Lingua, stile e società di Cesare Segre
Oggetto dell’intervento è una raccolta di saggi di Cesare Segre, pubblicata in prima edizione nel 1963 con il titolo di Lingua, stile e società. Scopo dell’intervento è off rire sia una rassegna degli esiti e della persistenza dell’opera rispetto a un campione rappresentativo di testi contemporanei, sia introdurre qualche appunto per una rifl essione sulla proposta metodologica esibita nei saggi stessi.
Il corpus considerato riguarda tanto antologie appartenenti alla saggistica e manualistica universitaria, quanto antologie scolastiche.
A chi si avvicini oggi alla fi gura di Segre e alla sua fortuna, non dico per tracciarne un consuntivo, ma solo per off rirne un saggio come in questa occasione, si presenta l’imbarazzo di dover rendere conto in maniera esplicita di una consapevolezza che qualsiasi cultore della nostra letteratura ha ben visibile di fronte agli occhi.
Voglio dire che la cifra più evidente che un primo spoglio permette di individuare consiste nella presenza pervasiva, capillare, di Cesare Segre come auctoritas imprescindibile nel panorama letterario italiano dagli anni ’60, una preminenza comprovata da una fi ttissima rete di citazioni di sue opere in qualsiasi manuale o antologia, nonché dalla stessa presenza dell’autore come estensore di alcuni capitoli nei lavori citati e di una fortunatissima antologia scolastica con Clelia Martignoni.
Alcuni dati puramente quantitativi aiuteranno a inquadrare un panorama di riferimento. Nella Storia della letteratura italiana di Enrico Malato1, Cesare Segre, oltre ad aver contribuito con un capitolo, viene
citato circa duecento volte, raggiungendo quasi Contini, il critico italiano più richiamato in assoluto. Per dare un raff ronto, basta ricordare che
1 Storia della letteratura italiana, a cura di E M, Roma, Salerno, 1995-
fi gure come Erich Auerbach o Leo Spitzer non raggiungono la trentina di occorrenze. Allo stesso modo, nella letteratura curata da Asor Rosa2,
Segre raggiunge non solo un altrettanto cospicuo numero di citazioni, ma in un volume centrale come quello dedicato all’Interpretazione, il saggio di Segre relativo alla nozione di ‘Discorso’ costituisce per ampiezza e per sintesi uno degli interventi fondanti, intervento a cui viene riconosciuta una preminenza esplicita in quanto collocato in apertura subito dopo l’introduzione.
Ricordo inoltre, a titolo di sola suggestione, che la fi gura di Segre è oggi l’interlocutore italiano tanto per il teorico della letteratura (che ne discute e ne critica le posizioni come fatto da Giovanni Bottiroli)3, tanto
per il linguista (con i nomi di Mortara Garavelli e Emilia Calaresu, che invece da Segre sono partiti per sviluppare originali considerazioni sul fenomeno del discorso riportato)4.
Non diversamente, se consultiamo testi scolastici in adozione al triennio della scuola secondaria e di vasta diff usione, come quelli di Ferroni, Raimondi e Luperini5, il nome del nostro autore spicca tra i riferimenti
critici del panorama italiano, soprattutto il Segre medievista e fi lologo. Si propongono quindi due rifl essioni. La prima riguarda la possibilità di rintracciare una continuità riguardo l’impostazione metodologica
2 Cfr. Letteratura italiana, direzione: A A R, Torino, Einaudi, 1982- 2007.
3 G B, Formalizzare, in Il testo letterario. Istruzioni per l’uso, a cura di M L, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 151-176.
4 Mi riferisco a B M G, La parola d’altri. Prospettive di analisi di
discorso, Palermo, Sellerio, 1985, e a E C, Testuali parole. La dimensione pragmatica e testuale del discorso riportato, Milano, Franco Angeli, 2004.
5 G F, Storia della letteratura italiana, Milano, Einaudi, 1991; Tempi e
immagini della letteratura, coordinamento di E R, Milano, Mondadori,
2003-2004; R , P C, L M, La scrittura
e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea, Palermo, Palumbo, 1999.
LINGUA, STILE E SOCIETÀ DI CESARE SEGRE
visibile al fondo delle tre anime che costituiscono la dorsale del lavoro di Segre: la fi lologia romanza, la letteratura contemporanea, la teoria della letteratura. Tale impostazione è infatti inaugurata dal testo in esame, affi nata e irrobustita negli anni della maturità dello studioso, ribadita e difesa fi no agli ultimi lavori, fra cui ricordo le pagine recenti della nuova introduzione redatte per la ristampa di I segni e la critica. La seconda è la presenza minoritaria, sia pur relativa, di citazioni riguardanti Lingua,
stile e società nel numero globale di occorrenze che interessano l’intera
produzione di Segre.
All’interno del quadro tracciato, i saggi di Lingua, stile e società ad aver avuto maggior incidenza sono sicuramente La prosa del Duecento,
I volgarizzamenti del Due e Trecento, La sintassi del periodo nella prosa di Guittone, Polemica linguistica e espressionismo dialettale e Edonismo linguistico nel Cinquecento.
Eppure, nel complesso, Lingua stile e società è una delle opere meno citate. Una corretta comprensione si ottiene, a mio avviso, separando l’oggetto di studio dal metodo adottato, separando, cioè, la contingenza di uno studio su un autore specifi co (Guittone, ad esempio) e la prospettiva con cui il lavoro è stato svolto, prospettiva esemplifi cata appunto dalla triade del titolo.
Si parta dal titolo stesso e dalle parole con cui Segre lo introduce:
Il titolo del volume sintetizza l’emergere, nel corso di un’attività sostanzialmente unitaria, di successivi interessi prima linguistici (sintattici), poi stilistici, infi ne sociologici. I tre sostantivi che compongono il titolo alludono dunque alla cronologia di stesura dei lavori; ma l’unione di questi sostantivi vorrebbe pure costituire una proposta metodologica, in una stagione critica in cui la stilistica ha svolto un ruolo assai brillante, e in cui sono sempre più vivi gli interessi per una storiografi a a sfondo sociologico.
sebbene sia dall’ultimo – società – a cui occorre attribuire la preminenza. “Società” fi gura, a ben vedere, come antonimo dei termini precedenti, mostrando la prospettiva entro cui lingua e stile devono essere compresi; l’interesse sociologico, ricordato nel brano, acquisterà un nome ben preciso all’interno della successiva produzione del nostro autore: semiotica. La semiotica, o semiologia, seguendo il dettato saussuriano, studia “la vita sociale dei segni”, e “sociale” per Segre non ha a che vedere tanto con una cernita quantitativa e tassonomica di codici, quanto piuttosto - e qui la posizione di Segre sposa quella di Lotman – con un“sistema culturale” che organizza ed elabora, a vari livelli, l’esperienza umana del reale attraverso la produzione di testi in cui viene sedimentata. Infi ne “semiologico” è l’aggettivo che Segre orgogliosamente pretende per defi nire la propria critica, intendendo una prospettiva di lavoro che riesca a tenere conto del fatto artistico e del suo legame con la società.
Leggo qualche riga della nuova premessa di I segni e la critica, recentemente ristampato:
Sotto l’etichetta “primato del testo” pensavo e penso di poter sistemare la continuità fra analisi linguistica e stilistica da una parte, analisi semiologica dall’altra.
[…] Ancor più eretico il mio concetto di critica semiologica, rispetto alla semiotica dominante. Io pensavo e penso che per il critico importino, più che i segni, la formazione e l’elaborazione di segni: la loro mutevole gerarchia, i loro scambi e le loro analogie. Quest’idea trapela da tutti miei lavori successivi, anche se forse non l’ho esplicitata abbastanza; essa ha anche determinato la mia preferenza per la semiotica di Peirce, in grado di rappresentare la fase formativa dei segni, rispetto a quella di Saussure troppo apodittica. Insomma io pensavo a una semiotica genetica, adatta a inoltrarsi nella zona condivisa tra le varie arti6. 6 C S, Nuova introduzione, in I., I segni e la critica. Fra strutturalismo e
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Una tale vocazione interdisciplinare era già del resto presente in un altro importante saggio di sintesi, apparso nel 1977, saggio dedicato alla fi lologia in rapporto alle nuove teorie degli anni ’60:
[...] il messaggio letterario non è soltanto una comunicazione linguistica che individua relazioni in re, ma una trasmissione di stati d’animo, di ideali, di giudizi sul mondo. La “competenza” necessaria per comprenderlo investe pertanto un gran numero i codici: oltre al codice lingua, i codici del costume, della società, delle concezioni del mondo7.
Questa continuità di propositi e intenti, parzialmente abbozzata dai rimandi precedenti, trova il proprio inizio in Lingua, stile e società, che esemplifi ca per la prima volta questo approccio globale al fatto letterario.
Con la consapevolezza di una forzatura, ma non di un’esagerazione immotivata, riassumerei l’attività di Segre come una sempre progressiva focalizzazione su di un’unica domanda, a cui ogni suo libro è quasi una nota a margine: come devono essere pensati la “lingua” e lo “stile” se il testo è sempre preso in relazioni che lo trascinano fuori da sé, lontano da ogni “magnifi co isolamento” in cui singole metodiche vorrebbero esaurirlo? Come deve essere inteso dunque lo sfondo sociologico (semiologico), perché non si trasformi in quegli eccessi decostruttivi contro cui Segre è da sempre in polemica?
La risposta di Segre è sempre stata che una lunga consuetudine con l’analisi linguistica concreta sia l’indispensabile condizione di partenza per qualunque teorizzazione o proposta di modelli. Ecco allora che nella parola “lingua” occorre subito sentire risuonare due timbri distinti: quello “fi lologico”, una fi lologia che non è un semplice nome per una disciplina specifi ca, settoriale, ma indica in Segre il recupero nella traccia linguistica
dello sfondo semiotico che l’ha espressa. La fi lologia, potremmo dire, si fa carico della storia, ma di una storia documentata e ancorata ai fatti di lingua: fi lologia e storia sarebbero l’argine più sicuro contro gli eccessi del lettore.
E accanto a quello fi lologico, c’è anche il timbro linguistico. Nella nozione di lingua, occorre anche sentire, come ho ricordato, il timbro “linguistico”, su cui vorrei spendere le ultime parole come conclusione.
In Lingua, stile e società, Segre ha mostrato la possibilità di una linguistica che non si esaurisse nelle opposte polarità a cui peraltro appartiene, cioè la fi lologia e la semiotica. Lo spazio della linguistica è quello di un “non”, che non può tuttavia diventare un “nulla”: se qualcosa caratterizza l’esperienza critica di Segre è stato infatti il rifi uto di abdicare a uno spazio indipendente per la linguistica, fonte “pratica” di ogni suo più “teorico” suggerimento in sede di sintesi concettuale.
Ecco quindi che da un lato Lingua, stile e società rimane presente ancor oggi non tanto quanto all’oggetto, ma come sottotesto metodologico che garantirà la solidità e la fortuna di citazioni degli studi successivi; in questo senso, la parziale liminarità di quest’opera non indica ipso facto un giudizio di cessata vitalità, quanto piuttosto il permanere della produttività di un metodo critico rispetto ai temi e agli autori, inevitabilmente locali e contingenti, sui quali il metodo si trova a esercitarsi.
D’altro canto, oggi forse il rimosso della triade proposta Lingua, stile
e società non è né la fi lologia, né la storia o la semiotica, né tantomeno lo
sono la bontà dell’analisi contenute o i temi trattati: la linguistica, invece, è il “convitato di pietra”, disciplina sempre attraversata e presupposta a ogni analisi critica, ma non adeguatamente valorizzata per se stessa e compresa perlopiù in quanto “stilistica” e dunque appannaggio di una classe ristretta di critici.
Ma quale linguistica? Segre, a partire da Notizie della crisi del 1991, ha posto una condizione minimale e ha formulato un auspicio per una direzione di lavoro.
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La condizione minimale consiste nel non dimenticare la lezione strutturalista che fa capo ai padri fondatori, il ginevrino Ferdinand Saussure8 e il danese Louis Hjelmslev9, le cui ricerche aprirono la strada
alla stagione formale e poi a quella strutturalista degli anni ’60. Alla luce di questo, diventa comprensibile, ad esempio, la netta presa di posizione dell’autore nei confronti della stilistica letteraria, espressa in Apogeo ed
eclisse della stilistica dove si dice che «nel confronto più volte proposto tra
Spitzer e Bally, penso che la magnifi ca strada panoramica presa da Spitzer conduca meno lontano di quella stretta e modesta indicata da Bally»10.
La stilistica qui chiamata in causa è la stilistica che è ricerca di una “forma interna” espressione dell’“etimo spirituale” dell’autore, individuazione di uno “scarto” rispetto a una ipotetica forma media che si troverebbe nella norma linguistica. La posizione di Spitzer, va detto, era molto più complessa, la sua stilistica letteraria non è assimilabile a un ritratto così povero; tuttavia, il caso di Spitzer è quello di un critico le cui analisi sconfessano la teoria da cui dovrebbero provenire, in cui l’operare pratico arriva molto più lontano della giustifi cazione teorica che se ne dà: questa carenza di teoria è l’obiettivo di Segre, non Spitzer in quanto tale.
Una “stilistica linguistica” e non “letteraria” avrebbe invece il pregio di un orizzonte più ristretto, dove è possibile mantenere la centralità del fatto linguistico, ma in una visione sistemica dello stesso; il “fatto linguistico” è in sé oggetto quanto mai evanescente, e proprio un approccio linguistico
8 F D S, Cours de linguistique générale, publié par C B et A S; avec la collaboration de A R, Lausanne- Paris, Payot, 1916 (trad. it.: Corso di linguistica generale, introduzione, traduzione e commento di T D M, Bari, Laterza, 1967).
9 L H, Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse, København, Festskrift udg. af Københavns Universitet, 1943 (trans. eng.: Prolegomena to a theory of language, Madison, University of Wisconsin Press, 1961; trad. it.: Fondamenti di teoria del
linguaggio, introduzione e traduzione di G C. L, Torino, Einaudi, 1968).
10 C S, Apogeo ed eclisse della stilistica, in I., Notizie dalla crisi, Torino, Einaudi, 1993, pp. 23-37.
strutturale servirebbe a individuarlo con maggior precisione per poterne poi off rire una comprensione adeguata.
L’auspicio, invece, riguarda l’indirizzo di lavoro aperto da Michail Bachtin, della cui linguistica Segre sembra volere sottolineare gli aspetti più storico-sociali implicati nella nozione di “pluridiscorsività”11, in continuità
dunque con quello sfondo semiologico che abbiamo visto essere una costante nella sua produzione.
L’altro recupero bachtiniano proposto è invece di natura più strutturale, cioè Segre è convinto che in Bachtin siano presenti suggerimenti per una teoria del discorso narrativo che aiuti sia a comprendere assai meglio le nozioni di “punto di vista” e “voce narrante” elaborate dalla narratologia, sia a ripensare ancora una volta la nozione di testo.
Infatti, i concetti di “voce” e “modo”, usati in narratologia per individuare l’istanza narrante – il narratore – e le prospettive attraverso cui l’intreccio è presentato, furono pensati per rendere conto di alcuni fatti funzionali, procedurali, dell’organizzazione del testo. In altre parole: puri ruoli, valenze vuote e disincarnate, passibili di essere “riempiti” da più contenuti diff erenti.
Bachtin, ci ricorda Segre, ha invece immesso nuovamente uno spessore sociale, storico e “personale”, nel senso di una determinatezza linguistica culturalmente determinata, a queste funzioni; le ha, per così dire, rese “incarnate”. Incarnare le voci del testo, tuttavia, non signifi ca restituirle al mondo extratestuale sotto il segno di una dubbia equivalenza, che imporrebbe di spiegare i testi con la porzione di mondo che essi rappresentano, identifi cando dunque il testo con il suo contenuto fattuale ed extraverbale.
Al contrario, una linguistica che sappia cogliere le “voci” di un’opera
11 M M B, Voprosy literatury i estetiki. Issledovanija raznych
let, Moskva, Chudozestvennaja literatura, 1975 (trad. it.: Estetica e romanzo, Torino,
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costruisce il mezzo più sicuro per spiegare il testo grazie al testo stesso; poiché inizia prima da una valutazione funzionale del testo, - “come è fatto?” e “come funziona?” – una valutazione che mette “tra parentesi”, in epochè avrebbe detto Husserl, il “contenuto” del testo, ossia il mondo da esso rappresentato. Poi, in seconda battuta, recupera questo stesso “mondo”, indicando con questa parola malcerta e vaghissima una soglia minima: se la letteratura parla di qualcosa che non è se stessa, quel qualcosa, che essa stessa contribuisce a defi nire, – il “mondo” cioè come un insieme di relazioni e spazi che si è chiamati a percorrere, non come “oggetto” – la determina in quanto punto di vista, giudizio, prospettiva storicamente defi nita.
Nessuno prende la parola per primo, aff erma Bachtin. Si è sempre parlati, prima di parlare; la parola personale è il frutto fi nale e sempre diffi cile di un lungo percorso nella “parola altrui”. Dunque, “l’essere determinato” del testo, ci direbbe Segre facendo tesoro della lezione di Bachtin, è sì debitore della fi lologia, come disciplina che si impegna a restituire, per quanto è possibile, l’integrità del testo e dell’ambiente in cui è stato prodotto, però non si risolve completamente in essa: “linguistica” è infatti il nome di quello spazio di ricerca che, oltre ma non “contro” la storia, restituisce criteri sempre nuovi per comprendere e scoprire ciò che, con parola felicemente equivoca, chiamiamo “letteratura”.