fragilità.

In proposito, per offrire una riflessione in materia che può essere utile al comparto sanitario e alla giurisprudenza, si riportano le definizioni che nel 1980 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha introdotto come prima classificazione internazionale di disabilità (intesa come limitazione o mancanza di abilità) considerando le diverse fasi che dalla malattia conducono all’handicap:

1) malattia: evento patologico;

2) menomazione: potenziale esito dell’evento patologico; 3) disabilità: limitazione, o assenza del poter esercitare una funzione;

4) handicap: esito «sociale» della limitazione o della mancanza dell’esercizio della funzione.

La individuazione delle evoluzioni da «malattia a handicap», è stata sottoposta a molte critiche e nel 1999 l’OMS ha proposto una seconda classificazione: International Classificantion of Impairment Disabilities and Handicaps ICIDH-2; tale versione, non ancora definitivamente approvata, considera maggiormente la multidimensionalità del fenomeno «handicap» e propone una definizione aperta alle esigenze ed agli orientamenti scientifici di chi deve utilizzarla.

In sintesi, la disabilità, indipendentemente dall’età, è definita come una relazione «biunivoca» tra condizioni di salute e fattori contestuali, quali la situazione ambientale e quella personale, mentre il significato dato ad handicap prende in considerazione le ripercussioni negative a danno del soggetto e dei suoi rapporti sociali, che si instaurano quando una persona è soggetta ad una riduzione, oltre la norma, di una o più funzioni sensoriali, motorie e/o psichiche. In questa accezione l’handicap appare come una pe- nalizzazione subita da alcuni che sono meno dotati di opportunità personali e sociali rispetto ad altri.

L’handicap rappresenta dunque l’aspetto sociale della me- nomazione, può quindi rappresentare la sintesi o il risultato dell’impatto tra disabilità e società.

Spesso l’espressione handicap viene confusa con quella di defi- cit, usando tale vocabolo per indicare le patologie e le situazioni più differenti che sono alla base dell’handicap; in questo modo si finisce per trascurare il fatto che il deficit di per sé non comporta automaticamente una penalizzazione, ma questa si acquisisce in relazione al contesto sociale che sta intorno a chi è portatore del deficit stesso.

La legislazione in atto e maggiormente quella pregressa, fanno emergere una grande varietà di terminologie con cui si indicano le persone disabili: handicappati, minorati, mutilati, invalidi, subnormali, inabili, portatori di menomazioni fisiche e sensoriali. La proliferazione di queste denominazioni è indice della disorganicità che ha caratterizzato la materia, anche sul piano normativo e dell’influenza che atteggiamenti culturali delle diverse epoche hanno avuto in questo campo.

In oggi, la legislazione, così come la giurisprudenza, per i portatori di handicap, usano in misura prevalente e pressoché equivalente le due espressioni disabile o persona portatore di handicap, mentre per la malat- tia mentale, la nozione di malato di mente viene indicata dalla dottrina e dal legislatore con termini diversi quali «sofferenti psichici»6, «disabili psichici o

mentali», «handicappati psichici», «disturbati mentali»7, «infermi di mente»8.

Ciò, genera molta confusione, non essendo chiaro, come si evidenziava in precedenza, se si tratti dello stesso tipo di patologia.

Come si osservava nella parte iniziale di questo scritto, la terminologia clinica di designazione della persona con bisogni di cura e di assistenza è assai importante proprio per garantire i suoi diritti. Chi scrive, sottolinea l’importanza e la necessità di giungere a «definizioni» o «glossari di assistenza» che possano essere condivisi dai medici e dai giudici per far sì che siano garantite ad uguali bisogni omogenee riposte assistenziali da parte di tutto il territorio italiano. È certo, che se non si arriva a questo traguardo, i livelli essenziali uniformi, non potranno mai essere garantiti ai cittadini di questo Paese.

È indispensabile su questo piano che lo Stato, con un’intesa allargata alle Regioni, declini in maniera più puntuale i livelli essenziali socio- sanitari ed anche quelli sociali (LIVEAS) ad oggi inesistenti ad oltre un quin- quennio dalla legge 328/2000. Anche le spinte culturali apparentemente legate alla non-stigmatizzazione delle persone con difficoltà debbono lasciare posto a definizioni corrette sul piano clinico, in maniera che la giurisprudenza non debba «arrampicarsi sugli specchi» per garantire i diritti a chi ha meno di altri. D’altro canto lo stesso Don Milani ha più volte affermato che non c’è maggior iniquità di far apparire «uguali» persone che hanno opportunità differenti.

Le definizioni dell’OMS sopra citate, lasciano oggi posto, a modalità di valutazione della non autosufficienza (complessivamente intesa sia a favore degli anziani che dei disabili), collegate alle capacità della persona di compiere o meno, in maniera autonoma, gli atti della vita quotidiana e di saper sostenere anche relazioni esterne.

È sugli aspetti collegati all’autonomia della persona che si muove anche l’OCSE, nella valutazione a livello internazionale della spesa, attuale e

futura, a favore delle long-term care, suggerendo agli Stati membri un glossario per analizzare quali servizi producono tale spesa.

Il glossario, inserito nel documento OCSE

Projecting Oecd