Una scelta tradotta da seBastiano saGliMBeni
con tre esempi di testi critici Un giorno mi disse che il suo amore
non aveva peso, ch’era vivo solo nell’aria che respiravano, che quel bacio era una formula muta un tratto delle loro parole ma che non si poteva dire si perdeva nel fiato di lei come un’accento. Io non capivo e mi stringevo stringevo nel petto le mie gelose domande i miei infiniti perché.
Amico mio la mia res amissa non l’ho ancora trovata e come tutte le cose non più esistenti nella mente degli uomini mai più la troverò.
Restati dunque con l’anima di lei e col suo corpo,
restati resta nel suo respiro fino all’eternità
e non pensare più a me.
note
* Questo poemetto fa parte del mio nuovo libro «13 Nuovi poemetti» ancora
inedito, ed è una fantasia su un tema reale, un amore nascosto ritornato alla luce della mia mente per uno strano bagliore ed ora per sempre scomparso, una res amissa insomma, che, nonostante il tempo passato da quella lontana esperienza, non so quanto lontana né quale fosse la sua consistenza, occupa ancor oggi un posto nel mio cuore e nella mia mente, appena avvertito, ma ancora presente. A.E.
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327 Il luogo dell’inedito
della cultura latina. Il poema, in sei libri, ebbe già fortuna sin dall’età augustea. Fu tanto letto. Ma successivamente, nel Medioevo, stava per scomparire, si salvò per alcuni manoscritti, di cui solamente due se ne conservano. Lo scoprì Poggio Bracciolini nel 1417, ma rimase ugual- mente poco noto. Il poema sfuggì alla conoscenza diretta di Lorenzo Valla. Lo conobbe, osteggiandolo volutamente, Marsilio Ficino. Invece Michele Marullo, un umanista di provenienza greca, lo editò e lo imi- tò di sana pianta. Non era sfuggita la grandezza del poema al filosofo Giordano Bruno.
Inevitabili, più tardi, le reazioni dei difensori della tradizione bibli- ca. Ma il poema veniva ugualmente valutato come il contenitore di una scrittura ricca di libertà della ragione contro il dilagante e maligno fana- tismo religioso. La filosofia e l’elevatezza della poesia in esso non sfug- girono a Milton che le intese per il suo Paradiso perduto.
Non si può, insomma, parlare di intendimenti negativi, lungo l’arco di tempo che parte dall’edizione ciceroniana alla fine del nostro Mille- ottocento, se si escludono quelli, sia pure limitati, dei filosofi Lessing, Vico e Croce. Ad esempio, Lessing scriveva convinto: “Lucrezio, e i suoi simili, sono versificatori, ma non sono poeti”.
Oggi l’assoluta grandezza di Lucrezio viene comprovata dagli studi e dalle traduzioni. Non pochi. Da non dimenticare, prima che si conclu- da con dell’altro, quella traduzione integrale, tanto sofferta, che eseguì Mario Rapisardi. Traduzione eseguita con una resa di versi endecasilla- bi sciolti, canzonata durante la famosa polemica che il poeta catanese ebbe con il Carducci.
Uno studio sul De rerum natura, di spiccato valore, divulgato nel 1994 dall’editrice milanese Garzanti, va valutato quello a firma di Fran- cesco Giancotti, che ha tradotto nella nostra lingua, con ricca cura, i 7415 esametri. Una fatica estenuante che ha raggiunto la settima edi- zione nel 2008.
Senza dilungarmi – come sarebbe d’obbligo – su questo lavoro, di oltre 500 pagine, concludo questa nota con un invito alla lettura e con qui, di seguito, per il lettore, la citazione di due esametri che recitano: Leopardi. Le bestie, prive di ragione, sono più felici dell’uomo, né esse
reclamano vestimenti diversi secondo le stagioni (nec varias quaerunt
vestes pro tempore caeli).
Probabilmente, Lucrezio era nato in Campania, a Pompei, e proba- bilmente si era formato a Roma.
Degli autori latini del suo tempo ce ne parla Cornelio Nepote nella biografia di Attico (12, 4) e lo associa a Catullo; Virgilio l’aveva inteso nella sua prima formazione epicurea, ne aveva recepito l’eccelso canto che traspare da alcuni tratti delle Bucoliche e delle Georgiche (Felix qui
potuit rerum cognoscere causas…), quell’eccelso canto che si riverbera
con certe intonazioni nel poema dell’Eneide. Inspiegabile tuttavia quel suo silenzio sul grande precursore.
Ricordano Lucrezio, l’architetto scrittore Vitruvio e Ovidio. Quest’ul- timo ne vaticinò l’eternità negli Amores (I, 15, vv. 23-24) cantando:
Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucreti, exitio terras cum dabit una dies…1
Più tardi ne parlò Girolamo nella sua Cronaca, dalla quale si ap- prende che Lucrezio, complice un filtro d’amore (poculum amatorium) che una donna gli avrebbe procurato, era diventato pazzo, ma, nei mo- menti di lucidità, avrebbe redatto il poema. Poi, il poeta sarebbe ricor- so al suicidio.
Accettato e smentito dagli studiosi del poeta questo dato di Girolamo. La nascita del poeta si fa risalire tra il 98 e il 54 a.C. Il suo poema venne pubblicato postumo da Cicerone, nello stato in cui l’aveva trova- to, non rivisto dall’autore.
Quella dottrina filosofica greca traslata negli esametri latini aveva entusiasmato l’oratore e lo scrittore Cicerone, che ne rimaneva tutta- via cauto, per motivi politici e culturali. La dottrina epicurea in Lucre- zio, come rivoluzione spirituale in quella temperie storica di Roma im- periale, sconvolgeva i valori tradizionali, minava le tesi etiche e sociali
Quidve mali fit ut exhalent aurata metalla!
Quas hominum reddunt facies qualisque colores!2
Oltre duemila anni or sono questa sentenziosità.
Nota alla traduzione
La scelta dei testi, che titolo Fiori della natura, con la resa di una tra- duzione in parte personalizzata, ma pure rispettosa del senso letterale, contempla: la deprecazione della superstizione e la lode al poeta En- nio; la forza estensiva atomica della Natura; la smania di un volere esi- stere complicato e tribolante; il genere del sesso singolare; l’origine del mondo, destinato a finire; la peste inesorabile che dai microbi delle pe- riferie agricole si propagò nella città.
Dal testo latino, adoperato da Francesco Giancotti, mi sono servito per la traduzione della scelta.
S.S.
note
1 Allora la poesia del sublime Lucrezio sarà destinata
a morire quando un solo giorno distruggerà la terra.
2 E quali fetori talora sprigionano le miniere d’oro!
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331 Il luogo dell’inedito
LIBRO PRIMO
Pure tu, o prima o poi, assoggettato dalle parole terrifiche degli indovini, cercherai di distanziarci. Invero, difatti, quante illusioni possono escogitarti così forti da poterti rovesciare il contegno della vita ed oscurare con la paura tutta la tua sorte!
E a ragione, perché, se gli uomini credessero che esiste sicura una fine delle loro angosce, in qualche maniera, debellerebbero le superstizioni e le minacce degli indovini. Ora non esiste alcuna ragione di opporsi, nessuna facoltà, perché si debbono paventare nella morte pene perpetue. Non si conosce difatti quale sia la natura dell’anima, se sia nata o diversamente si sia infiltrata nei nascenti, se muoia assieme a noi scissa dalla morte o finisca errante tra le ombre delle estese voragini dell’Orco
o per ordine divino entri nel corpo di altra specie animale, come si legge nella poesia del nostro Ennio, il primo
che sul ridente Elicona si ornò di una corona di fronde perenni propagando una chiara fama fra le itale genti.
E tuttavia esistono nell’Acheronte le chiostre - LIBER PRIMUS
vv. 102-135
Tutemet a nobis iam quovis tempore vatum terriloquis victus dictis desciscere quaeres.
Quippe etenim quam multa tibi iam fingere possunt somnia quae vitae rationes vertere possint
fortunasque tuas omnis turbare timore! Et merito. Nam si certam finem esse viderent aerumnarum homines, aliqua ratione valerent religionibus atque minis obsistere vatum. Nunc ratio nulla est restandi, nulla facultas, aeternas quoniam poenas in morte timendum. Ignoratur enim quae sit natura animai:
nata sit, an contra nascentibus insinuetur, et simul intereat nobiscum morte dirempta, an tenebras Orci visat vastasque lacunas, an pecudes alias divinitus insinuet se, Ennius ut noster cecinit, qui primus amoeno detulit ex Helicone perenni fronde coronam, per gentis Italas hominum quae clara clueret; etsi praeterea tamen esse Acherusia templa
narra Ennio, divulgandolo, con i versi immortali- sin dove non hanno sede le nostre anime e i nostri corpi ma certe immagini di un pallore impressionante. E narra che di là, sempre eccellente, l’ombra di Omero gli apparve, e che incominciò a spargere lacrime amare e a interpretare con le sue parole la natura.
Come, pertanto, dobbiamo intendere bene quanto è celeste, come succedono i movimenti del sole e della luna, e con quale spinta si generino sulla terra fenomeni; così, e per prima, dobbiamo osservare e ragionare sagaci come siano l’anima e la natura dei sensi, e quale essere, avvicinandoci, mentre svegli o siamo infermi o immersi nel sonno, paventi le nostre menti, sicché ci sembra di scorgere e udire vicino i defunti dei quali, la terra contiene le ossa. Ennius aeternis exponit versibus edens,
quo neque permaneant animae neque corpora nostra, sed quaedam simulacra modis pallentia miris;
unde sibi exortam semper florentis Homeri commemorat speciem lacrimas effundere salsas coepisse et rerum naturam expandere dictis. Quapropter bene cum superis de rebus habenda nobis est ratio, solis lunaeque meatus
qua fiant ratione, et qua vi quaeque gerantur in terris, tunc cum primis ratione sagaci
unde anima atque animi constet natura videndum, et quae res nobis vigilantibus obvia mentis
terrificet morbo adfectis somnoque sepultis, cernere uti videamur eos audireque coram, morte obita quorum tellus amplectitur ossa.
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Bollettinodella Società letteraria
335 Il luogo dell’inedito
LIBRO SECONDO
Non v’è dubbio che esistano per qualunque specie infiniti atomi, che rifanno la vita di tutte le cose. Pertanto, non possono in perpetuo i moti esiziali vincere e seppellire l’esistenza in eterno; né, d’altro canto, i moti che generano e accrescono le cose possono in perpetuo serbare quanto è stato generato. Così con pari esito continua la guerra
degli atomi, che arde da tempo incalcolabile. Ora qui, ora lì, vincono le forze vitali e ugualmente vengono vinte. Al pianto funebre si unisce il vagito che emettono i pargoli quando vedono le rive della luce; né mai alcuna notte è seguita al giorno, né alcuna aurora alla notte, senza che misti a lamentosi vagiti abbia inteso i pianti compagni di morte e di tristi esequie.
Giova che questo, a tal riguardo, venga impresso e ritenuto bene nella chiara mente: di tutte le cose che la Natura svela ai nostri sensi non v’è nulla visibile che consista di un medesimo genere di atomi,
LIBER SECUNDUS vv. 567-597
Esse igitur genere in quovis primordia rerum infinita palam est unde omnia suppeditantur. Nec superare queunt motus itaque exitiales perpetuo neque in aeternum sepelire salutem, nec porro rerum genitales auctificique
motus perpetuo possunt servare creata. Sic aequo geritur certamine principiorum ex infinito contractum tempore bellum. Nunc hic nunc illic superant vitalia rerum et superantur item. Miscetur funere vagor quem pueri tollunt visentes luminis oras;
nec nox ulla diem neque noctem aurora secutast quae non audierit mixtos vagitibus aegris
ploratus mortis comites et funeris atri. Illud in his obsignatum quoque rebus habere convenit et memori mandatum mente tenere, nil esse, in promptu quorum natura videtur, quod genere ex uno consistat principiorum,
e nulla esiste che consti di germi mischiati tra loro; e più una cosa qualsiasi contiene in sé varie energie e capacità, più essa mostra, per questo, di possedere in sé più generi e diverse forme di atomi.
Per prima, la terra contiene corpi primi dai quali, le fonti, che generano refrigerio, alimentano spesso
l’esteso mare; contiene quelli dai quali nascono i fuochi. Infatti, in più luoghi, acceso, in fondo, arde il suolo terrestre, infuria impetuosa l’Etna per il profondo fuoco. Pure la terra possiede quegli altri corpi da dove
stupende le messi, gli alberi lussureggianti vengono a beneficio della gente mortale;
e pure quelli da dove fiumi, fronde e verdi pascoli può distribuire alla razza delle fiere errante sui monti. nec quicquam quod non permixto semine constet
et quodcumque magis vis multas possidet in se atque potestates, ita plurima principiorum in sese genera ac varias docet esse figuras. Principio tellus habet in se corpora prima unde mare inmensum volventes frigora fontes adsidue renovent, habet ignes unde oriantur. Nam multis succensa locis ardent sola terrae, ex imis vero furit ignibus impetus Aetnae. Tum porro nitidas fruges arbustaque laeta nec quicquam quod non permixto semine gentibus humanis habet unde extollere possit, unde etiam fluvios frondes et pabula laeta montivago generi possit praebere ferarum.
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339 Il luogo dell’inedito
LIBRO TERZO
Si spinge spesso fuori dal palazzo sfarzoso l’uomo che dentro si è annoiato, ma tosto
vi ritorna perché nulla di vario gli apporta l’esterno. Corre, corre, verso la villa incitando le bestie, come se dovesse salvare lo stabile in fiamme; già sbadiglia appena è giunto alla soglia della villa o si inabissa pesante nel sonno e cerca l’oblio, o ritorna, in gran fretta, in città, e la rivede. Così, ciascuno si sfugge, ma resta, suo malgrado, irretito dal suo io e, come accade, lo detesta, perché è depresso e non conosce la causa del male. Se ciascuno la scoprisse lasciando ogni faccenda, vorrebbe, per prima, sapere la natura delle cose, perché c’è a rischio non la condizione di un’ora sola ma dell’eternità, in cui i mortali debbono attendersi che si scopra tutta l’età che rimane dopo la morte. Quale devastante smania di vivere, insomma, ci fa così tribolare, quando incombe un pericolo? Indubbia incombe una fine per gli umani, né si può sfuggire alla morte, va incontrata. LIBER TERTIUS
vv. 1060-1094
Exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque revertit, quippe foris nilo melius qui sentiat esse.
Currit agens mannos ad villam praecipitanter, ausilium tectis quasi ferre ardentibus instans; oscitat extemplo, tetigit cum lumina villae, aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit, aut etiam properans urbem petit atque revisit. Hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit, effugere haud potis est, ingratis haeret et odit propterea, morbi quia causam non tenet aeger, quam bene si videat, iam rebus quisque relictis naturam primum studeat cognoscere rerum, temporibus aeterni quoniam, non unius horae, ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis aetas, post mortem quae restat cumque, manenda. Denique tanto opere in dubiis trepidare periclis quae mala nos subigit vitai tanta cupido? Certa quidem finis vitae mortalibus adstat, nec devitare latum pote quin obeamus.
E sempre ci muoviamo nello stesso cerchio
restandoci, né, prolungando la vita, ci completeremmo di una voluttà diversa. Ma ciò ch’è migliore ci pare quanto è lontano; e quando l’abbiamo raggiunto vogliamo di più e la stessa sete di vita ci divora. Incerta la sorte che il tempo futuro ci prospetta, che cosa ci rechi il caso, quale fine incomba. Né, longevi, mai nulla sottraiamo dal tempo della morte, non siamo in grado di annientarlo, così da potere, forse, meno a lungo, esser morti. Puoi protrarre la vita per quanti secoli vuoi, quella morte perpetua, tuttavia, ti ghermirà;
e sotto terra pertanto non resterà meno a lungo colui che solo in questo giorno ha chiuso gli occhi
e colui che già da molti mesi e da anni si spense. Praeterea versamur ibidem atque insumus usque,
nec nova vivendo procunditur ulla voluptas. Sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus, et sitis aequa tenet vitai semper hiantis.
Posteraque in dubiost fortunam quam vehat aetas, quidve ferat nobis casus quive exitus instet. Nec prorsum vitam ducendo demimus hilum tempore de mortis, nec delibare valemus, quo minus esse diu possimus forte perempti. Proinde licet quot vis vivendo condere saecla: mors aeterna tamen nilo minus illa manebit, nec minus ille diu iam non erit, ex hodierno lumine qui finem vitai fecit, et ille,
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343 Il luogo dell’inedito
LIBRO QUARTO
Ed alcuni meglio ingravidano alcune donne,
altre accolgono meglio da altri il peso e sono gestanti. Molte furono sterili in più occasioni, tuttavia,
trovarono il maschio e generarono dei fanciulli, si arricchirono con la dolcezza del parto.
Spesso, pure gli uomini, che prima in casa con le mogli, benché fertili, non ebbero parti, trovarono un utero fecondo, così invecchiarono confortati di figli. Vale a tal punto che i semi possano mischiarsi
con i semi in modo giusto per generare, e che i densi si uniscano con i liquidi e i liquidi con i densi. Per questo è importante il modo di nutrire la vita; difatti si nutrono con alcuni cibi i semi nelle membra, con altri, invece, si assottigliano e si distruggono. Sono temi importanti l’orgasmo e la stessa blanda voluttà; si crede difatti, soprattutto, che nella posa delle bestie e a mo’ dei quadrupedi, le mogli meglio si riempiono, perché così lo sperma arriva in fondo bene, quando il petto è chinato e i fianchi sollevati. Né occorrono alle mogli movimenti voluttuosi LIBER QUARTUS
vv. 1249-1287
Atque alias alii complent magis, ex aliisque succipiunt aliae pondus magis inque gravescunt. Et multae steriles Hymenaeis ante fuerunt pluribus, et nactae post sunt tamen unde puellos suscipere et partu possent ditescere dulci. Et quibus ante domi fecundae saepe nequissent uxores parere, inventast illis quoque compar natura, ut possent gnatis munire senectam. Usque adeo magni refert, ut semina possint seminibus commiscere genitaliter apta,
crassaque conveniant liquidis et liquida crassis. Atque in eo refert quo victu vita colatur;
namque aliis rebus concrescunt semina membris atque aliis extenvantur tabentque vicissim. Et quibus ipsa modis tractetur blanda voluptas, id quoque permagni refert; nam more ferarum quadrupedumque magis ritu plerumque putantur concipere uxores, quia sic loca sumere possunt, pectoribus positis, sublatis semina lumbis. Nec molles opu sunt motus uxoribus hilum.
Infatti la donna si nega a concepire e contrasta, se gioiosa risponde con le natiche alla libidine dell’uomo e con il petto che si agita provoca il flusso: così scosta il solco al giusto percorso del membro, e svia dalle sue sedi il getto dello sperma.
Così sogliono muoversi, a loro vantaggio, le puttane per non ingravidarsi spesso e copulare da incinte, e pure perché il rapporto venereo soddisfi il maschio; ma di ciò le nostre spose non hanno bisogno.
E non accade talora per i numi e per gli strali di Venere che una donna non bella sia amata, in quanto, questa, talvolta, con i modi allettanti, fine e curata nel corpo, riesce facilmente ad incatenarti e a farti vivere con lei per tutta l’esistenza.
Del resto, l’uso genera l’amore; in quanto ciò che si batte con colpi frequenti, seppure lievi, tuttavia, a lungo andare, è vinto e cede.
Non ti accorgi? Pure le gocce d’acqua, cadendo sulle rocce, con il tempo, le scavano.
Nam mulier prohibet se concipere atque repugnat, clunibus ipsa viri Venerem si laeta retractat
atque exossato ciet omni pectore fluctus; eicit enim sulcum recta regione viaque vomeris atque locis avertit seminis ictum. Idque sua causa consuerunt scorta moveri, ne complerentur crebro gravidaeque iacerent, et simul ipsa viris Venus ut concinnior esset; coniugibus quod nil nostris opus esse videtur. Nec divinitus interdum Venerisque saggittis deteriore fit ut forma muliercula ametur. Nam facit ipsa suis interdum femina factis morigerisque modis et munde corpore culto, ut facile insuescat ‘te’ secum degere vitam. Quod superest, consuetudo concinnat amorem; nam leviter quamvis quod crebro tunditur ictu, vincitur in longo spatio tamen atque labascit. Nonne vides etiam guttas in saxa cadentis umoris longo in spatio pertundere saxa?