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Capitolo 3: DIAGNOSI

3.2 Esami di laboratorio specifici

3.2.1 Metodi Diretti

Esami parassitologici

Hanno lo scopo di mettere in evidenza il parassita (sotto forma di amastigote) in organi e tessuti animali o in coltura. L’identificazione diretta degli amastigoti all’interno del citoplasma dei macrofagi o liberi nel campione, viene eseguita su strisci ottenuti da ago-aspirato linfonodale (in genere linfonodi prescapolari e poplitei), midollare, epatico, splenico,

biopsia cutanea, e per impressione diretta o raschiamento di ulcere e granulomi (Gomes et al., 2006).

Gli strisci del materiale bioptico possono essere colorati con il May- Grunwald-Giemsa che permette un’agevole evidenziazione degli amastigoti, ma anche con altre tecniche quali la colorazione di Wright e la colorazione di Leishman.

La maggior parte degli Autori ritiene che vi sia una correlazione diretta tra la gravità del quadro clinico ed il numero di parassiti che si rinviene nello striscio.

Dalle stesse sedi utilizzate per i prelievi suddetti, possono essere effettuati prelievi per l’esame colturale che viene eseguito tramite la semina del campione su un substrato colturale adatto allo sviluppo delle Leishmanie, generalmente terreno di Tobie modificato da Evans, o inoculazione in animali da laboratorio (per lo più criceto) (Herwaldt, 1999). La crescita dei promastigoti avviene al massimo entro 30 giorni. Il rilievo di amastigoti nel sangue periferico, anche se possibile, è una evenienza molto rara sia nell'uomo che nel cane, ed interessa eventualmente fasi precoci d'infezione. La presenza di forme amastigote di Leishmania su strisci di materiale bioptico o la presenza di promastigoti all’esame colturale rappresentano la diagnosi di certezza di infezione dell’animale.

Questo esame andrebbe preso in considerazione per quei soggetti oligosintomatici con IFAT dubbia, come anche in seguito a terapia e negativizzazione dell’esame sierologico. L’esame parassitologico non è sempre risolutivo, essendo strettamente correlato al numero di protozoi

presente nel campione. Quindi questo esame diagnostico pur essendo altamente specifico, è poco sensibile (Vitale, 2009).

I metodi immunoistochimici possono essere usati come mezzo supplementare per confermare la diagnosi basata su sezioni colorate con l’ematossilina eosina, in particolar modo in quegli organi che non hanno un’ alta carica parassitaria (Hofman et al., 2003).

Questi metodi sono invasivi, richiedono una lunga procedura di preparazione e danno risultati inappropriati per un’indagine epidemiologica.

Fig 3.2. Promastigoti

Diagnostica molecolare

Tra le prove diagnostiche microbiologiche più recentemente messe a punto, quelle molecolari sono senza dubbio tra le più promettenti (Roura et al., 1999). Le sonde molecolari e la “polymerase chain reaction”(PCR) permettono l’identificazione di tratti genomici specifici di un determinato microrganismo.

Le tecniche molecolari risultano di particolare utilità come test di conferma per quei quadri che risultano dubbi (quadro istopatologico suggestivo in assenza di parassiti, sierologia negativa o con anticorpi a basso titolo) in animali sintomatici o per determinare la carica parassitaria (tecnica di real time- PCR). Esse possono essere usate anche allo scopo di valutare l’efficacia del trattamento farmacologico. Tali metodiche non sono in grado di discriminare la vitalità del parassita e non devono essere utilizzate da sole, considerando che spesso soggetti asintomatici sieronegativi viventi in zona endemica sono portatori di DNA di leishmania in assenza del parassita integro e vitale. Per un risultato attendibile mediante PCR è necessario utilizzare campioni provenienti da almeno 3 tipi di tessuti. I campioni ottenuti da tampone congiuntivale e da aspirato linfonodale consentono un’elevata sensibilità del test e possono essere ottenuti con manovre scarsamente invasive. Anche campioni di midollo osseo e di cute rendono il metodo estremamente sensibile (Mancianti, Ariti, 2010).

La PCR qualitativa permette l’amplificazione logaritmica in vitro del DNA-target che identifica il microrganismo in esame, attraverso l’uso di “primer” specifici che legandosi a tratti del genoma, ne permettono la duplicazione e l’amplificazione.

La PCR qualitativa è stata testata con successo su diversi campioni biologici di cani, uomini ed anche volpi affetti da leishmaniosi (sangue, linfonodi, cute, midollo, urine, tamponi congiuntivali), mostrandosi altamente specifica ma non altrettanto sensibile (Gomes et al., 2006).

La PCR qualitativa manifesta una specificità, sensibilità ed affidabilità maggiore rispetto all’osservazione diretta (strisci e colture) ed alla sierologia, rendendola il metodo gold standard nella diagnosi dell’infezione da Leishmania sia negli uomini che nel cane (Gomes et al., 2006).

In genere la PCR qualitativa rileva, in maniera più attendibile e con maggiore precisione di altri metodi diagnostici, gli stadi precoci della malattia e, quindi, anche i casi transitori ed autolimitanti dei quei soggetti che in qualche modo risolvono l’infezione (Gradoni, 2002).

Oltre che come mezzo diagnostico, la PCR qualitativa può essere utilizzata anche per monitorare il decorso della malattia durante e dopo il trattamento antiparassitario, e per classificare le diverse specie di Leishmania, mediante l’utilizzo di primers specie-specifici (Roura, 2001).

A fronte di questi indubbi vantaggi, a tale tecnica sono associati dei limiti che devono, comunque, essere messi in evidenza, dal momento che essa non permette di distinguere un parassita “vivo” da uno “morto” e richiede un personale più che qualificato, al fine di evitare le contaminazioni crociate responsabili di risultati falsamente positivi (Moreira et al., 2004).

La tecnica della PCR qualitativa, pur essendo molto specifica, non consente la quantificazione del DNA bersaglio di partenza, per cui può essere di limitata utilità quando si richiede un accurato monitoraggio dell’agente patogeno in questione.

Per superare queste limitazioni, recentemente sono state realizzate tecniche di PCR quantitativa (real-time PCR), che permettono la misurazione della carica di agenti patogeni in pazienti affetti da malattie infettive, il monitoraggio del trattamento e la discriminazione fra pazienti rispondenti e non rispondenti alla terapia (Colucci, 2000).

La real-time PCR permette il monitoraggio del prodotto di amplificazione ciclo per ciclo (in “tempo reale”); in questo modo è possibile determinare a quale ciclo il prodotto comincia ad amplificarsi in maniera esponenziale, il cosiddetto “ciclo soglia”.

Per inferenza, è possibile quantificare in termini relativi il DNA stampo presente all’inizio della reazione con precisione e riproducibilità (Gomes et al., 2006).

Da tale quantificazione deriva una stima della carica parassitaria relativa nei diversi campioni presi in esame.

La quantificazione assoluta viene ottenuta in riferimento ad uno standard interno amplificato simultaneamente al DNA campione, o ad uno standard esterno ricavato mediante amplificazione di diverse concentrazioni note di un campione di riferimento in reazioni parallele.

Per il monitoraggio della formazione del prodotto bersaglio durante l’amplificazione, esistono varie metodiche che prevedono l’uso di particolari sonde fluorescenti, come le tecnologie SYBR GreenR e TaqManR.

La fluorescenza che si genera durante la PCR per effetto delle diverse reazioni chimiche, basate sia sul legame di coloranti fluorescenti che si intercalano nella doppia elica di DNA, sia sull'ibridazione di sonde specifiche, viene quindi misurata in tempo reale da una telecamera CCD. Tutte le operazioni relative alle misurazioni avvengono sotto il controllo di un software gestito da un personal computer.

I vantaggi della metodica di real-time PCR, rispetto alle tecniche di PCR standard, consistono nella rapidità della produzione dei risultati, nell’eliminazione delle manipolazioni post-amplificazione per la rilevazione degli amplificati (con riduzione dei tempi e dei rischi di contaminazione), e nell’aumento della sensibilità (Gomes et al., 2006).

È ipotizzabile, inoltre, che la quantificazione della carica residua parassitaria in corso di terapia possa essere usato come metodo di controllo dell’efficacia della stessa ed, eventualmente, di predizione delle recidive dopo la sospensione del trattamento, oltre che come strumento in supporto alla valutazione della necessità di effettuare un trattamento preventivo in soggetti infetti asintomatici, come suggerito da ricerche comparse in letteratura a proposito di patologie virali (Griscelli et al., 2001).

3.2.2 Metodi Indiretti

Sono i test maggiormente utilizzati per la diagnosi ed il controllo della leishmaniosi canina. Si basano sull’identificazione degli anticorpi specifici anti-Leishmania circolanti. Questi metodi sono altamente sensibili e specifici, ma non possono essere utilizzati come unico test diagnostico, poichè possono risultare falsamente positivi in quei cani resistenti o sani che sono venuti a contatto precedentemente con il parassita, e falsamente negativi in soggetti che, infettati di recente, non hanno ancora prodotto una risposta anticorpale rilevabile (Mancianti, Meciani, 1988).

Test di immunomigrazione rapida. Si tratta di kit diagnostici

commercializzati per uso ambulatoriale. Presentano di solito scarsa sensibilità e talora ridotta specificità, fornendo spesso risultati contrastanti tra loro. Inoltre non consentono di rilevare il titolo anticorpale che è indispensabile, insieme ad altri parametri, per il follow-up terapeutico e devono essere sempre convalidati da un test di referenza (IFAT) (Mancianti, Ariti, 2010)

IFAT

(

Immunofluorescenza indiretta). È il test più largamente

utilizzato. È il test di referenza dell’OMS e dell’OIE. Ha specificità del 100% in aree geografiche dove non sono presenti infezioni da altri flagellati ed è dotato di un’ottima sensibilità (99%) soprattutto negli animali malati (Mancianti, Ariti, 2010). Esso si basa sull’evidenziazione di anticorpi specifici nel siero del soggetto in esame (Dye et al., 1993). Questo test, pur presentando dei limiti oggettivi, legati alla soggettività della lettura, alla variabilità dell’antigene fissato sui vetrini e alla scarsa affidabilità per i titoli bassi (false positività e false negatività), continua a costituire ancora oggi l’esame più impiegato per la diagnosi della malattia, oltre ad essere il test di referenza utilizzato dall’OMS per diagnosticare la leishmaniosi viscerale sia nell’uomo che nel cane. Tale indagine si esegue facendo reagire il siero del soggetto in esame,

anticorpi superflui, si aggiunge l’antiglobulina specifica coniugata con isotiocianato di fluoresceina. La lettura dei campioni viene effettuata al microscopio a fluorescenza. La risposta viene espressa in titoli anticorpali di diluizione: il valore soglia per il sospetto di uno stato di infezione nel cane è considerato 1:40.

Un animale con leishmaniosi può risultare debolmente positivo nelle fasi iniziali dell’infezione in cui può apparire anche del tutto asintomatico, o in forme evolute della malattia in seguito all’instaurarsi di meccanismi di immunosoppressione. Un’altra eventualità di frequente riscontro nella pratica, è l’animale trattato con cortisonici o con farmaci specifici (antimoniali) che comportano una drastica riduzione del titolo anticorpale (Mancianti et al., 1990).

Deve essere comunque sottolineato che non c’è una proporzionalità diretta tra titolo sierologico e gravità della malattia e ancora tra titolo sierologico e tasso di immunoglobuline messe in evidenza dall’esame elettroforetico. Un riscontro sierologico positivo a titolo superiore o uguale a 1:160 indica sempre infezione in atto, mentre titoli compresi fra 1:40 e 1:80, in assenza di sintomi, devono essere considerati dubbi e quindi sarà opportuno indagare ulteriormente con altri mezzi diagnostici quali la PCR.

Nonostante la metodica IFAT sia la tecnica “gold standard” prevista dal manuale O.I.E. per la diagnosi di leishmaniosi canina, essa è associata a numerose problematiche, sia legate alla metodica che all'interpretazione dei risultati ottenuti, infatti questo esame dipende molto dall’interpretazione personale dell’esaminatore (Vitale, 2009).

Inoltre, in mancanza di linee guida obbligatorie, ogni laboratorio ha facoltà di eseguire la prova (e di refertarla) con procedure "personalizzate".

La mancanza di standardizzazione della prova si riflette in modo evidente, ad esempio, nella scelta del cut-off, ovvero nel titolo soglia oltre il quale il paziente viene considerato "positivo". Per alcuni laboratori la soglia e 1:40, per altri 1:80.

Il test, quindi, è da utilizzare come punto di partenza per l'approccio clinico al singolo paziente; ed inoltre il titolo non può essere utilizzato nel monitoraggio della malattia, perchè qualsiasi terapia si associa ad una

riduzione del titolo, a prescindere dalla reale "guarigione" e dal rischio di recidiva (Koutinas et al., 2001).

Fig. 3.4: Ifat di forme di promastigoti di Leishmania infantum

ELISA (Enzyme Linked Immunosorbent Assay). Si tratta di un test

immunoenzimatico che utilizza antigeni solubili adsorbiti su piastre. La formazione del complesso antigene-anticorpo viene evidenziata mediante l’aggiunta di una antiglobulina di cane coniugata con un enzima che, in caso di positività, rivela una reazione colorimetrica che viene letta da uno spettrofotometro. Poichè l’antigene è rappresentato da un estratto proteico crudo di parassiti in coltura, costituito dall’insieme di tutti gli antigeni proteici del parassita, l’affidabilità del test immunoenzimatico non è alta, a causa delle possibili risposte aspecifiche. Al fine di ottimizzare la metodica, si è ricorsi anche all’impiego dell’ingegneria molecolare per creare un antigene ricombinante a sostituzione dell’antigene crudo, denominato K39, da tempo utilizzato per la sierodiagnosi della leishmaniosi viscerale umana (Gomes et al., 2006).

Sovrapponibile alla tecnica ELISA, è quella della DOT ELISA, che utilizza promastigoti interi fissati su un supporto in nitrocellulosa e collocati sul fondo di micropiastre: la reazione si svolge come una normale ELISA, ma per la lettura non è necessario lo spettrofotometro. I vantaggi rispetto all’ELISA tradizionale sono numerosi: essa è più rapida, richiede minori quantità di antigene e la lettura non è influenzata da sieri emolitici o lipemici.

Esistono numerosi test in commercio, con antigeni totali o purificati, che presentano sensibilità e soprattutto specificità diverse. Sembrano particolarmente promettenti quelli che impiegano più antigeni. Hanno il vantaggio di essere test automatizzabili con lettura oggettiva e di consentire una quantificazione degli anticorpi specifici (Mancianti e Ariti, 2010).

Western Blot. un’ulteriore tecnica sierodiagnostica affidabile, ma di

scarsa praticità per screening di massa, è quella del Western Blot. Riera et al. (2004), hanno dimostrato un’elevata sensibilità dell’analisi di Western blot in quei soggetti caratterizzati da bassi titoli anticorpali sierici, quando il parassita intero viene utilizzato come antigene.

Capitolo 4: TERAPIA

Negli ultimi venticinque anni, l’attività di vari gruppi di ricerca si è concentratata sul trattamento della leishmaniosi canina. La terapia può eliminare la Leishmania dai cani in casi eccezionali e la guarigione parassitologica è un’eccezione. Sebbene la maggior parte dei cani diventi clinicamente sano, le ricadute sono possibili e necessitano nuovamente un trattamento. Gli obiettivi dei clinici sono: ottenere un cane senza segni clinici, mantenere lo stato di salute per un lungo periodo e valutare ogni caso come un singolo ed unico caso, senza generalizzare (Roura, 2010).

Gli scopi della terapia anti-Leishmania possono essere ricondotti a:

1. riduzione (eliminazione) della carica parassitaria del paziente; 2. controllo dei danni indotti dal parassita;

3. ripristino della risposta immunitaria del cane; 4. stabilizzazione nel tempo dei risultati ottenuti; 5. trattamento delle recidive.

Va premesso che i principali farmaci anti-Leishmania sono stati ideati e sviluppati in fasi pre-cliniche e cliniche esclusivamente per la terapia delle leishmaniosi umane e solo successivamente sono stati studiati ed utilizzati nel cane. Le scarse conoscenze sulla risposta immunitaria dei soggetti malati prima, durante e dopo il trattamento terapeutico, contribuiscono a rendere di difficile interpretazione i molteplici insuccessi che si registrano in numerosi casi di leishmaniosi canina (Gruppo di Studio per la Leishmaniosi Canina; Oliva, Crotti, Roura et al., 2008).

Per rendere più agevole l’inquadramento diagnostico dei cani infetti, è stata recentemente pubblicata una classificazione elaborata dal “Gruppo di

Studio per la Leishmaniosi Canina”.

Nella tabella che segue è riportata la classificazione dei cani affetti da leishmaniosi proposta dal “Gruppo diStudio sulla Leishmaniosi Canina” o G.S.L.C.

[Oliva,Crotti, Maroli, Roura, Solano, Zatelli, 2008].

Stadio Definizione Descrizione

A Esposto

Cane senza alterazioni clinico patologiche dimostrabili,nel quale i test diagnostici parassitologici risultino negativi ma siano evidenziabili titoli anticorpali specifici, non superiori a quattro volte il valore soglia del laboratorio di riferimento. I cani esposti solitamente soggiornano o hanno soggiornato in un’area dove è accertata la presenza di flebotomi.

B Infetto

Cane senza alterazioni clinico patologiche dimostrabili, nel quale è possibile mettere in evidenza il parassita, con metodi diretti (microscopia, coltura o PCR) e con metodi indiretti (anticorpi specifici).

C Malato

Cane infetto, nel quale sia dimostrabile qualunque alterazione clinico patologica riferibile a leishmaniosi e nel quale sia dimostrabile il parassita o titoli anticorpali superiori a 4 volte il valore soglia del laboratorio di riferimento.

D quadro clinico Malato con grave

Cane malato affetto da: nefropatia proteinurica, insufficienza renale cronica, gravi malattie oculari che possono comportare la perdita funzionale e/o richiedono terapie immunodepressanti, gravi malattie concomitanti, di natura infettiva, parassitaria, neoplastica o endocrina.

E Refrattario

Recidivo

(Ea) cane malato refrattario al trattamento

(Eb) cane malato sottoposto a trattamento, con recidiva precoce

Approccio terapeutico in base alla stadiazione del paziente

STADIO A (esposto): i cani non vanno trattati farmacologicamente ma

ricontrollati clinicamente e dal punto di vista sierologico e parassitologico dopo 8-16 settimane, dal primo riscontro di positività sierologia.

STADIO B (infetto): i cani devono essere trattati farmacologicamente se

l’evidenza del parassita è associata a sieroconversione. In assenza di sieroconversione, i soggetti non vanno trattati ma strettamente monitorati clinicamente e sierologicamente ogni 8-16 settimane per almeno un anno.

STADIO C (malato): i cani devono essere trattati con farmaci anti-

leishmania. In questi soggetti, un esame fisico completo e l’esecuzione di un accurato screening di laboratorio, consentono di valutare la necessità di terapie collaterali.

STADIO D (malato con quadro clinico grave): i cani in questo stadio

devono essere trattati con farmaci anti-leishmania e con terapie di supporto suggerite dal quadro clinico del paziente.

STADIO E

Sottogruppo Ea( cani malati refrattari al trattamento)

· Escludere “false positività”;

· Rivalutare le alterazioni clinico patologiche;

· Escludere altre patologie( ad es. patologie trasmesse da zecche); · Rivalutare il protocollo terapeutico;

· Valutare l’utilizzo di un protocollo terapeutico alternativo.

Sottogruppo Eb ( cani malati sottoposti a trattamento con recidiva precoce), vale quanto esposto per il sottogruppo Ea, dando particolare

enfasi all’esclusione di altre patologie e alla rivalutazione del protocollo adottato.

I farmaci comunemente usati per la terapia anti-Leishmania in Medicina Veterinaria sono gli stessi utilizzati per la leishmaniosi umana, con modalità e posologia differenti (Alvar et al., 2006). Mentre in campo umano, però, la terapia porta ad una percentuale di guarigione completa in circa il 96% dei casi, negli animali purtroppo tale percentuale scende drasticamente. Spesso si tende a confondere la guarigione clinica (regressione di tutti i sintomi) con la guarigione completa (negativizzazione dei test sierologici e scomparsa del parassita). Frequenti sono infatti le recidive della malattia in forme spesso più gravi e refrattarie ai trattamenti.

Se la malattia viene diagnosticata precocemente, quando ancora non sussiste una sintomatologia conclamata ed il soggetto è giovane, con una cura appropriata, si può raggiungere una percentuale di guarigione anche del 40%. Con l’avanzare dell’età, ma soprattutto nelle forme avanzate, la percentuale scende intorno al 5-15%.

Occorre distinguere una terapia specifica, diretta contro il parassita, ed una

sintomatica e di supporto, richiesta dallo stato clinico in presenza di

complicanze.

I protocolli terapeutici più frequentemente utilizzati in Italia sono quelli che prevedono l’impiego di antimoniato di N-metilglucamina (Glucantime®) o miltefosina (Milteforan®), sempre in combinazione con l’allopurinolo, con dosaggi e tempi di somministrazione molto variabili.

Altri farmaci utilizzati nel corso degli anni sono la pentamidina, il metronidazolo e la spiramicina. I fluorochinoloni, in particolare l'enrofloxacina, sono potenzialmente utilizzabili in associazione a chemioterapici specifici anti-Leishmania, in virtù di un loro effetto immunomodulante.

Uno dei farmaci più recentemente utilizzato per la terapia della leishmaniosi viscerale dell'uomo è l'Amfotericina B inclusa nei lisosomi (AmBisome®), che è stato dimostrato essere un potente agente anti- Leishmania nel topo ma anche nell’uomo.

In Italia, l’AmBisome® è considerato il farmaco elettivo per il trattamento della leishmaniosi umana. Nel cane, invece, questo farmaco induce una

rapida guarigione clinica, ma non è efficace nell'eliminare i parassiti ed è opinione generale che, tali farmaci non dovrebbero essere utilizzati in veterinaria per evitare la selezione di parassiti resistenti.

Descriviamo di seguito quelli che sono i farmaci di più comune impiego nella cura della Leishmaniosi canina.

4.1 N-Metilglucamina antimoniato

L’antimoniato di N-metilglucammina (Glucantime®) è l’unico farmaco a base di antimonio pentavalente utilizzato in Europa sia nell’uomo che nel cane.

Fig. 4.1. Srtuttura di antimoniato di N-metilglucamina

4.1.1 Meccanismo d’azione

I composti antimoniali agiscono mediante inibizione dell’enzima fosfofruttochinasi e topoisomerasi, alterando quindi la glicolisi e la replicazione del DNA dei protozoi. Recenti studi hanno confermato che tale effetto, documentato sia nei confronti dello stadio promastigote che amastigote di Leishmania, è attribuibile oltre che all’azione diretta dell’antimonio pentavalente, anche a quella dell’antimonio trivalente. La trasformazione in antimonio trivalente avverrebbe soltanto all’interno degli organuli macrofagici ad opera di specifici enzimi riducenti e grazie al basso pH. Il miglioramento clinico è quasi sempre accompagnato dalla

normalizzazione dei parametri dell’emogramma e del profilo biochimico, alcune volte più lenta rispetto al quadro clinico.

I tempi di normalizzazione del rapporto sierico di A/G, sono direttamente proporzionali alla dose di farmaco impiegata e quindi ridotti con l’utilizzo di dosaggi più elevati (Amusantegui et al. 1998).

La mancata guarigione parassitologia è testimoniata da diversi Autori, con il riscontro di amastigoti di leishmania in diversi tessuti dopo alcuni mesi di sospensione del trattamento. (Ikedea-Garcia, et al. 2007, Oliva et al. 1998). Occorre ricordare che i composti antimoniali, analogamente agli altri farmaci utilizzati nelle terapie anti-Leishmania, non sono in grado di garantire la negativizzazione parassitologica degli animali ammalati, se non

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