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Sulla prima delle «Lezioni Americane» di Italo Calvino *

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le pesantezza dell’essere e del vivere; in tal caso, essa si presenta come «alleggerimento del linguaggio, per cui i significati vengono convoglia- ti su un tessuto verbale come senza peso»6. Ma può essere leggerezza

anche la «narrazione d’un ragionamento o di un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizio- ne che comporti un alto grado d’astrazione»7; e, ancora, infine, legge-

rezza può essere intesa come «immagine figurale» dotata di un pregnan- te «valore emblematico»8.

2. Le diverse definizioni calviniane della leggerezza dovranno ser- vire da parametri indispensabili ad affrontare il tema della rilettura del- la prima delle Lezioni Americane in prospettiva giuridica. Esse servi- ranno infatti a tracciare la strada per stabilire se, in quale misura e in quale prospettiva, la leggerezza possa essere impiegata come una del- le possibili modalità di approccio al mondo del diritto, e in particolare, al mondo del diritto antico. A tutta prima, un simile tentativo non po- trebbe apparire altro se non destinato al fallimento: il diritto, con il suo specifico linguaggio tecnico e con i suoi “cavilli”, evoca se mai d’istin- to l’idea della complessità, della “pesantezza” piuttosto che della legge- rezza; per quanto poi concerne nello specifico il diritto antico, non vi è dubbio che il fattore dell’alterità linguistica, dello spesso incompren- sibile e insidioso latinorum, contribuisca senz’altro a radicare questa idea in modo ancora più profondo.

Eppure un simile approccio non è necessariamente l’unico possi- bile. Sotto il rispetto del rapporto tra diritto e leggerezza, anzi, la pro- spettiva del giusgrecista e del giusromanista può rivelarsi addirittura privilegiata, ben più di quella di ogni altro specialista del diritto: tanto il giusgrecista quanto il giusromanista hanno infatti la possibilità di af- frontare lo studio della materia oggetto del loro interesse con un orien- tamento che, da prospettive tra loro anche molto diverse se non addi- rittura opposte, può considerarsi “leggero”. Partendo, anche a mo’ di semplice spunto, dalle molteplici possibili accezioni della leggerezza che Calvino individua – e cioè, come si è or ora visto, modalità gene- ragioni della leggerezza non implica, prosegue Calvino, l’inesistenza di

altrettanto valide ragioni del peso: tuttavia, sulla leggerezza egli sente di avere più cose da dire; è del resto evidente che la leggerezza, e non il peso, sia la qualità che più chiaramente emerge nei suoi romanzi più fa- mosi, dal Visconte Dimezzato alle Cosmicomiche; l’autore stesso afferma che caratteristica preponderante della sua attività di scrittore è una siste- matica «sottrazione di peso»: alle figure umane, alle città, ai corpi celesti; ma soprattutto sottrazione di peso al racconto e al linguaggio1.

Ora, Calvino attinge a diversi modelli letterari, buona parte dei quali tratti dall’antichità classica, per esemplificare la sostanza della leggerez- za: pensa, in primis, al mito ovidiano di Perseo e di Medusa, che rappre- senta per lui «un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo»2: Perseo, con il suo stare sulle nuvole,

con il suo essere trasportato dai venti, con il suo non guardare l’avver- sario negli occhi ma attraverso un’immagine riflessa in uno specchio, è colui che sconfigge Medusa, il mostro che, pietrificando con lo sguardo, è per ciò stesso l’emblema del peso del mondo. La sconfitta è così defi- nitiva che dalla pesantezza di Medusa finisce per generarsi leggerezza: dal sangue della sua testa mozzata nasce infatti Pegaso, il cavallo che, in quanto alato, è per ciò stesso “leggero”3. Ciò che appare come pesantez-

za finisce dunque per tradursi nel suo contrario, grazie «[al]la vivacità e [al]la mobilità dell’intelligenza»; e l’opposizione leggerezza-pesantezza, con il predominio della prima sulla seconda, è presentata come chiave universale di accesso alla realtà in genere: nella scienza, DNA, neutrini e quarks sono le sottilissime entità senza le quali il mondo non sarebbe possibile; nell’informatica, l’hardware non potrebbe nulla in assenza di un software che lo comanda e che lo governa5.

È chiaro che si può parlare di leggerezza in termini di volta in volta differenti; e proprio attraverso diversi esempi letterari Calvino individua alcune tra le sue possibili accezioni: essa è intesa in primo luogo come qualità della scrittura, quella qualità che si offre come positiva modali- tà di approccio e come ottimale via di uscita per evitare che la scrittura stessa sia alterata, intaccata e schiacciata dalla insostenibile e ineluttabi-

si identifica con un oggetto ma, più astrattamente, con un ius10. Un di-

scorso a parte va forse fatto per la proprietà: come è noto essa non ven- ne inclusa tra le res incorporales, perché continuò, come nell’età più an- tica, a identificarsi con il suo oggetto; ciò tuttavia non significa che in ordine alla nozione di proprietà siano mancate elaborazioni nel senso di una progressiva astrazione rispetto a un’idea originaria concreta che, con ogni verosimiglianza, sottintendeva la necessità di un rapporto ma- teriale ed effettivo con la res. Lo si evince, in primis, dalla terminologia: se nella più antica forma di rivendica, quella della legis actio sacramen-

to in rem, come pure nel risalente istituto della mancipatio, chi si assu-

me proprietario dichiara che “la cosa è sua” – hanc rem meam esse aio11

–, in età successiva si afferma un’espressione più astratta, di dominium e quindi di proprietas, e si sviluppa una concezione raffinata che è an- cora oggi alla base del nostro concetto di proprietà12.

Ora, il fatto che il diritto romano di età classica a cui abbiamo ap- pena fatto riferimento possa essere letto, in forza della sua capacità di astrazione, sotto l’ottica della leggerezza, non implica tuttavia la neces- sità che il diritto a esso anteriore debba essere relegato nella opposta categoria della pesantezza (proprio questo del resto intendevo quando, poco sopra, accennavo al fatto che i diversi punti di vista entro i quali inscrivere la leggerezza possono essere addirittura opposti l’uno rispet- to all’altro). Potremmo per esempio pensare alle prime leggi scritte di Roma, le XII Tavole, le quali, con il loro linguaggio estremamente con- ciso, con il loro privilegiare la giustapposizione paratattica a scapito di una struttura ipotattica, almeno sotto il profilo formale si traducono in una sistematica sottrazione di ogni elemento superfluo, assente perché in implicito chiaramente intellegibile: si in ius vocat, ito; ni it, antesta-

mino; igitur em capito13.

È tuttavia allargando la visuale e prescindendo dalla specificità di fenomeni singoli che la leggerezza può più opportunamente mostrarsi come chiave di lettura del più antico diritto romano e, in misura forse ancora maggiore, del più antico diritto greco. Anche in questo caso, mi limito ad alcuni veloci spunti di riflessione al riguardo.

rale di approccio alla vita; alleggerimento del linguaggio; processo di astrazione; immagine figurale con valore emblematico –, si può facil- mente giungere alla conclusione che la leggerezza da più punti di vista può essere senz’altro assunta come opportuno mezzo di avvicinamen- to al, e di interpretazione del, diritto antico.

Le osservazioni che seguono possono essere ricondotte a due idee generali: in primo luogo (§ 3), cercherò – naturalmente senza la seppur minima pretesa di completezza – di offrire una serie di esempi sparsi e di superficialissimi spunti di riflessione utili a mostrare in che modo sia possibile parlare del diritto antico in termini di leggerezza. Di seguito (§ 4) – nel tentativo di offrire una rilettura delle Lezioni Americane nel- la prospettiva specifica di diritto e di letteratura – mi soffermerò invece in modo più articolato su un genere letterario e su una specifica opera letteraria dalla quale, a mio parere, la leggerezza, rectius l’opposizione tra leggerezza e pesantezza, sembra emergere nel modo più evidente quale chiave di lettura valida anche in ambito propriamente giuridico.

3. Quando si pensa al diritto romano, la mente va intuitivamente al diritto elaborato dai iurisprudentes di età classica e raccolto da Giusti- niano nel Corpus Iuris Civilis, in particolare nei Digesta. E, proceden- do per associazioni altrettanto intuitive, è indubbio che esso, dal punto di vista strutturale, si presenti a tutta prima come organismo quanto mai pesante per la sua dettagliata, puntigliosa e articolata complessità. Ma leggerezza è astrazione, specifica Calvino. Ora, è evidente che all’inter- no della “pesantezza formale” che contraddistingue il diritto romano tro- vano posto nozioni straordinariamente “leggere”, se pensiamo che per primi i giuristi romani di età classica, veri creatori della scienza del di- ritto, elaborano concetti giuridici astratti, immateriali, che si oppongono per questo alla solida concretezza delle nozioni giuridiche più arcaiche. Penso, per esempio, al sorgere dell’idea moderna di obligatio come iu-

ris vinculum, che evolve da un’idea originaria di ob-ligatio quale vinco-

lo di natura materiale9; penso, ancora, alla categoria gaiana delle res in-

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cerchio sacro, uno spazio delimitato all’interno del quale sono valide delle regole prefissate ben diverse rispetto a quelle che informano la vita ordinaria; in questo spazio la differenza sociale è sospesa, le parti perdono la loro specifica individualità per divenire, in astratto, attore e convenuto, accusatore e accusato, ho men… ho de, come essi sono de- signati nella scena omerica in questione. La natura agonale del proces- so originario si rivela chiaramente, del resto, se si pensa alla verosimi- le importanza rivestita in esso da ordalie e duelli stilizzati, che a quanto pare avevano un ruolo fondamentale nella stessa legis actio sacramen-

to in rem romana: è plausibile immaginare che in origine sull’oggetto

della controversia le parti ingaggiassero una lite anche fisica, oltre che verbale21. Ora, se è vero che il processo, al pari di molte altre forme di

cultura, partecipa del gioco, non si può negare che il gioco, benché fat- to serissimo nella misura in cui esso impone e fa rispettare regole fer- ree, e di importanza imprescindibile all’interno di un naturale processo di evoluzione, è, per la sua stessa modalità di confronto con il reale, in- dubbiamente ascrivibile alla categoria del “leggero”.

Alla medesima associazione con l’idea della leggerezza si perviene però – e aggiungo così un ulteriore possibile spunto di riflessione – an- che se si tenta con il diritto più antico un approccio differente rispetto a quello ora analizzato. Come è noto, soprattutto a cavallo tra XIX e XX secolo prese piede la convinzione, rimasta in voga molto a lungo, che il diritto si fosse originato da una sorta di magma indifferenziato nel qua- le rientravano altri fenomeni sociali quali la religione e, soprattutto, la magia22. Nelle sue prime forme il diritto si manifesta come una serie di

comportamenti di tipo rituale che, ancora oggi per il vero, sono tipici della religione, e la cui scrupolosa e pedissequa osservanza è elemen- to imprescindibile per la produzione degli effetti desiderati; e il diritto è fatto altresì di formule e di una gestualità che hanno molti elementi in comune con le formule e la gestualità magiche. Ora, la magia assume di poter incidere sulla realtà non con interventi massicci e invasivi, ma, al contrario, con gesti infinitesimi (impadronirsi di un capello equivale a impadronirsi dell’intera persona), con strumenti simbolici (la bacchet- Il primo: se guardiamo alla scienza del diritto in termini evolutivi, e

assumiamo che nel mondo contemporaneo essa è un organismo, an- corché perfettibile, ormai “maturo”, dobbiamo necessariamente assu- mere, per converso, che chi si occupa delle prime manifestazioni dell’e- sperienza giuridica abbia a che fare con una creatura appena venuta alla luce. Nelle sue epifanie più risalenti il diritto può essere paragona- to a un infante che inizia a parlare, anche se poi il linguaggio che for- mula e più in generale le strutture che crea sono ben lungi dall’essere infantili. Non mi pare che sia fuor di luogo, a questo proposito, ricorda- re un’opera che, seppure ampiamente contestata e giustamente critica- ta per un approccio per molti versi poco rigoroso e scientifico, rappre- senta ciò nonostante una pietra miliare della cultura del secolo scorso: mi riferisco a Homo Ludens di Johan Huizinga, pubblicato ad Amster- dam nel 193914. In Homo Ludens il gioco è un fattore universale – tant’è

che a esso partecipano anche gli animali – che precede la cultura, ed è poi la prima forma nella quale la cultura si manifesta sin dall’antichi- tà15; il gioco è la costante dei comportamenti culturali che le degenera-

zioni della cultura contemporanea hanno messo in crisi. Vi sono molte definizioni di gioco in Huizinga che possono ben fare il paio con l’idea della leggerezza di Calvino: esso può essere inteso come «esercizio pre- paratorio alla grave operosità che la vita esigerà dal singolo»; esso non è materia ma spirito, dunque non ha la pesantezza della materia ma la leggerezza dello spirito; esso è una trasfigurazione della realtà, una “il- lusione” (che propriamente significa “l’essere dentro il gioco”, in-lu-

do17), perché «realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una

perfezione temporanea, imponendo un ordine assoluto». Ora, Huizin- ga sottolinea come «la pratica del diritto, cioè il processo, possied[a] al massimo grado il carattere competitivo, qualunque possano essere le basi ideali del diritto»19. Non è del resto un caso, prosegue l’autore, che

il termine greco con cui è designato il processo sia agon: è un agone, dunque, una gara, che come ogni gara partecipa di un evidente carat- tere ludico. Il primo tribunale, come ci è descritto da Omero nella ce- leberrima scena iliadica dello Scudo di Achille20, è un hieros kyklos, un

tà e costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, nella natura – e quindi, dopo il superamento di prove anche cruente – fase di transizione – che terminano la sua iniziazione, la sua agogè, viene reintegrato nella so- cietà come individuo nuovo26. Dal confronto con tali modalità “natura-

li” di passaggio l’efficacia performativa immediata della “artificiale” ma-

numissio vindicta si manifesta forse nel modo più palmare.

4. Dopo questa veloce rassegna sulle possibili modalità di lettura del diritto in chiave di leggerezza, intendo ora concentrarmi sul bino- mio diritto-letteratura. Per questa seconda parte preferisco abbandona- re il diritto romano e scegliere come punto di osservazione la Grecia e, in particolare – posto che la nostra conoscenza del mondo greco è pre- valentemente atenocentrica – Atene. Questo cambiamento di prospetti- va è dettato da ragioni di opportunità: la Grecia aveva certamente leg- gi scritte, che in una minima parte ci sono giunte per via diretta, per lo più epigrafica, ma non aveva esperti di diritto né, di conseguenza, aveva elaborato una scienza del diritto; pertanto, la nostra conoscenza del diritto greco, e in particolare del diritto ateniese, non si fonda tan- to su fonti tecniche, giuridiche, bensì piuttosto su fonti letterarie, dun- que atecniche, dalle quali, cioè, l’esistenza di regole giuridiche emerge in modo indiretto. Le fonti letterarie di regola preferite dai giusgrecisti sono le orazioni della logografia giudiziaria, cioè i discorsi che i logo- grafi, esperti di retorica, scrivevano, dietro pagamento di un compen- so, a fronte della richiesta di chi fosse coinvolto in un processo, e che – in assenza di una figura simile a quella del nostro avvocato – era poi tenuto a recitarle in prima persona davanti al tribunale. Non è tuttavia di un’orazione che intendo parlare. Esiste infatti un altro genere lettera- rio che rappresenta una preziosissima, ancorché poco sondata, miniera di informazioni per chi si occupi del diritto greco. Questo genere è la tragedia27. Perché proprio la tragedia, che sembra non aver nulla a che

fare né con il diritto né, tantomeno, con la leggerezza?

La tragedia – il teatro in generale – è un prodotto della democra- zia: essa nasce e muore in quell’ottantina d’anni nei quali la democra- ta, per esempio) e con parole che si ritengono capaci di poter modifi-

care la situazione esistente (le “performative utterances” di Austin23). Il

diritto romano più antico è estremamente ricco di gesti simbolici – mol- ti dei quali per il vero si conservano, benché desemantizzati, anche in età decisamente più recente – che, in modo ora più, ora meno marca- to, richiamano l’ambito magico. Pensiamo per esempio alla manomis- sione, e in particolare alla manumissio vindicta, negozio solenne e for- male del più antico ius civile mediante il quale il dominus affrancava il proprio schiavo. Ora, tale manomissione riceve il suo nome dalla vin-

dicta, o festuca, che non è difficile assimilare a una sorta di “bacchetta

magica” la quale, imposta sullo schiavo e in stretta concomitanza con la pronuncia di una formula solenne, decretava la cessazione della sua schiavitù e proclamava la sua libertà24. Il passaggio dallo status di servus

a quello di libero avviene dunque in modo immediato: un momento prima l’individuo è schiavo; un momento dopo, toccato dalla vindicta e per effetto di una formula performativa, egli è libero. L’immediatezza “leggera”, in quanto fortemente simbolica, di tale negozio emerge nel modo più netto se si confronta tale forma di manomissione con quel- la testamentaria, anch’essa ben nota al diritto romano più antico, nella quale il passaggio da uno stato all’altro si compie attraverso un fatto na- turale – la morte del testatore – il quale, certus an incertus quando, può per ciò stesso implicare tempi di realizzazione anche molto lunghi. An- cora, l’eccezionalità del negozio emerge chiaramente anche se si pensa al fatto che, in termini più generali, ogni cambiamento di status, nelle società antiche, non è mai così immediato; esso richiede sempre il de- corso del tempo, come è evidente nei cosiddetti “riti di passaggio” che segnano, appunto, il passaggio dell’individuo da uno status sociale a un altro, e che prevedono di regola una fase pre-liminale di separazio- ne, una fase liminale di transizione e una fase post-liminale di reintegra- zione25. La società spartana è forse quella che più e meglio di ogni altra

offre esempi concreti di tale gradualità: il guerriero spartano, prima di divenire tale e per divenire tale, deve superare la fase di separazione in un contesto marginale – viene allontanato dalla famiglia e dalla cit-

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no non sono più i personaggi patinati “raccontati”, e “detti” da Omero; sono al contrario uomini sofferenti di fronte al loro tragico destino. La vicenda che li riguarda, la storia che essi vivono, da un lato può esse- re sicuramente considerata come sospesa in un universo, quale è quel- lo del mito, privo di coordinate spaziali e temporali (il che rende uni- versale il messaggio della tragedia); d’altro canto, tuttavia, proprio per il fatto di essere concepita per una singola e specifica performance, la tragedia accoglie al suo interno, nel suo tessuto mitico tradizionale, tutti i più pressanti temi politici, lato sensu, dell’hic et nunc: non è un caso che, secondo una definizione divenuta ormai classica, la tragedia nasce quando si inizia a guardare il mito con gli occhi del cittadino. Il mito consente alla tragedia una fondamentale operazione di transfert, im- possibile in una fedele ambientazione storica: la tragedia è mimesi del- la realtà (come già Aristotele riconosceva nella Poetica) e i problemi in essa rappresentati, le questioni in essa affrontate, sono quelle con cui gli spettatori-cittadini hanno quotidianamente a che fare; tuttavia, tali problemi e tali questioni sono allontanate ed espatriate in un tempo e in uno spazio “altri”, affinché tale oggettivazione renda possibile allo spettatore un minore coinvolgimento emotivo e pertanto un maggiore