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Politecnico di Torino

delle sue particolarità specifiche.

È un territorio che occupa una fascia dai 600-800 m fino ai 1800-2000 e che si basava un tempo sulla produzione principale agricola di castagne, patate, latte e formaggio: castagni in basso e prati in alto, residenze permanenti in basso e “gias” (permanenze estive) residenze estive in alto, coltivazioni e agricol- tura povera in basso e pascolo in alto, relazioni sociali in basso e solitudine inimmaginabile in alto.

Ancora oggi in basso si vedono resti di orti, forni, sec- catoi, stalle, fienili, mentre in alto i pascoli (e le residen- ze per i pascoli) sono deserti. Dai pascoli oggi, a fine giornata, il latte viene portato al basso con fuoristrada. Delle vecchie coltivazioni (patate, segale, frutta, ca- stagne) non rimane quasi nulla che non sia ormai in- selvatichito.

E anche i boschi di castagni, vera ricchezza (come in Liguria gli oliveti) sono ormai per gran parte poco curati e abbandonati.

Interessa però qui parlare dell’architettura che un tempo supportava coltivazioni e allevamento. La- sciando da parte forni, seccatoi e residenze stabili, rimangono le costruzioni per la residenza stagionale e le costruzioni per il lavoro: per riparare fieno, attrez- zi e raccolti, molto spesso anche pluriuso con la re- sidenza (i montanari di un tempo necessitavano solo di una “berlecia” e cioè di un pagliericcio per dormire e poi di un focolare per un pasto caldo ogni tanto). Queste costruzioni hanno sempre un carattere di provvisorietà e di intelligente arrangiamento.

Gli 800 m circa s.l.m. sono il livello che divide la bas- sa valle dalla montagna. Su questo confine si colloca- no per il monregalese le “scapite” (casotti): tipologia

molto interessante e, centocinquanta anni fa, molto frequente in tutte le valli. Il tipo è caratterizzato da una geometria molto semplice: parallelepipedo co- perto con tetto a capanna, eventuale soppalco sulle eventuali catene delle capriate.

I pilastri d’angolo possono essere in legno o in mura- tura, la struttura del tetto è sempre in legno grezzo, scortecciato.

Nel monregalese (e solo qui e non in tutte le altre valli del cuneese) lo scivolamento in basso dell’inte- ro volume, poggiato sempre su pendio scosceso, è ostacolato dalla presenza di albero vivo (per lo più un castagno ma anche un frassino, un faggio, un pero). Molto sorprendente è sempre la chiusura delle pareti (con una sola porta) e la copertura. Si va, per le pareti, da pertiche e ramaglia a pertiche e fascine, assi, la- miere e per il tetto dalla paglia (in antico) direttamen- te alle lamiere ondulate. Esistono però divertenti ec- cezioni che vogliono per il tetto le scandole di legno o i fondi di bidoni e per le pareti fascine e, anche, per le ultime arrivate, serramenti e persiane di recupero. Il tipo, nella sua estrema semplicità, sopporta infinite varianti, anche semplici ramaglie con foglie che poi, secche, venivano implementate di anno in anno o an- che, in antico, fascetti di paglia di segale anch’esse periodicamente sostituite. Di queste ultime ne so- pravvivono pochissime (a Prà di Roburent, ai Buoni di Pamparato).

Le “scapite” seguono i lavori sui versanti delle valli e seguono i raccolti: servono a conservare per l’inverno fieno, paglia, foglie secche, legname ma anche a pro- teggere e conservare sacchi di castagne, di patate, co- voni di grano e di segale. Come in Liguria le “caselle”. Per la loro estrema semplicità e per il costante utiliz- zo di materiali di fortuna, per lo più presenti sul po- sto, possono essere fabbricate in basso o in alto, in terreni piani con erba o in ripidi boschi scoscesi di castagni, di faggio o di betulle. Per piantare tronchi in legno basta una fossa scavata a mano, per allog- giare travi o capriatelle in legno basta una scala. Una particolarità costruttiva è già un tronco con forca in cima e una rarità è l’uso di chiodi o di fil di ferro. Con una sega e un’accetta di prepara ogni cosa. Per il fis-

saggio sono usati legacci in salice o anche in giovani polloni di castagno. Su, ai pascoli alti, le permanenze stagionali (“gias”) sono risolte con ancora maggiore risparmio: un recinto di pietre raccolte sul posto, due pali infissi a sorreggere una pertica, un telo di sacchi o di tela una volta, ora di tessuto sintetico. Le pietre in basso sono per impedire al vento di sollevare la primordiale tenda. A volte un fossatello intorno serve per l’acqua di pioggia. C’è una sola apertura con sol- levamento di un lembo del manto di copertura. Nella tenda-rifugio si dormiva, si mangiava, e, anche, si lavorava il latte. Questi ancestrali ripari per il lavoro a quote alte permangono a lungo, fino alla metà del secolo scorso. Ora esistono ancora per il riposo not- turno, ma sempre meno. I fuori strada hanno sovver- tito completamente anche l’alpeggio.

LP

Assessore Ferrero, lei ha spesso messo l’accento sul- la necessità di avviare politiche e interventi mirati alla valorizzazione e promozione di un’architettura di qua- lità per i manufatti connessi all’agricoltura, specie nei contesti sensibili quale quello alpino. Nel suo attuale ruolo come sta immaginando e portando avanti que- sta posizione nei nuovi Piani di Sviluppo Rurale (PSR) e, in generale, nelle politiche di sostegno all’agricol- tura?

Noi ci siamo molto interessati al paesaggio perché costituisce non solo un valore in termini di bellezza e di patrimonio, ma sostanzialmente rappresenta un valore economico.

Stiamo infatti cercando di legare le produzioni agri- cole e l’agroalimentare al territorio. Se un prodotto alimentare evoca nel nome o sull’etichetta un territo- rio, la mente del fruitore immediatamente identifica il prodotto con quel luogo. Quindi se questo territorio dà come ritorno un’evocazione positiva si ha del valo- re aggiunto, se dà un’evocazione negativa si ottiene un disvalore del prodotto ad esso collegato.

Faccio un esempio, se dico Barolo oggi viene in men- te il paesaggio viticolo dell’Unesco, delle belle col- line. Se allo stesso vino attribuisco un altro nome, ad esempio Brianza, questo potrà essere un nome buono per un mobile, di sicuro non può esserlo per un vino.

Allora è chiaro che cambiano i valori in campo, e quindi dobbiamo porre molta attenzione al paesag- gio, perché per noi, oltre ad essere un patrimonio da lasciare in eredità ai figli, è un valore che tutti i giorni viene attribuito ai prodotti di quel paesaggio.

È chiaro quindi che avere un’architettura compatibile con un paesaggio, sia una necessità per creare una mentalità e una cultura del “bello”, anche perché il “bello”, alla fine, paga.

È un tema su cui mi piacerebbe dare un segnale, per- ché spesso il paesaggio è visto come un qualcosa che

Qualità del prodotto,