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ALLE MEDESIME D'UN AMICO PIEMONTESE (Dalmazzo Francesco Vasco)

Nel documento Opere (pagine 55-107)

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LETTERA DEL CRITICO

[di Ferdinando Facchinei]

Col corriere di Milano mando a Vossignoria riveritissima il libretto delle Meditazioni sulla felicità, sortito ultimamente, colla supposta data di Londra, e lo riceverà unitamente ad alcune poche Note manoscritte fatte da me contro lo stesso, affinché, se mai Ella si risolvesse di dare al pubblico una nuova edizione delle dette Meditazioni, voglia farmi il piacere di aggiugnervi in piè di pagina, o come stimerà meglio, le Note che qui le spedisco.

Ella indovinerà facilmente aver io preso per mano cotesto libretto, perché tutti gli eruditi lo giudicano parto dello stesso anonimo autore del libro Dei delitti e delle pene, da me ultimamente notato2, com'Ella sa. H o creduto d'aver diritto di esaminar ancora questo, appunto perché ho notato quel primo.

Che poi cotesto libretto, ch'è tutt'altro che Meditazioni sulla felicità, sia dell'Autore medesimo ch'ha scritto con tanto dispetto filosofico l'altro da me accennato, oltre al giudizio del publico, me lo dice la somiglianza dello stile dell'uno e dell'altro, la stessa logica ingannatrice che si trova in entrambi accompagnata da un'eloquenza piena d'ardire, e l'odio ed il dispregio dei principii della buona morale e della religione, che si detestano dai letterati di buon senso, egualmente nell'uno che nell'altro di cotesti libretti, comunque si trovino in manifesta enorme contraddizione fra loro due, laddove parlano dei cattivi effetti del lusso e della mollezza. Sono così paralleli l'uno all'altro che si potrebbe mettere il titolo dell'uno nel frontispizio dell'altro, senza verun inconveniente per la loro materia.

Mi sembra che l'Autore di cotesti due mostruosi gemelli si sforzi di addivenire e che sia realmente il Rousseau dell'Italia. In fatti, se quel

Gine-1. L'opera uscì a Milano, presso Galeazzi, nel 1766. Le Meditazioni sulla felicità del Verri uscirono a Livorno nel 1763 ; le Note critiche al libro del Verri di Ferdinando Facchinei uscirono a Venezia nel 1765. Le Note del Facchinei sono precedute da una

Lettera del critico e da un Preludio dell'autor delle Note. La risposta del Vasco alle

sin-gole note del Facchinei è preceduta da una Risposta apologetica.

2. Cfr. Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene, s.n.t. (ma, Venezia, Zatta, 1765).

54 MEDITAZIONI SULLA FELICITÀ

vrino è genio per riflessione, questi lo è per natura, e tutti e due affettano 10 stesso trasporto per le più rivoltanti novità, la stessa singolarità, la stessa incredulità la stessa montatura a paradossi; se non che il nostro scrittore ha uno stile più sostenuto e manco pedantesco e mostra dappertutto d'essere persuaso di tutto quello che avvanza. Rousseau è fanatico per se stesso, o è diventato tale a forza di scrivere, per liberare gli altri dal fanatismo. Ma l'Autore delle dette Meditazioni è sano e tranquillo; ma vorrebbe vedere tutto il mondo ripieno del fanatismo di Rousseau. Quegli è un incredulo francese; e questi è un politico italiano.

La differenza che trovo nel modo di pensare e di scrivere di Rousseau, dell'Autor di cui qui le parlo e di qualch'altro filosofo moderno della stessa linea di cotesti due e gli altri nostri buoni scrittori è quella stessa che si osserva tra i ballerini e volatori da corda ed i ballerini e saltatori da sala e da teatro. Noi stiamo a veder ballare i primi con genio e con piacere, e talvolta desi-deriamo ancora d'avere la loro leggiadria e la loro sveltezza; ma i secondi 11 miriamo con certa curiosità mista di rincrescimento e d'orrore. Quelli ci dilettano, perché scherzano in un piano e fuor di pericolo; questi ci fanno stare in continuo spavento, perché in uno stato violento e sempre pericolanti e vicini al precipizio e alla morte. E non è anche vero che i più bravi volatori di corda fanno ordinariamente una fine disgraziata e funesta?

Ma io trovo che li spiriti forti sono paragonabili ai saltatori sulla corda, anche in quanto che questa gente disperata, quando si trova in piana terra e fuori del suo giuoco, si sperimenta per la più vile e la più inerte del mondo; laonde penso che si lusinghino male quelli che dicono che, se Rousseau ed altri letterati dello stesso suo carattere si mettessero a scrivere in favore della verità e della sana morale, vi riuscirebbero mirabilmente con vantaggio proprio e della società. Per me porto parere che, siccome non si sono adde-strati ad altro che a scrivere delle operette contro i costumi ricevuti, contro la sovranità e specialmente contro la religione, appunto perché più violenti risentono di questi i rimorsi ed i rimproveri, così ardisco giudicare che non sarebbero capaci di scrivere altro che ciò che hanno scritto; perché mi sono fatto il pregiudizio di credere che anche il talento e l'intelletto abbiano il loro eccesso ed il loro difetto e che questi formino ciò che si chiama stupi-dezza ed ignoranza e scetticismo, o spirito forte, e però tanto più resto sor-preso che i nostri letterati italiani non impugnino la penna contro la scandalosa audacia della moderna empietà che fa tanta strage in cert'ordine di persone.

Mi consolo ad ogni modo, perché so che presto dovrebb'essere eseguito il santissimo progetto dell'immortale Querini porporato x, tanto benemerito dei studiosi, l'unione cioè d'una società di dotte e zelanti persone perché scrivano contro i libri degli increduli e degli empii; e certo faranno un gran i . Angelo Maria Querini, arcivescovo di Corfù nel 1723 e vescovo di Brescia nel 1727.

RISPOSTA D'UN AMICO PIEMONTESE 55 servizio al cristianesimo, perché l'Italia abbonda adesso più che mai di valo-rosi letterati, chè scrivono all'opposto certi dispregievoli scrittori, indegni finanche di questo nome. Ma è da compiangersi che le persone ecclesia-stiche, le quali sono più in grado di fare un tal bene alla Chiesa, non si eser-citan molto presentemente nell'arte apologetica, e massime contro certe nuove mostruose dottrine ed orribili sistemi di morale e politica; ed in oltre sono costretti a serbare dei riguardi verso una turba di potenti, benché soltanto superficiali, letterati; e gli altri per lo più sono persone che studiano tutt'altro che le materie di religione.

Chi sa però che il mio, comunque inefficace, esempio non ne incorag-gisca qualcuno, tanto più che la buona intenzione ed il vero coraggio non dipendono né dalla forza, né dalla debolezza. Ma bisognerebbe che avessero più ozio e più tranquillità che non ho io ed uno stile più brillante ed ornato, dirò cosi, alla moda, il quale è da me tanto più ammirato in altri quanto l'ho trascurato in me stesso, perché tale studio mi avrebbe fatto per-dere certe cognizioni che più mi allettano e che più stimo, appunto perché sono gli antipodi delle belle lettere, come le chiama acconciamente un dotto moderno.

Sia però comunque si voglia, giacché Vostra Signoria Reverendissima ha creduto di far piacere al pubblico con far istampare le mie Osservazioni

sul libro Dei delitti e delle pene, la prego che, in caso si risolvesse procurarci

una ristampa del nominato libro delle Meditazioni sulla felicità, voglia darcela colle Note che qui le mando; perché ardisco lusingarmi che farà così una cosa più gradita a tutte le persone amanti delle verità e della religione e gratissima a me, che mi farò sempre un piacere di essere colla più sincera e più par-ziale stima.

56 MEDITAZIONI SULLA FELICITÀ

PRELUDIO DELL'AUTOR DELLE NOTE

[di Ferdinando Facchinei]

Tutti gli uomini desiderano d'esser felici; moltissimi hanno fatte delle profonde ricerche per trovare dove consista l'umana felicità: pochi convengono nel definire cosa ella sia e nessuno ha vissuto perfettamente felice, se la nostra felicità consiste nel potere di soddisfare i propri desiderii, od in quello di far che l'uomo non abbia nessun desiderio ineseguibile, conforme l'inse-gna l'ignoto Autore delle Meditazioni sulla felicità, che qui mi sono posto a notare. Infelicemente per il genere umano cotesta gradazione non è un artifizio dell'arte, né qualche pensiero filosofico, ma si trova nella natura ed è provata da una deplorabile catena d'infinite, quotidiane, universali sperienze.

Ma una delle due, o gli uomini comprendono il significato di questo termine felicità, o tutti l'ignorano. Che tutti l'ignorino non è concepibile, perché l'adoperan troppo spesso, ed in oltre, perché in sostanza quasi tutti se ne servono nello stesso senso per esprimere e significare una stessa cosa. Se poi tutti l'intendono e se tutti convengono del suo vero senso, converrà: primo, che questo termine felicità significhi qualcosa ch'esiste realmente; secondo, che sia una cosa la più grande e la più interessante per gli uomini.

Ho detto che conviene che il nome di felicità sia qualcosa di reale, perché si vede che tutto quello che l'uomo pensa e che fa lo dirigge all'acquisto ed alla conservazione di ciò che forma il soggetto o l'essenza del detto nome

felicità. Deve oltre di ciò essere per l'uomo la cosa più grande e più

interes-sante, perché tutti impiegano e fanno le maggiori fatiche ed i più grandi possibili sforzi dei quali sono capaci per acquistare e possedere ciò che essi chiamano felicità.

Ora, se tutto ciò è vero, se è certo cioè che tutti gli uomini cercano d'esser felici e che tutti intendono e convengono che il nome di felicità significa la cosa la più grande e più interessante per l'uomo, come può stare e come succede che pochissimi siano quelli ch'abbiano ben definito cosa sia felicità; Rispondo che ciò è avvenuto: i. Perché la felicità è una cosa della specie di quelle cose che si chiamano bene, verità, virtù ecc., le quali non sono che puri esseri mentali, allorché si considerano fuori di noi stessi e fuori di Dio, che è lo stesso bene, la stessa verità e la stessa felicità ecc. 2. Perché il nome di felicità importa tre cose assai distinte fra se stesse, ma giammai ben dichiarate da nessuno, cioè le cause ed i mezzi con cui s'acquista la felicità, gli effetti della medesima felicità e la natura ed essenza della stessa. 3. Perché si è sempre confusa la felicità di cui è capace l'uomo presentemente colla

RISPOSTA D'UN AMICO PIEMONTESE 57 felicità perfetta ed intiera. 4. Perché non si è fatto distinzione tra ciò che rende felici e che forma la felicità del maggior numero degli uomini in generale e ciò che chiamano felicità e che fa felici alcuni pochi in particolare. 5. Perché non s'è fatto riflessione che altra cosa è il fine per il quale Dio ci ha dati alcuni mezzi per diventare felici ed altra la felicità ed i mezzi per acquistarla. 6. Finalmente le altre cagioni, per cui i differenti filosofi non hanno potuto ben definire cosa sia felicità, sono state i differenti temperamenti degli uomini, i differenti costumi, i differenti interessi, le differenti leggi e le differenti religioni; a tutte le quali si deve aggiugnere anche le differenti opinioni e dottrine dei filosofi che hanno scritto di simili materie. La vera cagione dunque, per cui son pochi quelli che abbiano data una giusta idea di ciò che sia felicità e perché non s'è ancora convenuto dove ella consista, è perché non sono state ben riflettute e distinte con esattezza le cose sin qui numerate. Chiunque adesso desidera sapere cosa sia felicità deve interrogare e con-sultare, o quello che ne hanno scritto i filosofi, od il sentimento proprio e quello dell'universale degli uomini.

Tutte le differenti opinioni di quelli che hanno scritto circa l'umana

felicità si possono ridurre a queste sei. 1. Alcuni l'hanno riposta nella

priva-zione dei dolori. 2. Altri nel numero e nell'accrescimento dei piaceri. 3. Al-cuni pochi, tra i quali l'Autore di questo libretto, pretendono che la felicità consista nella potenza di soddisfare i nostri desiderii. 4. La maggior parte la ripongono nella sanità del corpo e nella tranquillità dello spirito. 5. I più religiosi insegnano e la ripongono assolutamente in Dio. 6. Ed i cristiani credono che la felicità dell'uomo si ottenga, primieramente con aver amico lo stesso Iddio, secondariamente con procacciarsi ancora l'amicizia degli uomini, in terzo luogo, col saper regolare le proprie passioni; ultimo nella privazione della false opinioni e di quei pregiudizi che possono cagionare del tumulto e delle perturbazioni, quantunque leggiere.

La prima di coteste opinioni è fondata sulla falsa supposizione che, dove non si trova dolore, vi si trovi il piacere. Io interpreto così, perché altrimenti bisognerebbe accusare di troppo stupida ignoranza gli stoici che l'hanno insegnata; perché i morti ed i sassi sono privi di dolori, eppure nessuno impaz-zirebbe a segno di chiamarli felici. N o n è felice chi non conosce e non sente d'esser felice; e di più abbiamo detto che la felicità dev'essere un bene reale e positivo, e non una privazione.

Ciò che, secondo a me, ha fatto equivocare i sostenitori di cotesta opi-nione è: 1. Perché si osserva che nell'uomo, qualunque volta cessa il dolore, si prova il piacere. 2. Perché si è un vero piacere sentir che siamo privi di dolori. 3. Perché si trovano nell'uomo certi dolori che nascono immediatamente dalla privazione di qualche cosa, che, ottenuta, cagiona del piacere, come la fame, la sete, il riposo ecc., talché in questi appetiti è lo stesso goder d'un piacere ch'esser privo d'un dolore; e viceversa è lo stesso l'esser privo d'un piacere che sentire un dolore. Il confuso esame di simili osservazioni ha sempre cagionato, ed occasiona tuttavia moltissimi equivoci, dove si vuole

58 MEDITAZIONI SULLA FELICITÀ

giudicare della felicità degli uomini e dei loro piaceri e dolori; e però non occorre maravigliarsi se l'opinion degli stoici si trova falsa; perché si trova nell'uomo la privazione di certi dolori che non cagiona verun positivo pia-cere, ma una mera tranquillità; cosi molti matti e molti ragazzi non sentono nessun dolore, e non per tanto provano alcun piacere; così parimenti io po-trò aver l'animo privo e senza verun afflizione, senza però godere di qualche vero piacere proprio dello spirito, come sarebbe quello che si prova nel soccorrere un miserabile, nell'acquistare una nuova scientifica notizia e nel far bene un atto di religione ecc.

È inadequata anche l'opinione di quelli che fanno consistere la nostra felicità nel piacere, perché già s'è detto che il piacere è l'effetto della feli-cità, e non la felicità stessa.

I troppo angusti limiti che devo osservare in questo Preludio non mi permettono d'estendermi come si converrebbe circa la natura dei piaceri; perché farei vedere quanto vadano errati, benché compatibilmente, quelli che ripongono l'umana felicità nel piacere. N e parlerò pertanto con brevità.

II piacere è un'idea semplice che non si può definire; si può solo mostrare che nasce in noi ogni volta che si accresce qualche grado di perfezione, o nel nostro corpo, [o] nel nostro spirito; perché, siccome tutto quello che ci distrugge e che ci rende imperfetti ci cagiona del dolore, e ciò a proporzione che la distruzione e l'imperfezione sono maggiori, così, allorché sopravviene in noi qual cosa che ci rende la sanità, o che cagioni la conservazione e l'ac-crescimento della stessa nostra sanità e perfezione, ne risentiamo del pia-cere; come, per cagion d'esempio, allorché uno soccorre un miserabile con qualche somma di danaro, siccome un tale atto indica e cagiona la perfezione del nostro cuore, perciò se ne risente subito del piacere; e siccome l'offender qualcheduno ingiustamente cagiona dell'imperfezione, perciò sentiamo certo rincrescimento e certo dolore.

Si potrebbe dunque considerare il piacere come una specie di premio assegnatoci dall'autore della natura in ricompensarci di quanto facciamo per la perfezione del nostro corpo e del nostro spirito; ed il dolore come un gastigo contro quelli che distruggono il proprio corpo e che rendono imper-fetto il loro spirito. Quindi deduco che il piacere è il sentimento, o ciò che si prova nell'atto che si sente la nostra perfezione; ed il dolore tutto l'op-posto. Dunque né il piacere si può chiamare la nostra felicità, come inse-gnano gli epicurei, né il dolore la nostra infelicità, come vogliono gli stessi; ma bensì la sanità e la perfezione del nostro corpo e del nostro spirito, che sono la cagione di quell'effetto, cioè del piacere. Si tiri l'opportuna conse-guenza anche del dolore.

Ma tutta la difficoltà consiste in poter assegnare quale sia la vera sanità e perfezione del nostro corpo e del nostro spirito. N o n v'ha nessun che lo sappia, e però concludo che così nessuno può sapere in che consista la nostra felicità. Anzi, siccome sappiamo di certo che siamo pieni d'imperfezioni, tanto nel corpo che nello spirito, perciò si deve confessare che siamo infelici

RISPOSTA d'un AMICO PIEMONTESE 59 e che però l'opinione di quelli che mettono la nostra felicità nel piacere, o per meglio dire nella sanità e nella perfezione del nostro corpo e del nostro spirito, la fondano in una cosa che non esiste e che noi non potiam conseguire, perché ignoriamo, come abbiamo detto, quale sia la perfezione della nostra natura.

Potrebbe nondimeno dir qui taluno che, siccome è vero che il piacere è un indizio ed un effetto della sanità e della perfezione del nostro corpo e del nostro spirito, e viceversa il dolore, cosicché sarà sempre un accostarsi alla nostra felicità il procurarci i piaceri e lo schivar i dolori, e che però sarà vera l'opinione degli epicurei circa la natura della nostra felicità.

Rispondo: i. Che noi siamo tanto guasti che spesso crediamo sanità e perfezione ciò che non è altro che distruzione e che imperfezione, e che così potiamo errare nel giudicar piacere ciò che poi cagiona dolore e vice-versa. 2. Che in fatti si trovano molte cose che nell'atto che si gustano cagio-nano del piacere e che dopo gustate apportano la nostra distruzione con infi-niti dolori; e però che la regola di cercare i piaceri non è buona, anzi è cat-tiva per poter viver felici. Avanzo di più che sono pochissimi quei piaceri che gustati non cagionino del disgusto e del dolore, e però dell'imperfezione, e per conseguente dell'infelicità. 3. Co[n]sta per infinite sicurissime sperienze che gli uomini hanno sofferto maggior numero di dolori per aver cercati e gustati troppo i piaceri che per qualunque altra loro disavventura; ed è certo che noi vivressimo più felici, se non ci curassimo di nessun piacere, che soffrendo in pace i nostri incomodi ed i nostri dolori, ma con perfetta rassegnazione al divino volere. Da tutto ciò ne deduco queste tre conseguenze. 1. Che l'opinion degli epicurei, quantunque sembri evidentemente vera, contuttociò è falsa, perché ha contraria l'esperienza e la ragione.

2. Che dal vedere che una ragione, benché sia evidentemente vera, s'oppone ad un'altra più evidentemente certa, si deve confessare che siam in contraddizione con noi stessi, e però guasti e fatti male.

3. Che conviene quindi cercare qualche miglior regola per ben giudicare delle cose e non fidarci dei nostri raziocinii, comunque ci sembrino evidenti ; e questa regola per infinite fortissime ragioni, e tali che appagano tutti gli uomini sanamente pensanti, non si trova altrove che nel Vangelo di Gesù Cristo, e però questo solamente dobbiam consultare per sapere dove consista la nostra felicità, e non la dottrina di Epicuro, il quale, oltre che erra prendendo l'effetto per la causa, di più ripone la felicità in piaceri di tale specie e natura che è incerto se siano, o l'effetto, o la cagione della nostra miseria; anzi, che per lo più sono nello stesso tempo e cagione ed effetto della nostra distru-zione e della nostra infelicità.

Io ho voluto chiudere cotest'articolo con simile conseguenza, perché scrivo contro ad un Autore che mostra d'avere una vera antipatia con tutto il cristianesimo; ed affinché si rilevi meglio la verità della stessa mia conse-guenza, che sembra da predicatore, ma che è delle più filosofiche e delle

Nel documento Opere (pagine 55-107)