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nella lunga assistenza

Il punto più controverso nella presente trattazione è quello di stabilire l’estensione dell’obbligo del SSN: fino a quando lo stesso deve intervenire finanziariamente.

L’atto di indirizzo sulla ripartizione della spesa del 1985, sostituito, ma confermato anche con maggior chiarezza, nei contenuti dal DPCM 14 febbraio 2001, come esposto al punto 1, ricomprende come attività assistenziali di rilievo sanitario, con imputazione dei relativi oneri al SSN, «i ricoveri in strutture protette, comunque denominate, sempre che le stesse svolgano le attività dirette, in via esclusiva o prevalente: alla riabilitazione o rieducazione funzionale degli handicappati e dei disabili e alla cura e recupero fisico-psichico dei malati mentali o alla cura degli anziani non autosufficienti non curabili a domicilio».

A quanto esposto si aggiunge il DPCM 29 novembre 2001, allegato 1 C, che disciplina i livelli di assistenza socio-sanitaria da assicurare ad anziani, minori, disabili, malati di mente, malati oncologici e di AIDS, persone con dipendenza.

Ciò che ora prendiamo in esame sono i tempi di assistenza, cioè quale periodo di cura deve essere assicurato dal servizio sanitario. La giurisprudenza più recente, superando il criterio formale relativo alla dichia- razione di dimissibilità considerata come l’espressione della guarigione clinica della fase acuta della malattia, si è orientata per l’individuazione di un criterio che tuteli maggiormente la salute del paziente. Il criterio scelto dalla giuri- sprudenza amministrativa ed esposto nella sentenza del TAR Veneto – sez. III n. 5733/03, distingue tra prestazioni che abbiano natura di interventi sanitari e quindi siano direttamente collegate al mantenimento dello stato di salute e prestazioni invece connesse ad una tutela meramente assistenziale con carattere di mantenimento/accudimento.

Secondo questo orientamento le funzioni di assistenza sanita- ria sarebbero solo quelle connesse al recupero o alla «restitutio ad integrum» mentre si trascura quanto ha sancito il D.Lgs. 229/99 all’art. 3 septies, dove alcune funzioni sociali sono parte integrante della cura e senza le medesime, nemmeno la prestazione sanitaria ha i suoi effetti. È in questa ottica che viene garantito il diritto all’assistenza agli stati di cronicità dove la situazione clinica può non essere suscettibile di guarigione, ma se non si interviene anche con prestazioni sanitarie si rischia il declino ed il peggioramento della salute. Va detto in questo senso che il diritto non prevede, negli effetti giuridici, alcuna differenza tra patologia acuta e patologia cronica.

Ne discende quindi che fanno capo al Fondo sanitario anche le prestazioni dirette al «contenimento degli esiti degenerativi o invalidanti» di patologie congenite o acquisite, ovvero le prestazioni e le terapie che mirano a conservare le capacità residue di un paziente o ad impedire il peggioramento del suo quadro clinico, proprio perché dirette «al contenimento degli esiti degenerativi» che si verificherebbero in mancanza di tali azioni. Ciò è ben sancito sia dai LEA socio-sanitari che dall’art. 3 del DPCM 14.02.2001, sul- l’integrazione socio-sanitaria.

Sempre secondo il decreto sull’integrazione, per stabilire a chi spetta «pagare» ci troviamo oggi, a non dover utilizzare la dichiarazione di dimissibilità per andare a definire la natura degli interventi sanitari o assi- stenziali, ma dobbiamo valutare le condizioni psico-fisiche della persona con procedure e modalità multidimensionali, per stabilire di quali prestazioni necessita ancora il soggetto, applicando alle stesse, costi sanitari e concorso alla spesa della persona secondo quanto definito dai LEA.

Per portare alcune esemplificazioni si cita la casistica dei malati di mente, dove il Consiglio di Stato, sez. V, 29 novembre 2004, n. 7766, rifor- mando la sentenza di primo grado (TAR Lombardia-Brescia n. 1230/2001), ha ritenuto che, trattandosi di un malato affetto da epilessia di origine cere- bropatica sottoposto ad uno specifico trattamento sanitario e non soltanto ad un’attività di sorveglianza e di assistenza non sanitaria, sia da condividersi l’orientamento – espresso da Cassazione Civile, 20 novembre 1996, n. 101502

in merito ai malati mentali cronici.

Secondo tale sentenza, che interpreta correttamente le indi- cazioni dei LEA, quando le prestazioni assistenziali, sono erogate congiunta- mente a quelle sanitarie, per migliorane gli effetti, l’attività va considerata di rilievo sanitario ed è pertanto di competenza finanziaria del Servizio sanitario. Il principio che si afferma in questa sentenza, è quello di considerare anche il mantenimento in buone condizioni psico-fisiche, come un’attività a rilievo sanitario.

I giudici del TAR non avevano considerato ciò che il Consiglio di Stato ha più tardi affermato, cioè che si tratta di «cure» anche per quegli atti che pur non tendendo in via prevalente o esclusiva, alla riabilitazione o alla guarigione dell’assistito, si propongono comunque il mantenimento di buone condizioni psico-fisiche. In questo senso le «prestazioni di rilievo sanitario», sono dunque vere e proprie cure, la cui interruzione ha azione negativa sulla salute della persona e dette prestazioni devono essere affidate a personale pro- fessionalmente in grado di valutare misure efficaci e sicure per la persona.

Secondo tali indirizzi il Consiglio di Stato, V, n. 3377/2003, per una persona affetta da grave insufficienza mentale stabilizzata e irrever- sibile, alla quale venivano somministrati farmaci per contenere episodi di agitazione psico-motoria e che aveva quindi bisogno di assistenza continua per l’igiene personale, per alimentarsi e per tutti i bisogni primari, ha sanciti la competenza alla spesa da parte del servizio sanitario3.

Ancora, anche in tempi più recenti, il Consiglio di Stato, V, n. 479/2004 conferma questo orientamento, aggiungendo che tutte le spese di carattere sanitario, anticipate dagli Istituti di ricovero, cura e assistenza, devono gravare sul servizio sanitario e non sui Comuni quando siano dirette alla cura e al recupero psico-fisico dei malati di mente o gravi disabili, purché le suddette prestazioni siano integrate con quelle dei servizi territoriali (si veda in proposito il disposto dell’articolo 6 del DPCM 8.8.1985).

Una recente pronuncia del TAR Lombardia-Brescia n. 55/2005 ribadisce che l’elemento qualificante ai fini del corretto inquadramento di un’attività nelle prestazioni sanitarie è la sussistenza o la prevalenza, di inter- venti di cura e/o di recupero atti a migliorare o contenere gli esiti degenerativi del processo patologico4.

Va precisato, che in precedenza, la medesima sezione (Bre- scia) con sentenza 11/12/2003, n. 1688, aveva ritenuto che non rientrano, tra le prestazioni sanitarie quelle rese in «strutture protette extraospedaliere» meramente sostitutive dell’assistenza familiare. In questo caso si trattava di un soggetto insufficiente mentale medio, ormai stabilizzato e irreversibile, tale da richiedere solo interventi farmacologici unitamente ad accudimento quotidiano considerato assimilabile alle cure familiari. In questo caso, Il TAR aveva ritenuto le prestazioni rese prive di qualsiasi rilievo sanitario, essendo totalmente assente lo scopo curativo5.

Da questi pochi esempi citati si comprende la difficoltà, specialmente per i giudici, che peraltro debbono avvalersi di loro consulenti tecnici d’ufficio, per distinguere la natura della prestazione resa alla persona da assistere. Tutto ciò avviene anche perché:

– i livelli essenziali socio-sanitari sono stati declinati in maniera troppo sintetica e non descrittiva;

– è spesso difficoltoso stabilire per una prestazione la natura di rilievo sanitario, se non si ha un «nomenclatore di riferimento», come avviene in molti paesi europei per le long term-care;

– la cultura clinica di chi propone o di chi analizza la natura della prestazione è assai differenziata, per formazione, etica, competenza nella medicina delle long term-care.

Sotto questi aspetti, le conclusioni di questo scritto formule- ranno proposte per omogeneizzare la situazione e rendere uniformi i diritti delle persone fragili.

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Il riparto di giurisdizione nel contenzioso

Trattando del riparto di giurisdizione, la giurisprudenza sembra ormai consolidata nell’orientamento che la giurisdizione del contenzioso in materia sociosanitaria è del Giudice ordinario, che è dotato di piena potestà decisoria nelle controversie in cui viene messo in gioco il «diritto alla salute», sia in riferimento alla decorosità e salubrità dell’ambiente di vita della persona, che sotto il profilo della lesione di tale diritto, in maniera illecita, da parte di terzi.

In merito all’attribuzione di giurisdizione, vanno sottolineate anche le modifiche introdotte in proposito dal D.Lgs. 80/1998 «Nuove disposi- zioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione am- ministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15

marzo 1997, n. 59» e dalla legge 205/2000 «Disposizioni in materia di giustizia amministrativa» che hanno mutato le attribuzioni di competenze tra giudice amministrativo e giudice ordinario in relazione alla distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo.

Purtroppo come si è avuto modo di sottolineare già in prece- denza, il passaggio da un generico diritto alla salute a più concrete prestazioni per mantenerla attraverso cure adeguate, mostra nella giurisprudenza attuale un prevalente degrado del «diritto soggettivo» alla salute verso un «interesse legit- timo»; ciò può derivare sia da problemi di natura interpretativa che da difficoltà finanziarie del servizio sanitario a potere rispondere a tutta la domanda.

Al riguardo è significativa l’allocuzione della sentenza di Cas- sazione, Sezioni Unite, 10 aprile 1992 n. 4411, in cui si afferma: «alle posizioni soggettive correlate alle prestazioni socio assistenziali, e agli aspetti qualitativi delle prestazioni sanitarie, va normalmente riconosciuto carattere di interesse legittimo». Secondo il prevalente orientamento della Suprema Corte il dovere di tutela della salute previsto in capo alla Repubblica, non è tradotto (o forse traducibile...) in un adempimento, cui la Pubblica Amministrazione, sia tenuta in modo illimitato.

Su questo punto la Corte Costituzionale nella pronuncia del 16.10.1990 n. 455 ha distinto tra:

– diritto alla salute come diritto alla difesa dell’integrità psico- fisica della persona umana, di fronte ad aggressioni o a condotte lesive o illecite da parte di terzi;

– diritto alla salute come diritto a trattamenti sanitari.

Nell’ipotesi dei trattamenti sanitari la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il diritto alla salute è subordinato alle norme, alle risorse, agli strumenti, ai tempi e ai metodi di attuazione della tutela come disciplinata dal legislatore ordinario e quindi, la norma costituzionale avrebbe solo un profilo programmatorio.

La sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 10 aprile 1992 n. 4411, sopra citata sull’assistenza agli anziani o agli ammalati cronici non auto- sufficienti, finisce per demandare tale attività alla discrezionalità del Servizio sanitario. Pertanto, in base a questa sentenza le prestazioni da erogare devono essere inserite nella programmazione e nell’organizzazione sanitaria da parte degli Enti preposti al servizio sanitario e la pretesa di assistenza in capo alla persona privata, è riconosciuta come interesse legittimo e non diritto soggettivo.

Per la categoria dei «disabili», la giurisprudenza amministrativa ritiene che debbano essere devolute alla giurisdizione del Giudice ammini- strativo, le controversie relative all’erogazione delle prestazioni sanitarie che il Servizio sanitario nazionale deve assicurare a norma dell’art. 7 lettere a) e b) della legge 5 febbraio 1992 n. 104, «Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione

sociale e i diritti delle persone handicappate», perché considerate controver- sie relative alla prestazione di pubblici servizi ai sensi dell’art. 33, comma 2, lettera e) del D.Lgs. n. 80/1998, volte a garantire alla persona «l’opportunità di ricevere una determinata prestazione terapeutica».

Sugli aspetti relativi alle elargizioni in denaro da parte dell’Ente pubblico, esiste un cospicuo contenzioso e gli stessi rientrano nell’ambito delle obbligazioni pubbliche, dove si distinguono obbligazioni che traggono origine direttamente dalla legge e obbligazioni che derivano da provvedimenti amministrativi.

La giurisprudenza, laddove l’attribuzione nasca da un prov- vedimento amministrativo che come tale è connotato da discrezionalità am- ministrativa, ritiene spetti «sempre» all’amministrazione operare scelte non arbitrarie e nel contempo discrezionali, in ordine ai tempi e ai modi di erogazione dell’emolumento, rispettando criteri di priorità e gradualità nella valutazione comparativa dei diversi interessi privati coinvolti, collegata al preminente in- teresse pubblico che deve essere perseguito dall’amministrazione.

Nella linea esposta, anche la misura del contributo previsto, pure se legislativamente determinato, è suscettibile a riduzione da parte del- l’Amministrazione: la vincolatezza del quantum non esclude la discrezionalità sull’entità, quando questa sia correlata ad un ben individuato interesse pubblico. Questo concetto è espresso in modo lineare nella pronuncia della Cassazione civile, Sezioni Unite, 11 ottobre 1994, n. 8297 e recentemente confermato nella pronuncia del Consiglio di Stato n. 5513/2003.

Rientrano invece nell’ambito della giurisdizione del Giudice ordinario le controversie in materia di mantenimento di disabili privi di capacità patrimoniale presso strutture accreditate o convenzionate, perché, in questo caso, in capo al disabile, sussiste un diritto soggettivo (TAR Lombardia, sez. I, 26.05.2003, n. 2345).

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La terminologia clinica e le definizioni di disabi-