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Il mercato del blu: rapporti tra editori, stampatori e commercianti di tinte

4. Tsuyukusa e ai I pigmenti blu tradizionali della stampa ukiyoe

4.4 Il mercato del blu: rapporti tra editori, stampatori e commercianti di tinte

Considerati i casi del blu di commelina e dell’indaco, si possono provare a delineare alcuni aspetti del rapporto tra colori, stampatori ed editori e in quali termini questi ultimi si confrontassero con il commercio dei pigmenti – nello specifico quello di questi due blu.

Entrambi questi coloranti avevano una loro “autonomia” rispetto al mercato editoriale delle stampe: la loro produzione e la loro distribuzione si erano sviluppate su di un binario parallelo, quello delle tinture, che inizialmente aveva poco a che fare con il mondo delle xilografie (l’aobana precedeva di molto la nascita dell’editoria).

Di fatto l’aigami venne usato per la prima volta al di fuori dei processi di tintura proprio nell’ukiyoe – dal momento che non c’è traccia del suo impiego in dipinti di nessun genere. L’ai aveva già fatto il suo ingresso in pittura a partire dal tardo XVII secolo, tuttavia, quando nel XVIII secolo si diffusero le stampe policrome, la sua principale sfera di influenza era la tintura aizome.

Si trattava, dunque, di tinte “in prestito” alla stampa: la loro produzione e i grandi mercanti che ne monopolizzavano le compravendite a monte non risentirono probabilmente di gravi perdite quando, nel XIX secolo, il loro impiego nei nishikie subì

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un netto calo (l’aigami sostituito dall’indaco e quest’ultimo scalzato dal blu di Prussia). D’altro canto, come si è visto, il loro utilizzo non sparì del tutto, ma fu semplicemente ridimensionato e limitato a determinate tonalità o miscele.

Si può quindi parlare di produzioni “esterne” al mercato editoriale, che risentivano in maniera relativa dell’influenza delle figure che operavano in tale settore.

Come gli stampatori si procurassero i coloranti necessari non è così semplice da definire. Esistevano rivenditori di colori al dettaglio ed è lecito ritenere che anche i farmacisti si occupassero del loro commercio, dal momento che i pigmenti stranieri venivano classificati come beni erboristico-medicinali e che in merito esistono alcuni rapporti sulle importazioni di blu di Prussia tenuti da farmacisti di Osaka148. Poiché, per quanto riguarda il bero, il suo commercio – dalla vendita all’asta fino a quella al dettaglio – era gestito e controllato da una ristretta cerchia di mediatori e mercanti, che di fatto lo monopolizzavano e ne controllavano i prezzi (perlomeno a Osaka e Nagasaki, ma è più che probabile che lo stesso avvenisse anche a Edo)149, si può presumere che un sistema simile valesse anche per tutti gli altri pigmenti. Poiché quelli dell’aobanagami e dell’ai erano due mercati già sviluppati, è improbabile che le associazioni di grossisti e intermediari che li gestivano fossero favorevoli a cedere la loro esclusiva o a condividerla con qualcun altro: è più ragionevole ipotizzare che avessero deciso di cogliere le opportunità derivanti da un’eventuale compravendita dei loro prodotti come pigmenti e, pertanto, si fossero occupate loro stesse di coordinarne lo smercio a farmacisti o venditori di colori.

È plausibile che, come accadeva a Osaka, anche il numero delle botteghe che commerciavano al dettaglio questi due coloranti fosse ridotto e che i prezzi pattuiti fossero strettamente controllati.

L’aobana, come si è visto, aveva una diffusione monopolizzata dai grandi mediatori commerciali di Kyoto e Osaka, e la cosa valeva anche per l’indaco. In questo secondo

148 Henry D. SMITH II, “Hokusai and the Blue Revolution in Edo Prints”, cit., pp. 243-244, MIYASHITA

Saburō, "Jinkō konjō (Purushian buruu) no mozō to yunyū", cit., pp. 119, 123-128

149 Tra Nagasaki e Osaka operava la Nagasaki kaisho 長崎会所, un’associazione mercantile di cui

facevano parte gli intermediari e i grandi commercianti all’ingrosso che controllavano i traffici con l’estero. Esisteva inoltre un’organizzazione analoga per il Kantō, la Edo kaisho 江戸会所. Poiché a Osaka i prezzi al dettaglio del blu di Prussia continuarono ad aumentare anche a seguito della crescita delle sue importazioni e al crollo del suo valore nelle compravendite all’asta e all’ingrosso, è plausibile che la sua vendita al dettaglio fosse posta sotto stretto controllo di pochi soggetti autorizzati; si vedano:

MIYASHITA Saburō, "Jinkō konjō (Purushian buruu) no mozō to yunyū", cit., pp. 126-130, SASAKI Seiichi, "Kinsei (18-seiki kōhan ikō) no Ajia ni okeru Purushian buruu no tsuiseki", Tama Bijutsu Daigaku Kenkyū

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caso, però, non solo si avevano maggiori attriti tra i mercanti all’ingrosso e i piccoli produttori che cercavano di sfuggire al loro controllo, ma vi era anche la possibilità – perlomeno per i pittori e gli stampatori – di recuperare il pigmento necessario estraendolo da vecchi tessuti tinti grazie all’aizome.

Nell’universo delle xilografie nishikie, come è già stato osservato, la responsabilità di investire i capitali per la pubblicazione, di contattare stampatori, intagliatori e disegnatori e di acquistare e fornire i materiali, come la carta, il legno e, appunto, i colori spettava agli editori150.

È naturale dunque che le loro principali preoccupazioni fossero contenere i costi, soddisfare la più vasta fetta di acquirenti possibile e, in questo modo, vendere un gran numero di stampe, in maniera da poterci guadagnare. Era quindi nel loro interesse far sì che le serie da loro pubblicate andassero incontro ai gusti del pubblico, favorendo combinazioni e tonalità familiari e apprezzate da quest’ultimo151

. La scelta dei colori da usare rientrava dunque nelle loro facoltà. Ma non erano solo gli editori a occuparsene: un ruolo importante era giocato anche dagli illustratori stessi, che potevano espressamente indicare, nei loro bozzetti preparatori, non solo la tonalità e gli effetti desiderati ma la tipologia stessa del colorante che intendevano venisse usato su una determinata area. Dunque, se un artista avesse voluto uno specifico contrasto tonale o un determinato effetto sfumato, per il quale reputava più idonea una certa tinta piuttosto che un’altra, avrebbe potuto (e dovuto) specificarlo sulla stampa di prova che sarebbe servita da linea guida per lo stampatore. Naturalmente tali decisioni dovevano essere approvate dall’editore, che poteva modificarle e rivederle. Salvo casi particolari, in linea di massima non sempre e non tutti gli illustratori segnalavano quale particolare tinta usare per ogni determinato elemento compositivo, e ciò dava maggior spazio di manovra agli stampatori152.

In mancanza di specifiche segnalazioni in materia di coloranti, spettava agli stampatori la decisione – sulla base del budget preventivato e delle proprie abilità tecniche – di quali pigmenti adoperare. La qualità del colore era una loro prerogativa.

(segue nota) Kiyō, 2, 1985, pp. 18-19 e Henry D. SMITH II, “Hokusai and the Blue Revolution in Edo Prints”, cit., pp. 243-244

150 David BELLE, Explaining Ukiyo-e, cit., pp. 189-190, 193 151

Sandra A. CONNORS, Elizabeth I. COOMBS, Roger S. KEYES e Paul M. WHITMORE, “The Identification and Light Sensitivity of Japanese Woodblock Print Colorants…”, cit., pp. 40-42

152 MATSUI Hideo, MATSUI Setsuko, NAKAMURA Emi e SHIMOYAMA Susumu, “Ukiyo-e hanga aoiro

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Scegliere la carta che si adattasse al meglio alle loro necessità, valutare quale colorante si addicesse di più alle indicazioni dell’artista e quale grado di trasparenza e brillantezza assegnare a ogni livello di stampa erano loro responsabilità. Pertanto, rifacendosi anche alle loro capacità e alle informazioni ottenute su determinati pigmenti, erano loro a suggerire agli editori quali tinte reperire e di quale qualità153. Salvo indicazioni particolari, la scelta di uno specifico colore e il suo impiego nei nishikie erano frutto delle richieste degli stampatori – ovviamente in linea con le disponibilità del mercato e i gusti degli acquirenti finali.

È possibile che sia gli editori che i surishi fossero al corrente delle più recenti innovazioni nel campo dei pigmenti qualitativamente migliori, tecnicamente più versatili ed economicamente più vantaggiosi – o perlomeno i cui vantaggi valessero l’investimento da affrontare154

.

Quale fosse il rapporto tra le case editrici e il mercato dei pigmenti è un’altra questione da verificare. In effetti è possibile che gli hanmoto si rivolgessero, per conto degli stampatori (e magari anche su loro stesso suggerimento), a un rivenditore piuttosto che ad un altro. Non è però chiaro se si rivolgessero a venditori al dettaglio oppure ai grossi mercanti. Dal momento che le case editrici potevano avere dimensioni e distribuzioni differenti – e dunque la fetta di mercato a cui si rivolgevano variava in proporzione a questi elementi – è verosimile che anche le quantità di articoli pubblicati (e pertanto di materiali impiegati) si diversificassero sulla base delle loro disponibilità. Si può quindi pensare che piccole honya o stampatori che lavoravano in proprio si rivolgessero ai commercianti al dettaglio, dal momento che non necessitavano di grandi quantità di prodotti. Al contrario, le grandi case editoriali dovevano procurarsi molto più materiale e perciò è più logico pensare che potessero rivolgersi direttamente ai grossisti. In effetti ciò sarebbe risultato conveniente non solo in materia di quantità, ma anche di disponibilità e tempistiche di approvvigionamento, oltre che di costo. Se si pensa alla

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Il fatto che la scelta dei coloranti da utilizzare fosse a discrezione dello stampatore, spiegherebbe anche perché serie differenti, ma realizzate dallo stesso autore e pubblicate dal medesimo editore nello stesso anno, possano presentare l’impiego di due differenti pigmenti per la resa delle aree di una certa tonalità; si vedano: MATSUI Hideo, MATSUI Setsuko, NAKAMURA Emi e SHIMOYAMA Susumu, “Ukiyo-e hanga aoiro enogu no hi-hakai…”, cit., pp. 62-65 e David BELLE, Explaining Ukiyo-e, cit., p. 193

154 Gli editori in primis si interessavano in merito alla distribuzione e impiego di determinati colori, ma

anche gli stampatori avevano certamente una loro rete di informazioni che permetteva loro di apprendere più elementi possibili sull’approvvigionamento, la qualità, la produzione, l’impiego e la reperibilità dei pigmenti, anche nuovi nel mondo della xilografia. È possibile che essi si servissero dunque di tali conoscenze per indirizzare gli editori sulle scelte più convenienti in questo settore; si

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maggiorazione dei prezzi al dettaglio del blu di Prussia di Osaka e si ipotizza che dinamiche simili valessero per tutti i tipi di pigmenti disponibili – ancor più per quelli le cui materie prime erano sottoposte all’esclusiva di gruppi commerciali come il blu di commelina e l’indaco – ha un senso credere che per i grandi editori fosse più pratico e vantaggioso cercare i contatti direttamente con i mercanti che si occupavano delle transazioni d’asta e la vendita all’ingrosso di tali materiali. Per tali commercianti, inoltre, espandere i loro traffici anche al mondo dell’editoria poteva essere conveniente, perché in questo modo avevano la possibilità di controllarne direttamente i canali di rifornimento e assicurarsi che non si rivolgessero alla concorrenza.

Alla luce di queste riflessioni, è possibile sostenere che il mercato editoriale delle stampe nishikie si inserì all’interno di un panorama commerciale già definitosi e sviluppatosi in precedenza – fatto di grandi associazioni mercantili che monopolizzavano la distribuzione e determinavano i costi di prodotti come l’indaco e l’aobanagami. È plausibile dunque ritenere che gli editori si limitarono a cercare di intrattenere rapporti con figure già affermatesi, adeguandosi ai canali preesistenti. Non si può quindi parlare di una produzione di pigmenti “interna” alle honya o “commissionata” su misura per loro, perlomeno non per quanto riguarda i coloranti blu: ai e tsuyukusa erano due prodotti già usati in tintura e pertanto le loro circolazione e compravendita erano di per sé indipendenti dalla volontà del mercato editoriale, che doveva invece adattarsi alle condizioni già stabilite nel corso del tempo.

(segue nota) veda: MATSUI Hideo, MATSUI Setsuko, NAKAMURA Emi e SHIMOYAMA Susumu, “Ukiyo-e hanga aoiro enogu no hi-hakai…”, cit., pp. 62-64

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