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L’atteggiamento di base del terapeuta “ person-centered” sta nella convinzione che il paziente sia capace di far fronte alla sua situazione psicologica e di poter affrontare in modo costruttivo tutto ciò di cui diventa cosciente, nonostante questa consapevolezza sia spesso di natura percepita o intuitiva; per cui non stabilisce quali obiettivi il cliente debba raggiungere per migliorare. Anzi l’obiettivo del terapeuta è quello di favorire le condizioni in cui potranno operare le tendenze intrinseche dello stesso cliente nel confrontarsi con le esperienze problematiche, nell’esplorarle, nell’estrarre significati nuovi ed

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importanti e nel riorganizzare con creatività l’esperienza attuale per operare in modo più produttivo.

Nella sua forma tradizionale o “pura” di terapia centrata sul cliente, lo scopo del terapeuta è di essere un compagno di viaggio dell’auto- scoperta del cliente. In seguito Rogers divenne più esplicito circa la tendenza all’auto-realizzazione intesa come forza motivante al cambiamento del cliente. A questo seguì una maggiore precisione riguardo a ciò che il terapeuta avrebbe dovuto fare per sollecitare tale tendenza.

Rogers vede quali condizioni imprescindibili del terapeuta: congruenza, accettazione incondizionata ed empatia. L'empatia, nella teoria centrata sulla persona, è un processo attivo e immediato. Il terapeuta fa il massimo sforzo per entrare all'interno del mondo del

client, e per immedesimarsi negli atteggiamenti espressi, piuttosto che

osservarli soltanto, per cogliere ogni sfumatura della loro mutevole natura e lasciarsi assorbire completamente dagli atteggiamenti dell'altro. I terapeuti centrati sulla persona variano nella concezione del processo di comprensione empatica. Alcuni tendono a comunicare una comprensione soltanto di quello che il cliente desidera comunicare. A Rogers è sembrato giusto non soltanto chiarire i significati del quale il cliente è consapevole, ma anche quelli al di sotto del livello di consapevolezza.

Rogers insiste sul fatto che 1'empatia non è una tecnica di "riflessione dei sentimenti", bensì un modo di essere in cui il terapeuta è profondamente immerso nel mondo esperienziale del cliente.

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Altri termini per descrivere la considerazione positiva incondizionata sono: calore, accettazione, interessamento non permissivo, apprezzamento.

"Quando il terapeuta prova un atteggiamento positivo, non giudicante, accettante verso il cliente, comunque egli sia in quel momento, il cambiamento terapeutico è più probabile. Questo implica che il terapeuta accetti il cliente in qualunque stato d'animo egli si trovi, confusione, risentimento, paura rabbia, coraggio, amore, orgoglio... Quando il cliente si sente accettato dal terapeuta in modo totale, anziché condizionato, un progresso terapeutico diviene molto probabile" (Rogers 1986: 198).

Le radici di questa condizione offerta dal terapeuta si trovano profondamente racchiuse nella storia di questo approccio, che già mezzo secolo fa è stato chiamato terapia di relazione. Il terapeuta non fa nessuno sforzo per portare il cliente a conclusioni od azioni, ma gli dà piuttosto la più piena opportunità di esprimere sentimenti abitualmente inibiti, e di vedere ed accettare se stesso con tutti i propri limiti.

All'interno del rapporto l'individuo comprende come affrontare i problemi e come assumersi le proprie responsabilità. E' al centro di questo rapporto, con un counselor non critico e accettante, che il cliente “persegue una crescita emozionale fino allora impossibile, in quanto, in altre condizioni, si poneva in atteggiamento difensivo” (Rogers 1937: 240). Il terapeuta inoltre deve porsi in uno stato di congruenza, cioè di autenticità rispetto al cliente.

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“La crescita di una personalità, infatti, è facilitata quando il terapeuta è ciò che è, quando nel rapporto con il suo cliente è “autentico”, senza maschere, quando riflette apertamente i sentimenti e le disposizioni che fluiscono in lui in quel momento” (Rogers 1994: 57).

Il termine “congruenza” cerca di descrivere questa condizione. Esprime cioè l’idea che il terapeuta è disponibile ai propri sentimenti ed è perciò capace di viverli, di essere in rapporto con loro e di comunicarli, se opportuno. Vuol dire che il terapeuta

“entra in un rapporto personale diretto con il suo cliente, incontrandolo da persona a persona; vuol dire che è proprio se stesso, senza alcuna riserva”. (Rogers 1994: 57)

E’ molto difficile raggiungere questa condizione, tuttavia

“quanto più il terapeuta sa ascoltare con accettazione ciò che passa dentro di lui, quanto più sa gestire la complessità dei propri sentimenti, tanto più elevata è la sua congruenza”. (Rogers 1994: 90-91)

Oltre alla congruenza, alla comprensione empatica e alla considerazione positiva incondizionata i terapeuti devono, secondo Rogers, tener conto di ulteriori tre condizioni per gestire al meglio il rapporto con i pazienti:

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- il cliente è in uno stato di vulnerabilità o di ansia

- Il terapeuta comunica, a parole, al cliente, la propria empatia e comprensione positiva incondizionata.

Secondo alcune scuole di pensiero, perché una relazione d’aiuto sia efficace è sufficiente che il counselor abbia una certa competenza cognitiva, sia puntuale alle sedute, presti attenzione ai contenuti portati dal cliente, riesca a essere consapevole e a non lasciarsi trascinare dai propri pregiudizi. Ma queste scuole non sempre spiegano adeguatamente come il counselor debba elaborare le proprie tematiche personali, quasi che egli sia un’entità astratta o che il processo stesso del counseling gli consenta di entrare in una condizione esistenziale particolare in cui egli può prescindere dalle proprie problematiche. Accade invece spesso che, quando il processo di counseling sembra non funzionare il problema riguardi proprio il counselor, vissuti personali, sentimenti non elaborati, visione del mondo e modo di gestire se stesso nella relazione con l’ambiente.

Ecco qualche esempio di interferenze: la noia percepita dal terapeuta spesso non dipende da ciò che il cliente racconta (o dal modo in cui lo fa), ma dal fatto che il counselor stesso arriva alla seduta stanco, magari dopo aver lavorato per molte ore senza essersi concesso spazi e tempi per recuperare le proprie energie. Al momento della seduta, quindi, egli non è più recettivo: ecco che qualunque cosa gli arrivi dal cliente non può trovare risposte vitali da parte sua, ma solo una sorta di spossatezza.

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incongruenza nella sua vita quotidiana e costruisca un’ “armatura provvisoria” per difendere i propri vissuti personali (un tradimento nella vita di coppia, un problema economico o la preoccupazione per la salute di una persona cara). In tal caso, tra lui e il cliente si interpone come un velo attraverso il quale il counselor si protegge dal peso del non detto e che però viene percepito, dal client, come noia. Alcuni

counselor tendono a prendersi tutta la responsabilità del processo e,

invece di stare con l’altro, tendono a portarlo dove vogliono loro, spendendo in questo iper-interventismo tutta la loro energia, con un risultato di reciproca insoddisfazione: il cliente non riesce a esprimersi e ad andare dove vorrebbe; il counselor si sente frustrato per la resistenza che il paziente gli oppone.

Può esserci anche un problema di sovraempatia: alcuni counselor tendono a “invadere” il cliente con i loro sentimenti, travolgendoli con responsi verbali ed emozionali che sono al di là di ciò che l’altro ha la capacità o il desiderio di ricevere. Potrebbe capitare, per esempio, che il cliente racconti eventi drammatici della propria vita, senza tuttavia entrare in contatto con la paura e il dolore, e che il counselor non si limiti a un rispecchiamento ma reagisca in modo emotivo, addirittura con un pianto.

Sarebbe questa una forma di sovra-empatia che non solo potrebbe andare oltre le capacità di contenimento del cliente, ma che egli potrebbe anche fraintendere, interpretandolo come un “mi fai pena”. A volte può capitare che il cliente cerchi, in modo inconsapevole, di collocare il professionista nello spazio funzionale ai suoi bisogni e

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dato che il counselor è una persona e ha anche lui delle aree d’inconsapevolezza, può a sua volta colludere senza rendersene conto (collusione = coillusione). Casi di collusione possono presentarsi principalmente a: professionisti della relazione d’aiuto neo-diplomati, legittimamente insicuri e bisognosi di conferme sulle proprie capacità professionali, che hanno accettato i lavorare con un cliente in crisi, senza troppo riflettere.

Nella relazione di counseling il cliente, con le sue tensioni e le sue difficoltà, non è in grado di tollerare quelle parti di sé che non ha potuto elaborare e sicuramente esse hanno anche degli effetti su ciò che la persona porta come problema. Queste parti non sono né consapevoli, né controllabili e possono essere solo spostate dentro un "oggetto" esterno, il counselor. Egli diventa quindi "contenitore", e nel momento in cui pone in atto la sua capacità di ricevere, contenere e aiutare a portare alla consapevolezza le proiezioni del cliente, può elaborarle e restituirle come parti che gli appartengono.

Come già detto, anche il professionista è una persona con aree d’inconsapevolezza. Esiste anche la possibilità, quindi, che il

counselor non sia in grado di accettare e di contenere le proiezioni di

alcuni clienti che, con la loro intensità o tipologia, possono fargli riemergere problematiche personali non risolte. Tutto questo non è da attribuirsi solo all’inesperienza del counselor; si tratta piuttosto di normali e fisiologici processi di transfert e controtransfert che:

a) avvengono anche in un percorso di counseling;

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personale sia formativa.

L’importante è non negare, evitare, minimizzare, giustificare dubbi ed eventuali difficoltà e porsi delle domande. Il counselor può depositare la propria emotività nel supervisore (che funge da "contenitore") e ritornare in contatto con la reazione emozionale provata nella situazione col cliente. Il supervisore, grazie alla maggiore esperienza, competenza, capacità e oggettività, potrà far cogliere al

counselor l'origine della sua reazione emozionale, aiutandolo a sentirla

e ad elaborarla. Se il counselor, in questi casi, non si rifacesse ad un supervisore, i suoi sentimenti, non elaborati, potrebbero contaminare la congruenza; infatti, in assenza di consapevolezza la congruenza è superficiale e limitata alle parti di noi di cui siamo consapevoli. D’altra parte, se siamo consapevoli dei nostri sentimenti ma li “mettiamo da parte”, saremo necessariamente non congruenti. In entrambi i casi, congruenza e trasparenza diventerebbero nelle mani del counselor strumenti estremamente pericolosi, perché sarebbero gravati dal peso dei suoi tratti nevrotici e dunque non solo non potrebbero essere adeguatamente “responsive” rispetto al cliente, ma tenderebbero, al contrario, a essere “responsive” rispetto alle tematiche personali del

counselor: materiali indigeriti, tossici per sé, per l’altro e per la

relazione e stimolerebbero il cliente non tanto a far chiarezza nel proprio sentire quanto a condividere con il counselor le proprie illusioni (“Vuoi lasciare tuo marito? Anch’io vorrei lasciare il mio, ma

non me ne sto dando il permesso!” oppure: “Accidenti, è mio marito a voler lasciare me!”).

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Se non ha lavorato sufficientemente su di sé il counselor rischia di diventare un “tecnico” la cui possibilità di efficacia è seriamente compromessa dalle proprie ferite e limiti personali. Se non si è disintossicato dalla sua storia passata, il counselor porterà le sue tossine nella relazione, e questo lo indurrà a percepire in maniera distorta ciò che gli viene dall’altro. In particolare, potrà ritenere appropriati o inappropriati certi atteggiamenti del cliente non sulla base di un sistema percettivo sano, equilibrato e libero, le cui leggi sono dettate dalla logica dell’evoluzione e quindi adeguate alla situazione, ma sulla base delle proprie ferite e difese personali cristallizzate. Se per esempio ha avuto una madre fredda o un padre particolarmente repressivo, sarà portato, seppur involontariamente, a giudicare come inopportuna l’espressività di una persona che ha ricevuto degli input diversi. Lo stesso tipo di dinamica si verifica molto spesso quando il cliente è uno straniero, dunque una persona che ha vissuto in un sistema culturale, sociale e geografico che gli ha indotto una visione del mondo completamente diversa da quella nostra del terapeuta. Ecco perché, quando come counselor si riceve uno straniero nel proprio studio, è necessario fare un atto di umiltà: stare in contatto con se stessi e sospendere il giudizio.

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