• Non ci sono risultati.

Gli approcci glottodidattici di ispirazione rogersiana: Curran e Gordon

3.2 Il metodo integrato Gordon

Il primo a produrre metodologie utili in classe per creare un’efficace relazione fra insegnante e allievo e fra gli allievi stessi fu Gordon. Per lui, seguace di Rogers, la chiave del comportamento umano è la soddisfazione dei bisogni, riferendosi alla Piramide dei Bisogni di Abraham Maslow (1954), il quale considera lo sviluppo umano come

84

la tendenza al soddisfacimento di bisogni di ordine via via superiori e rappresentati da una piramide, alla cui base è la sopravvivenza e, di seguito, la sicurezza, l’ambito sociale e delle relazioni, la stima e il successo, l’autorealizzazione.

Partendo da queste premesse, per Gordon ogni comportamento umano è uno sforzo per soddisfare un bisogno, non definibile buono o cattivo, se non in base alle conseguenze recate alle persone e all’ambiente circostante. Nell’ambito educativo c’è un cambio di prospettiva, l’educatore deve guardare alla persona e al comportamento come a due entità distinte; descrivere quest’ultimo senza valutarlo; accompagnare la persona nell’identificazione del proprio bisogno e del comportamento più funzionale alla sua soddisfazione. Mette inoltre in risalto quanto nel ritenere un comportamento accettabile o inaccettabile, problematico o no, intervengano diversi fattori, inerenti all’educatore (le sue condizioni emotive o fisiche), al ragazzo (uno stesso comportamento agito da persone diverse può essere vissuto in maniera differente), al contesto. L’educatore, in relazione ad un comportamento o un atteggiamento, deve valutare attentamente il proprio livello di tolleranza, prestare attenzione a come gestirlo e valutare a chi appartenga realmente un problema: se questo interferisce sui suoi bisogni, i suoi valori o i suoi compiti (es. il soggetto impedisce un lavoro sereno; allora è un problema dell’educatore), se è deprivazione di un bisogno per il ragazzo (allora esprime un problema per quest’ultimo, per es.: isolarsi, distrarsi, …). Si assume così la responsabilità dei propri bisogni,

85

sentimenti, della propria condizione interiore, aiutando l’altro a fare altrettanto. Cambia il modo in cui si percepisce l’educando, nonché il modo in cui viene trattato. Le metodologie educative tradizionali sono rimesse in discussione, quelle definite punitive e quelle permissive, entrambe basate su uno squilibrio di potere fra le parti e su forme subdole di coercizione, per altro presenti nei comportamenti e nel modo di esprimerci quotidiano, quando, anche senza rendercene conto,

tendiamo al controllo e all’influenza sul nostro interlocutore. D’altra parte, fra gli scopi del metodo Gordon, vi è quello di utilizzare

le strategie educative e quelle per la gestione dei conflitti, al fine di aiutare le persone ad eliminare l’uso della violenza e del potere in tutti gli ambiti della vita.

“Egli considera punitivo un metodo educativo che tenda a controllare e valutare un comportamento o un atteggiamento; che dia valore prioritario all’obbedienza; che scoraggi lo scambio dialettico, l’indipendenza e l’individualità del soggetto, utilizzando essenzialmente la punizione, ma anche la ricompensa e la lode” (Baumrind:1971).

La lode assume le caratteristiche di una valutazione, un giudizio espresso da una persona che si ritiene, più o meno implicitamente, superiore. Proprio la percezione di essere giudicati può determinare nell’ altro reazioni impreviste, cogliendo un tentativo di manipolazione o la non sincerità dell’educatore, in modo particolare se la valutazione di quest’ultimo non coincide con una propria autovalutazione, con una

86

critica a precedenti situazioni o con contesti in cui la lode non è stata fatta. A volte la lode è vissuta come un incitamento alla competizione; può avere come ulteriore conseguenza una dipendenza alla lode stessa, che diviene una motivazione per l’agire. Ricompensa, punizione e lode possono rispettivamente determinare condizioni di dipendenza, paura e inferiorità, generando reazioni di fuga dalla relazione, di violenta ritorsione contro l’educatore o di sottomissione completa. Sono strumenti che effettivamente tendono a negare i reali bisogni delle persone, o a soddisfarli con una condizione; tendono a mantenere il controllo sull’altro e a confermare il potere di un superiore.

L’utilizzo invece del metodo permissivo, anche se favorisce relazioni più piacevoli e un clima più affettuoso, è un offrire al ragazzo la possibilità di esercitare il potere e una rinuncia da parte dell’educatore della responsabilità dei propri sentimenti, bisogni e convinzioni. Assume il valore di falsa tolleranza da parte dell’educatore, che non potrà fare a meno di inviare messaggi non verbali di biasimo, trasmettere segnali ambigui, che creano confusione e privano l’altro di un termine di paragone rispetto ai propri comportamenti. La mancanza di un termine di confronto rende l’educando una persona individualista, insensibile ai bisogni dell’altro e incapace di sostenere la frustrazione o il dilazionamento della soddisfazione. Per quanto riguarda l’educatore, la negazione dei propri bisogni, dei propri valori, la negazione del sé, può determinare reazioni di risentimento e di rabbia.

87

Nell’utilizzo dei due metodi si possono innescare due meccanismi psicologici: il coping e il modeling. Per l’approccio punitivo le reazioni di coping sono secondo Gordon di tre tipi:

1) di lotta (ribellione, disobbedienza, ostilità, competizione, prepotenza, non rispetto degli altri e delle regole);

2) di fuga (fantasticherie, fughe, silenzi, rifiuto di parlare, disturbi alimentari, dipendenze patologiche);

3) di sottomissione (bugie, accuse verso gli altri, lusinghe e adulazioni, il rinunciare facilmente ai propri desideri, timidezza, paure immotivate, ricerca costante di rassicurazioni e approvazioni).

Invece le reazioni di modeling possono contemplare:

1) il divenire ricattanti (per un ragazzo dire per esempio ai genitori: studio se mi compri il motorino...);

2) diventare violenti sia verso l’educatore (ritorsione contro il controllante) che in contesti sociali in genere;

3) ritenere che la violenza verso una persona vicina affettivamente sia lecita (ti punisco per il tuo bene).

Circa l’approccio permissivo le reazioni di coping possono essere individuate nell’esercitare il potere sugli altri, nell’individualismo, nella mancanza di attenzione o capacità di riflessione, nello sfruttamento degli altri o delle situazioni a proprio vantaggio; mentre quelle di modeling implicano: l’evitare di prendere posizioni; di

88

esprimere pareri o giudizi; il non riconoscere i propri bisogni e sentimenti; il non avere valori di riferimento.

Ma forse la conseguenza più grave del metodo punitivo, o certamente quella che nessun educatore, qualsiasi metodo applichi, auspica, è rilevata dagli studi di Stanley Milgram, il quale afferma:

“La scomparsa del senso di responsabilità è la conseguenza di più lunga portata della sottomissione all’autorità” ( Milgram: 2003).

L’alternativa proposta da Gordon è l’utilizzo di un metodo diverso;

“per insegnare a chi lavora con soggetti in età evolutiva a comunicare in modo efficace; a facilitare l’autoapprendimento; a condurre democraticamente un gruppo di discussione o di lavoro” (Gordon 1991:17),

basato su relazioni democratiche, in cui l’educatore stesso sia disponibile a mutamenti interiori, a imparare, non a fare ma a essere; essere una persona autentica e congruente e liberarsi dalla paura di perdere il controllo sull’altro.

Il Metodo di Gordon mira alla qualità della relazione; non vuol rendere efficaci le persone, ma le relazioni e il dialogo interpersonale, in quanto, attraverso i messaggi che si comunicano, può essere costruttivo o distruttivo, di accettazione o di rifiuto. Gli educatori, pur mossi da buone intenzioni, finiscono a volte col favorire la dipendenza

89

anziché l’autonomia e con il controllare l’azione anziché promuovere lo sviluppo e l’iniziativa personale.

Secondo Gordon, anche se viene individuato il segnale di disagio da parte del soggetto come sintomo di un problema che egli sta attraversando, si rischia, nonostante le serie intenzioni, di inibire la voglia di comunicare. Sovente esprimiamo giudizi, suggerimenti, soluzioni non richieste, con il risultato che l’individuo da aiutare si chiuda ancora di più in se stesso, si senta incompreso, peggiori l’immagine di sé e la relazione con noi. Senza volerlo vengono commessi errori che impediscono lo sviluppo della comunicazione con l’altro, utilizzando un linguaggio che assume per il soggetto significati di rifiuto e di non accoglienza, e non di un contributo allo sviluppo di autostima e accettazione di sé. Gordon individua dodici possibili barriere della comunicazione, dodici tipi di messaggio il cui utilizzo è particolarmente negativo quando la relazione è già difficoltosa. Sono messaggi definiti come: direttivi, repressivi e indiretti, che hanno in comune l’essere un ostacolo alla dimostrazione della disponibilità dell’educatore all’ascolto e all’apertura verso la comunicazione dell’utente, oltre che avere su di esso una negativa ripercussione sull’autostima. I messaggi direttivi, come ordini, comandi, avvertenze, minacce, prediche, consigli, soluzioni e suggerimenti, anche se sembrano il metodo più rapido per ottenere un cambiamento, inducono reazioni ostili, proprio per il senso di inferiorità e di inadeguatezza che trasmettono. I messaggi repressivi, come critiche, giudizi, ridicolizzazioni, sentenze, ma anche diagnosi, generalizzazioni,

90

apprezzamenti positivi e rassicurazioni, tendono a giudicare, bollare il soggetto e vengono rifiutate oppure interiorizzate. Anche fare domande continue, indagare, mettere in dubbio le parole dell’altro, eludere il discorso cambiando argomento o fare del sarcasmo sono messaggi indiretti, ambigui e spesso non chiari, che sfuggono il bisogno di stima, di apprezzamento o, per lo meno, di riconoscimento da parte del proprio interlocutore.

La prima tecnica suggerita da Gordon evidenzia la disponibilità dell’educatore ad ascoltare attraverso il silenzio e il non intervento; per aiutare realmente l’altro è necessario un ascolto attivo. L’ascolto è uno degli strumenti più efficaci poiché, anche solo ascoltando una persona la si può aiutare, se è in difficoltà. Il docente che sa usare il metodo dell’ascolto attivo può portare lo studente a liberarsi da ciò che lo opprime parlandone, facendogli comprendere che lo accetta con tutti i suoi problemi. L’ascolto, quello vero, può assumere due forme (ascolto passivo e ascolto attivo), esprime il linguaggio dell’accettazione e si articola in quattro momenti:

1) ascolto passivo (silenzio), è un silenzio interessante e accettante, fondamentale perché la comunicazione tra i due partner possa essere fluida. Esso permette all’alunno di esporre i propri problemi senza essere interrotto ed evita all’insegnante di incorrere nelle dodici barriere della comunicazione. Tale forma di ascolto si realizza mediante i successivi momenti due e tre; 2) messaggi d’accoglimento: indicano al ragazzo che l’insegnante

91

non verbali (costante contatto visivo, annuire, fare cenni di testa, sorridere, chinarsi verso …, usare altri movimenti del corpo indicanti ascolto, …), verbali (pronunciando ogni tanto parole e suoni, piccole interiezioni : Oh!, Mmm, Capisco, Ti ascolto, …); 3) espressioni facilitanti: incoraggiamenti che invitano il ragazzo a

parlare, ad approfondire quanto sta dicendo. Non valutano né giudicano lo studente (E’ interessante, Che ne diresti di

parlarne?, Vorresti dirmi qualcosa in più su questo problema?);

4) ascolto attivo: l’insegnante riflette il messaggio dell’alunno, recependolo senza emettere messaggi suoi personali. In tale modo l’allievo si sente oggetto d’attenzione, non subisce valutazioni negative, coglie l’accettazione e la comprensione dell’insegnante per poter così giungere da solo alla soluzione dei suoi problemi. Tornando all’esempio descritto precedentemente vediamo ora come l’insegnante potrebbe fare uso dell’ascolto attivo.

Cristiano si avvicina abbattuto. L’insegnante silenziosamente aspetta che inizi a parlare (ascolto passivo). Sorride per incoraggiarlo (messaggio d’accoglimento).

Cristiano: Professore, i membri del mio gruppo non mi vogliono a

lavorare con loro. (si interrompe, abbassa la testa e inizia a tormentarsi

l’orlo della manica)

Insegnante: Ti sto ascoltando. Vuoi dirmi qualcos’altro? (invito caloroso)

92

Cristiano: Hanno detto che non mi vogliono perché loro hanno

preparato il saggio e si sono impegnati, e io no.

Insegnante: Ne sei dispiaciuto?

Cristiano: Sì, tantissimo. (smette di tormentare la manica e alza la testa)

Insegnante: Cos’hai intenzione di fare?

Cristiano (ci pensa qualche istante, infine risponde): posso offrirmi per

procurare le illustrazioni e qualche stralcio da opere tragiche e comiche. Alla prossima occasione mi impegnerò e inserirò il mio materiale fra quello degli altri.

Insegnante: Perfetto. Questa è un’ottima idea.

Lo studente non è stato mortificato né giudicato dal professore come sarebbe invece avvenuto se anziché ascoltare, egli avesse parlato incorrendo in una barriera della comunicazione. Ancora l’allievo ha trovato da solo una soluzione a sua misura senza trovarla offerta dall’insegnante.

L’ascolto attivo risulta efficace proprio perché permette agli allievi la piena gestione dei loro stessi problemi, evitando incomprensioni e fraintendimenti. Per essere certi che la comunicazione sia esatta è necessario che l’emittente del messaggio sia certo che il messaggio stesso è stato correttamente recepito. Nella comunicazione efficace è perciò indispensabile il feedback, che in questo frangente consiste nell’ascolto attivo. Tutti gli stati d’animo, i sentimenti, le impressioni, le sensazioni necessitano di un codice per essere comunicati.

93

Prendendo in esame la comunicazione verbale, il codice adottato è la parola. Per la comprensione del messaggio inviato la parola deve essere tradotta dal ricevente in sensazione.

Facciamo un esempio: uno studente potrebbe mostrarsi ansioso perché è molto arretrato nello studio del programma e si rende conto che dovrà lavorare molto per mettersi al pari con gli altri. Ha un problema e vuole risolverlo. Se va dall’insegnante ad esprimere esplicitamente i suoi timori, il codice è stato scelto correttamente. Ma non sempre avviene così. Ci sono sentimenti che non si vogliono o non si sanno esprimere. Nel nostro caso lo studente non vuole mostrare all’insegnante l’ansia che prova. Si avvicina all’insegnante e dice: - Faremo presto una verifica?

Il docente può rispondere: - Vuoi fare subito una verifica?

- Hai dimenticato che la verifica è stata programmata per la settimana

prossima?

- Che domanda è questa? Completato il modulo ci sarà certamente una verifica.

In questi casi non c’è una vera comunicazione. Se l’insegnante esercita l’ascolto attivo, decodifica esattamente; attraverso le parole recepisce i sentimenti dello studente e può rispondere: “Sei

preoccupato per la verifica?” Il ragazzo può confermare e sentirsi

94

l’interpretazione sia sbagliata, lo studente può confutare e dare la giusta spiegazione.

Quando l’insegnante si trova di fronte ad un ragazzo che con il suo comportamento indisciplinato gli crea un problema, gli rende difficile o impossibile svolgere tranquillamente il proprio lavoro, può ricorrere al messaggio-Io. Con tale tecnica, chiamata di “confronto”, l’insegnante mette a confronto i propri sentimenti e bisogni con i comportamenti disturbanti del ragazzo. E’ attraverso la corretta espressione di ciò che l’adulto prova, quando il ragazzo agisce un comportamento inaccettabile, che l’allievo si rende conto delle conseguenze del proprio agire e delle reazioni che ciò determina negli altri.

La frustrazione di un insegnante che desidera svolgere con serietà e competenza il proprio lavoro, ma è impossibilitato dai comportamenti inaccettabili degli allievi, si manifesta spesso con nervosismo, irritabilità, stanchezza, disaffezione per la propria attività, sfiducia nei giovani. Quando è il docente stesso a vivere una situazione di disagio è importante che sappia comunicarla efficacemente, senza incorrere negli errori della comunicazione. I messaggi-Tu esprimono un giudizio su chi ascolta. I messaggi-Io palesano un sentimento di chi parla. Visualizziamo ora un messaggio-Tu, in cui l’insegnante traduce un suo sentimento di disagio in un giudizio su un allievo.

95

Insegnante Alunno

Irritazione Codificazione Messaggio-Tu “Sei disordinato”

Decodificazione ”Io sono un buono a nulla”

Il messaggio-Tu “Sei disordinato” è una comunicazione inefficace, perché provoca ribellione e atteggiamenti difensivi. Il messaggio-Io “Io mi irrito” è una comunicazione efficace, poiché non esprime alcuna valutazione su colui che compie l’azione, ponendolo innanzi alle conseguenze della propria azione ed ai sentimenti che ne derivano.

Insegnante Alunno

Irritazione Codificazione Messaggio-Io “Io mi irrito.”

Decodificazione ”La maestra si irrita.”

96

1) descrizione senza giudizio del comportamento dell’altro (quando tu non rimetti a posto pennelli e colori);

2) descrizione dei personali sentimenti (io mi irrito);

3) reazione agli effetti tangibili e concreti (perché possono cadere a terra e macchiare il pavimento).

Il docente comunica i propri sentimenti all’allievo: tale autenticità fa percepire al ragazzo il reale vissuto del docente senza costringerlo ad assumere atteggiamenti di difesa. Nel contempo il messaggio indica al ragazzo il suo comportamento inaccettabile, il problema ridiventa dell’allievo e l’insegnante può passare all’ascolto attivo. Ad esempio:

Quando tu fai lo sgambetto ad un compagno (descrizione senza

giudizio), questi può cadere (effetto tangibile), ed io perdo la calma (reazione agli effetti). In questa comunicazione non abbiamo un messaggio-Tu (malgrado compaia il pronome tu), poiché non ci sono valutazioni negative sull’alunno. Anzi, si mette in risalto che è un comportamento specifico a provocare il problema, e non l’alunno richiamato. Il messaggio-Io comunica sempre un sentimento primario, contrariamente al messaggio-Tu, che esprime la collera, sentimento secondario che segue quello primario. L’uso del messaggio-Io comporta sempre l’espressione dei propri sentimenti, la disponibilità a cambiare il proprio modo di rapportarsi agli altri, prendendo coscienza responsabilmente dei propri vissuti. Coloro che vi ravvedessero un potenziale rischio possono considerare che la posta in gioco consiste in

97

maggiori serenità ed efficacia nel proprio lavoro e nel benessere psicofisico del docente e degli alunni.

Ascolto attivo e espressione di messaggi di confronto sono funzionali anche nella gestione e risoluzione dei conflitti, proprio in quanto creano un clima positivo di apertura e di fiducia. I conflitti non si rivelano dannosi; se ben portati avanti permettono il confronto di idee e pensieri e di conoscersi meglio; il problema nasce quando non vengono riconosciuti o non sono risolti, oppure quando si ricorre a soluzioni che abbiano come fine la vittoria di una parte sull’altra. Quest’ultimo atteggiamento non fa che rendere la relazione più difficoltosa, in quanto ci sarà sempre una parte sottomessa e perdente che reagirà con rabbia, risentimento e frustrazione. Attraverso il principio di partecipazione, in cui ogni persona è invitata a partecipare nell’assunzione delle decisioni, i conflitti perdono ogni valenza di lotta di potere e, quando le parti si confrontano sui rispettivi bisogni, si rende evidente come una soluzione possa soddisfare entrambe le parti. Quello che Gordon definisce il No-lose conflict resolution (la soluzione dei conflitti senza perdenti) riflette le considerazioni fatte per i metodi educativi, punitivi e permissivi, legati alla gestione del potere e le conseguenti reazioni comportamentali ed emotive di entrambe le parti. In particolare, quando un educatore alterna i due metodi, utilizzando preferibilmente quello permissivo e ricorrendo all’altro quando non ce la fa più, l’educando si sente disorientato, perde ogni punto di riferimento e non identifica più quali siano i limiti e le regole da seguire. Rinunciando ad ogni lotta di potere si sviluppa

98

tra le parti una forma di cooperazione e collaborazione che permette di gestire il conflitto attraverso il problem-solving, tramite le fasi differenziate di definizione del problema; la proposta di soluzioni, evitando ogni valutazione; l’analisi delle proposte, con attenzione a tutti i messaggi verbali e non verbali di insoddisfazione; lo scegliere quella ritenuta migliore per entrambi; la messa in pratica con la verifica, per valutare se la soluzione è effettivamente funzionale per entrambi e se siano state rispettate tutte le condizioni poste, ricorrendo, in caso contrario, all’ascolto attivo o ai messaggi di confronto. E’ un metodo utile anche nella gestione dei conflitti nei gruppi, con l’acquisizione di un modello di comportamento volto alla collaborazione e al rispetto delle opinioni altrui e in cui si lavora tramite il brain-storming, che permetta ad ognuno di rendere esplicite e motivare le proprie idee. Può a volte capitare che si verifichino conflitti di valore, di modi di vedere, di ideali, in cui è impossibile, o per lo meno assai complessa, una risoluzione. Anche in questo caso non si può fare finta di nulla, ma l’educatore, che prende coscienza dell’impossibilità e inutilità di un intervento diretto, si rende più disponibile ad accettare le ragioni dell’altro e nello stesso tempo a dare l’esempio della utilità e importanza dei propri valori, con il proprio modo di vivere ed esplicitandone le motivazioni morali o pratiche (es: sentirsi bene, essere accettato dagli altri). All’interno di un contesto di fiducia e stima, determinato dal ricorso all’ascolto attivo e ai messaggi di confronto, l’educatore riesce facilmente a evitare minacce, punizioni o di utilizzare la forza e l’autorità del potere. Ciò non toglie che deve

99

utilizzare tali metodi nelle situazioni di emergenza o di pericolo, contenendo fisicamente e psicologicamente ogni espressione di violenza dell’utente. Il rispetto delle regole avviene per lo più in base all’autorità stabilita da un consenso condiviso, su impegni presi

Documenti correlati