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Le teorie rogersiane nell' insegnamento delle lingue straniere moderne

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Academic year: 2021

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INDICE

Indice Pag. 2

Prefazione ’’ 5

Capitolo I

1.1 Vita e studi di Carl Rogers ’’ 10 1.1.1 Aspetti innovativi del pensiero rogersiano ’’ 14 1.2 La psicologia umanistica ’’ 15 1.3 La terapia centrata sul cliente ’’ 21 1.4 Il rapporto cliente – terapeuta ’’ 33 1.4.1 Le qualità del terapeuta ’’ 36

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3 Capitolo II

Introduzione Pag. 45

2.1 Apprendimento della lingua materna e delle lingue seconde

’’ 47

2.2 Metodi, approcci e tecniche dell’insegnamento della L2

’’ 49

2.3 L’approccio comunicativo ’’ 52 2.4 Gli approcci umanistico – affettivi ’’ 56 2.4.1 La Total Physical Response (TPR) ’’ 58

2.4.1.1 Il bio - programma ’’ 58

2.4.1.2 La lateralizzazione ’’ 60

2.4.1.3 L’attivazione della memoria a lungo termine ’’ 63

2.4.1.4 L’assenza di stress ’’ 64

2.4.2 La suggestopedia ’’ 65

2.4.3 Il Silent Way ’’ 69

2.4.4 La Strategic Interaction ’’ 72 2.4.5 Il Natural Approach ’’ 75

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4 Capitolo III

Introduzione Pag. 78

3.1 Il Community Language Learning ’’ 79 3.2 Il metodo integrato Gordon ’’ 83

Conclusioni ’’ 101

Bibliografia ’’ 103

Sitografia ’’ 111

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Introduzione

Ogni azione d’insegnamento per essere efficace, deve essere un’azione di “cuore”, fatta con il cuore: è questa l’idea che anima il presente lavoro, nato dal desiderio di rielaborare e organizzare una serie di riflessioni maturate nel corso degli anni dal mio insegnamento nella scuola primaria. Come maestra ho avuto modo di osservare e indagare aspetti della relazione educativa che spesso sfuggono a una declinazione teorica, e che rappresentano invece il punto di forza (o di debolezza) di ogni insegnamento. Il riferimento è, in primo luogo, al ruolo giocato dalla componente affettiva non solo all’interno del rapporto tra insegnante e alunno, ma anche nell’approccio che ogni docente ha verso la sua professione.

L’itinerario di riflessione si è sviluppato e ampliato nel corso del tempo, alimentato da una duplice esigenza: da un lato, quella di ripercorrere le tappe del mio, fin qua, breve viaggio come maestra tra le classi di scuola primaria, percorso che mi ha portato a comprendere quanto sia forte, da parte dei bambini, il bisogno di sentirsi accolti, di essere guidati e spronati a vivere la propria dimensione emotiva senza timore di essere giudicati, condannati o colpevolizzati; dall’altro, quella di venire incontro al disagio che vivono gli insegnanti, sempre più demotivati e stanchi e spesso incapaci di provare piacere nella

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didattica quotidiana. Sia da parte mia che di molti altri docenti viene avvertita infatti, ormai quotidianamente, l’esigenza di un cambiamento, di un rinnovamento che possa portare a recuperare la motivazione, il senso della propria professione, quel desiderio di insegnare che si traduce in passione, cura, attenzione e che spinge a reinventarsi ogni giorno, a de-costruirsi e a ri-progettarsi continuamente, non solo come docente, ma innanzitutto come persona. Ritengo che l’insegnante non sia un mero applicatore di teorie apprese, un tecnico del sapere, un semplice esecutore, bensì un professionista capace di mettersi in gioco e di intraprendere quel viaggio verso la conoscenza, che prevede percorsi originali, sollecitati dalla curiosità e dalla passione, successi e fallimenti, gioie e sofferenze, sempre attento a sottrarre gli alunni a quella routine didattica polverosa e noiosa che cristallizza i pensieri e inaridisce i sensi.

Diventare insegnanti, specie nella scuola primaria, implica l’assunzione di una responsabilità che si traduce nella formula “Mi curo di...”, una cura che non ha a che fare solo con la formazione e con il processo di apprendimento, ma che attiene anche e soprattutto alla crescita della persona umana; non ci si può prendere cura di un alunno, senza investire sentimento, oltre che conoscenza, nella relazione educativa.

Come pensare, infatti, che la scuola possa ancora mantenere saldo il suo ruolo di polo educativo nell’epoca delle “passioni tristi”, se i docenti mancano degli strumenti e della volontà di leggere tra le righe

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degli atteggiamenti espliciti e, soprattutto, di quelli impliciti dei loro alunni, per entrare in contatto con loro e stabilire una relazione educativa autentica? Per cercare di intercettare i loro bisogni nel tentativo, non facile, di trasformare le “passioni tristi” (che sono realtà per tutti e non solo per gli adolescenti) in “passioni gioiose”? Non bastano le conoscenze, non basta possedere un ampio repertorio di strategie didattiche (non più, non oggi che le famiglie appaiono sempre più disorientate e bisognose di sostegno), ma occorre immaginare (e quindi realizzare) una didattica che punti a recuperare il sentimento, in quanto atto e modo del sentire, a riconoscere e ad accettare le proprie emozioni, in modo da sottrarre gli alunni a processi di omologazione e aiutarli a riconoscersi come persone irripetibili nella loro unicità.

Il costante contatto con i bambini ha accresciuto in me la convinzione che ogni processo di insegnamento/apprendimento, per essere efficace, deve darsi all’interno di una relazione educativa autentica, che non si esaurisce in uno scambio di informazioni tra docente e alunno, ma trova la sua piena realizzazione nel momento in cui diventa condivisione di idee, di propositi e anche di sentimenti, quando appunto cadono le barriere della vergogna e della diffidenza, quando il parlare si fa franco e sincero.

Un tipo di insegnamento che si propone di unire alla competenza professionale il “cuore” richiede che il docente sappia farsi interprete delle dinamiche affettive, sia del gruppo classe che dei singoli alunni, in modo da progettare interventi didattici che tengano in

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considerazione anche l’importante ruolo che l’emozione e il sentimento svolgono nell’ apprendimento e nella relazione educativa. Nel presente lavoro vengono analizzate alcune delle più famose ed efficaci metodologie in grado di rendere l’apprendimento, anche quello linguistico, più efficace e proficuo, tenendo conto dell’emotività e dei sentimenti.

Nel primo capitolo, prenderemo in esame la figura di Karl Rogers, fondatore della psicologia umanistica, e le su teorie relative alla relazione client- counselor e vedremo come alcune tecniche tipiche della “terapia centrata sul cliente” possano essere utilizzate in ambito scolastico per creare in classe un clima sereno e disteso che faciliti l’apprendimento di una lingua straniera.

Nel secondo capitolo, passeremo in rassegna le principali tecniche glottodidattiche degli approcci umanistico-affettivi, la cui caratteristica è di enfatizzare l’importanza di tutti quei fattori psico-affettivi che concorrono a rendere il clima della classe “stress-free” e a facilitare il processo di apprendimento linguistico. Fanno parte degli approcci umanistico-affettivi: la Total Physical Response di Asher, con la quale si cerca di ridurre al minimo l’ansia e lo stress tipici dell’apprendimento linguistico in ambiente non naturale, la Suggestopedia di Lozanov, dove viene messa in risalto la grande efficacia della suggestione nei processi di apprendimento-insegnamento, la Silent Way di Gattegno, che assegna all’insegnante un ruolo prevalentemente silenzioso, la Strategic Interaction di Di Pietro, basata sul presupposto che le parole e le strutture linguistiche

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utilizzate dal parlante hanno un valore strategico, funzionale cioè al raggiungimento di obiettivi e progetti personali, il Natural Approach di Krashen, che tiene conto dell’ordine naturale di apprendimento che accomuna l'acquisizione di una prima e di una seconda lingua.

Nel terzo capitolo, infine, ci soffermeremo sul Community Language

Learning di Curran e sul Metodo integrato di Gordon. Il primo si ispira

direttamente alla psicologia umanistica di Rogers e al counseling rogersiano. Riportato sul piano pedagogico-linguistico, il metodo suggerisce che il rapporto ottimale da instaurare tra insegnante e allievo è analogo a quello che si stabilisce fra counselor e client; l’apprendente alle prese con i problemi e le difficoltà insite nell’apprendimento scolastico di una seconda lingua viene cioè in qualche modo equiparato al client in sede psicoterapeutica. Il metodo di Gordon, nato prima all’interno delle organizzazioni imprenditoriali e poi applicato alla relazione genitore/figlio e a quella insegnante/allievo, attribuisce centralità alla relazione, e offre agli educatori professionali la possibilità di impostare i propri interventi in qualsiasi area questi si collochino.

Questa apertura del metodo a tutti gli ambiti educativi è implicita nella tesi di Gordon: “più importante del messaggio e dei contenuti che si vogliono comunicare è il modo in cui gli stessi vengono trasmessi, è la capacità di entrare in relazione con l’altro, è la qualità della relazione”.

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CAPITOLO PRIMO

Carl Rogers, la psicologia umanista e la terapia centrata

sul cliente

1.1 Vita e studi di Carl Rogers

Carl Rogers nacque l’ 8 gennaio 1902 nell’ Illinois, ad Oak Park, un quartiere ad ovest di Chicago, da una famiglia molto unita, che fu capace di trasmettergli valori profondi sia nella relazione con se stesso sia in quella con le altre persone. Importante furono anche i rapporti che Rogers ebbe con il sacro e con la natura, ed è forse per questa ragione che prima s’iscrisse ad Agraria, successivamente ad una Facoltà teologica. Nel 1914, insieme alla famiglia, si trasferi’ in una fattoria dove sia lui che i suoi cinque fratelli si dedicarono alla coltivazione dei campi ed all’allevamento di animali. Proprio qui

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nacque il suo interesse prima per l’agricoltura scientifica e poi per la scienza in generale. Nel 1922 si trasferì in Cina per circa sei mesi, insieme ad un gruppo di studenti americani, per partecipare ad una conferenza internazionale organizzata dalla Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani. Entrando in contatto con una cultura così diversa dalla sua Rogers poté mettere a fuoco il suo bisogno di libertà di pensiero e il suo interesse per le scienze psicologiche. Per questo, appena rientrato negli Stati Uniti, abbandonò gli studi religiosi per intraprenderne altri di carattere psicopedagogico. In questo suo percorso fu guidato da autori come: William James, Goodwin Watson, Harrison Elliot e William Kilpatrik. Fece un anno di internato presso

l’Institute for Child Guidance di New York dove la Psicologia veniva

insegnata attraverso metodi oggettivi, risultando così esclusivamente scientifica, fredda e distante. Questo tipo di insegnamento pragmatico si rivelò comunque importante successivamente, cioè nel momento in cui Rogers si servì di dimostrazioni scientifiche del suo metodo di lavoro.

Dopo la laurea, per più di dieci anni esercitò la professione di psicologo presso alcune istituzioni sociali che si occupavano della rieducazione di bambini e adolescenti delinquenti e/ o ritardati e del sostegno alle loro famiglie. Il suo scopo principale era quello di essere d’aiuto a queste persone; egli infatti sentiva che la prassi psicologica tradizionale aveva poca incidenza nel recupero dei ragazzi.

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Nonostante qualche insuccesso a partire dal 1924 iniziò a mettere a fuoco, e a sviluppare, quello che sarebbe stato il suo approccio psicoterapeutico. Scrive a tale riguardo:

“Per i primi otto anni fui completamente immerso nell’esercizio di un servizio psicologico pratico, facevo diagnosi ed indicavo i mezzi di rieducazione per ragazzi delinquenti e ritardati che venivano inviati dai tribunali e dai centri sociali…..; fu un periodo di relativo isolamento professionale, durante il quale mio unico interesse era quello di riuscire ad aiutare i clienti. Fui costretto a fronteggiare molti insuccessi, e ciò mi costrinse ad imparare. Avevo un solo criterio per giudicare qualsiasi metodo di trattare con questi bambini e coi loro genitori ed era: “è efficace quello che faccio?”. Mi rendo conto che cominciai allora a sviluppare i miei punti di vista dall’esperienza di ogni giorno”. ( www.studioafis.it )

Nel 1924, contro il volere della sua famiglia, Rogers decise di sposare Helen Elliot da cui avrà due figli: David e Natalie. Rimase per 12 anni a New York, lavorando al Child Study Department di Rochester; all’inizio adottò un approccio impersonale (somministrazione di test, anamnesi, colloqui), ma cambiò successivamente direzione, preferendo l’ascolto e ponendosi in una posizione più “umile” rispetto a quella dell’esperto. Vi è da dire che questa forma di lavorare sarà stimolata anche dalle teorie di Otto Rank. Nel 1924 Rogers si trasferì a Chicago dove rimase per dodici anni e dove creò il Counselling Center, in cui utilizzava le sue teorie.

Nel 1939 ottenne una cattedra in Psicologia clinica nell’ Ohio, dove insegnò seguendo le sue teorie, cioè un approccio che non è tanto quello di risolvere il problema, ma di aiutare la persona a maturare in

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modo che sappia affrontare da sola i problemi attuali e quelli che si presenteranno in futuro. È però nell’anno successivo, cioè nel 1940, durante un congresso all’ università del Minnesota, che il suo approccio venne conosciuto e riconosciuto come innovativo.

Nel 1957 ottenne la cattedra di Psicologia e psichiatria all’ Università del Wisconsin e si trovò così ad insegnare in un dipartimento di psichiatria, in cui i casi erano sicuramente differenti da quelli che aveva trattato sino a quel momento; da qui prese vita la sfida: verificare se le sue teorie potessero essere efficaci anche nei casi di psicosi. Nacque così quella che fu definita la Ricerca del Wisconsin con gli schizofrenici cronici dell’ Ospedale Mendoza: in sintesi ciò che si dimostrò fu che empatia ed accettazione da parte del terapeuta erano caratteristiche importantissime per il miglioramento del paziente.

Nel 1964 però Rogers lasciò la cattedra all’ Università del Winsconsin per trasferirsi in California al Western Behavioural

Science Institute di La Jolla dove alcuni anni più tardi fondò insieme

ad alcuni colleghi il Center for the Study of the Person, punto d’incontro e di scambio di idee e pareri destinato a professionisti che in tutto il mondo seguivano “l’approccio centrato sulla persona”.

Successivamente Rogers fondò l’ Institute of peace, istituto per lo studio e la risoluzione dei conflitti, un punto d’incontro fra pensieri diversi (rappresentanti dell’est e dell’ ovest del mondo, cattolici e protestanti di Belfast, neri e bianchi del Sudafrica). Per questo grande

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impegno a favore del benessere, Rogers vincerà nel 1987 il premio Nobel per la pace.

Il 7 febbraio 1987 Rogers, a causa di un attacco cardiaco, muore.

1.1.1 Aspetti innovativi del pensiero rogersiano

La teoria di Rogers si basa sulla sua grande e importante esperienza clinica. Egli infatti prende le distanze dal pensiero freudiano secondo cui l’identità soggettiva non si identifica con la coscienza e la ragione; la struttura psichica effettiva dell’uomo è determinata, secondo Freud stesso, dall’inconscio. Rogers infatti considera la salute mentale come la progressione normale della vita e la malattia mentale come distorsione della “tendenza attualizzante” cioè della tendenza fondamentale dell’organismo, nella sua totalità, a mettere in pratica le proprie potenzialità, le quali, per poter funzionare, hanno bisogno di un contesto di relazioni umane positive, favorevoli alla conservazione e alla valorizzazione dell’Io. Se c’è corrispondenza tra ciò che il soggetto crede di possedere e quello che effettivamente possiede, egli sarà congruente e la persona potrà svilupparsi in modo unitario, autonomo e soddisfacente. In genere invece il cliente, così chiama Rogers il paziente, si trova in una situazione di incongruenza tra l’esperienza reale e l’immagine di sé che egli ha quando si rappresenta l’esperienza.

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Secondo Rogers, il terapeuta ( o counselor), nel promuovere il processo di modificazione della personalità del paziente (o client), deve ricorrere non a tecniche specifiche o a interpretazioni, ma all’ “empatia”, concetto fondamentale dell’impianto rogersiano. L’ “empatia” (da empatia, passione) viene concepita come la comprensione dell’altro che si realizza immergendosi nella sua soggettività, senza però sconfinare nell’identificazione. Il terapeuta deve essere anche in grado di mettere in atto un approccio di “accettazione positiva e incondizionata” del paziente, accettando ogni suo aspetto, espresso o non espresso, negativo o positivo. Solo se sarà in grado di non dare giudizi il terapeuta potrà avere una comprensione empatica di quanto il paziente sente a livello cosciente. Rogers sottolinea che il terapeuta dovrebbe sentire il mondo dell’altro come se fosse il proprio, senza perdere di vista mai la qualità del “come se”. La particolare attenzione per il paziente diventa una delle caratteristiche principali del nuovo orientamento di studi noto come “psicologia umanistica”, del quale parleremo nel prossimo paragrafo.

1.2 La psicologia umanistica

Nell’ ambito di un indirizzo che, a grandi linee, viene definito fenomenologico - esistenziale, convergono gli apporti di numerosi autori che si caratterizzano per direzioni conoscitive differenziate le quali possono essere solo in parte assimilate. Si tratta di contributi che

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cercano di riportare al centro dell’indagine psicologica la sfera della soggettività e dell’ esperienza vissuta (Caprara, G.V., Gennaro, A., 1994). Nasce così nel 1962 la psicologia umanistica o “psicologia della terza forza”, fortemente sostenuta da un gruppo di psicologi (Maslow, Rogers, May) riunitesi in un’Associazione americana della psicologia umanistica (AAHP). Questa nuova visione della mente umana costituì uno degli orientamenti più originali esistenti in campo psicologico, sia per la riflessione critico- filosofica sull’essenza dell’uomo sia per i nuovi spunti offerti nella pratica clinica. È stata definita psicologia delle terza forza perché ha messo in luce una teoria della natura umana che ha portato ad una rivoluzione del pensiero psicologico rispetto agli orientamenti esistenti in quel periodo storico nel mondo accademico e nella pratica clinica, dove l’essere umano veniva visto in modo scisso e frammentario e venivano trascurati gli elementi fondamentali di una personalità sana e consapevole: intenzionalità, creatività, libero arbitrio.

La psicologia umanistica amplia il campo di osservazione dell’ essere umano introducendo una serie di atteggiamenti:

1) la concentrazione dell’attenzione sulla persona, sull’ esperienza quale strumento essenziale degli studi sull’uomo;

2) l’importanza attribuita all’individuo, percepito come essere globale, unico e irripetibile;

3) la funzione centrale della consapevolezza, in quanto qualità non esclusivamente intellettuale, ma anche radicata nell’esperienza emotiva;

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4) il concetto di esperienza come processo attivo e continuo in cui l’organismo è coinvolto, e rispetto al quale la proiezione verso il futuro appare più importante di quanto non sia la registrazione del passato;

5) il particolare interesse su aspetti diversi dell’ esperienza umana come la libertà di scelta, la spinta creativa e l’autorealizzazione; 6) l’attribuzione di priorità, nella selezione dei problemi e dei

metodi di ricerca, al bisogno di significatività rispetto a quello di una mera oggettività;

7) la convinzione del fatto che il carattere dinamico e interattivo della vita psichica implica che il comportamento non è determinato in modo meccanicistico:

8) la fiducia nella democrazia come schema di vita comune, aperta alla realizzazione di forme sempre più umane di esistenza; 9) la valorizzazione della dimensione etica e della dignità della

persona e l’interesse allo sviluppo del potenziale in essa latente; 10) l’aspirazione all’armonizzazione con l’universo, inteso

come totalità dei rapporti possibili con la natura e con gli altri uomini.

Questa nuova corrente di pensiero fu fortemente influenzata da una parte significativa di intellettuali europei che contribuì a modificare in maniera determinante l’ambiente culturale americano suscitando un immediato interesse verso i nuovi fermenti.

Nei primi tempi la psicologia umanista ebbe maggiore rilievo più come tentativo di affermazione di un nuovo modo di fare terapia, al

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quale potevano contribuire professionisti e studiosi di varie provenienze accomunati dalla stessa esigenza di rinnovamento della pratica psicoterapeutica, che dal voler fissare un nuovo paradigma o modello prettamente teorico. Fu Rogers a delineare le caratteristiche di questo nuovo tipo di approccio:

a) in primo luogo gli “umanisti” decidono di rendere oggetto principale della loro indagine l’uomo sano. Attendendo a ciò che è tipicamente umano e maturo nell’uomo considerano come provvisorio e non definitivamente rilevante ciò che proviene dalla ricerca su animali (su cui principalmente poggiava il comportamentismo) o dall’esperienza con casi clinici (su cui è, ad esempio, costruita la psicoanalisi);

b) tra le caratteristiche tipicamente umane si considera come centrale la capacità di conoscere se stessi e la realtà. Essi ritengono che l’uomo sano non sia guidato da impulsi ciechi, ma da “intenzioni”, ossia da motivi destati nell’ uomo dalla percezione della realtà. Tale percezione rivela alla persona che la realtà è perfettamente in linea con essa e le prospetta così possibilità di sviluppo e realizzazione che diventano scopi nella sua condotta. Si parla in questo senso di una teoria cognitiva della motivazione;

c) poiché la persona sana possiede intenzioni, essa è anche protesa più agli scopi futuri che ai traumi passati, più al “bene” da raggiungere che agli impulsi da placare. La psicologia umanistica ha perciò una concezione proattiva della personalità.

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La persona è così vista come principale sorgente della sua condotta, come attiva, dotata di iniziativa e non come prodotto degli impulsi impersonali o dell’ambiente. Alla base di quest’attività originale c’è la capacità di elaborare in modo autonomo le conoscenze, formando sistemi significativi da cui emergono le intenzioni generali.

Rogers, pur adottando il concetto di autorealizzazione quale obiettivo esistenziale dell’essere umano, ne aveva sottolineato sia l’ aspetto processuale (la crescita) sia il carattere di tendenza formativa operante in tutto l’uomo. Ad un livello individuale, dunque, la tendenza attualizzante di Rogers è una tendenza innata degli individui a svilupparsi formando delle strutture di vita più differenziate e integrate.

In sintesi, la psicologia umanistica si caratterizza per: 1) l’attenzione per la persona, nella sua globalità,

2) la valorizzazione della dimensione etica, della libertà di scelta, della spinta creativa e della dignità della persona,

3) spostamento del focus dall’ uomo malato all’ uomo sano con un significativo ribaltamento nella concezione di “salute” e di “malattia”.

La psicologia umanistica è da considerarsi dunque una psicologia della salute, intesa come sviluppo e accrescimento delle potenzialità della persona. Naturalmente questo nuovo orientamento ha avuto profonde ripercussioni anche sul piano personale e professionale dello psicologo umanista: sul piano personale egli accetta e valorizza la propria umanità; sul piano professionale, quindi nella pratica

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psicoterapeutica, in cui il ruolo del terapeuta non è più quello del “tecnico-riparatore” di una disfunzione, ma piuttosto quello di “terapeuta-filosofo” che guida il processo di riorganizzazione dell’intera esistenza del client, attraverso la costruzione di un progetto di vita più autentico.

Secondo Rogers, ogni individuo possiede forti spinte verso la crescita, la salute, l'adattamento; verso cioè quello che viene definito realizzazione di sé (tendenza attualizzante). Non si tratta di una forza solo umana: Rogers la scopre anche in alcune alghe che riescono a crescere sugli scogli della California, resistendo all’impeto delle onde con la flessibilità del loro fusto. In quelle alghe, come in ogni essere vivente, c’è una forte volontà di vivere, di conservare e migliorare l’organismo, di esplorare l’ambiente e di modificarlo.

L’uomo possiede un’ energia che lo spinge naturalmente verso ciò che è il suo bene, quando non viene ostacolata. Compito della psicoterapia è quello di eliminare gli ostacoli e consentire a questa forza di operare. Dal momento che l’individuo ha in sé le risorse per guarire, dovrà essere egli stesso al centro del processo terapeutico: per questo la psicoterapia rogersiana si chiama “centrata sul cliente”. Lo stare sulla difensiva, l'ansia, le tensioni bloccano queste spinte e la persona perde il contatto con sé, la sua autenticità. I problemi psicologici derivano dal fatto che la persona ha assorbito idee, pensieri, sentimenti valori degli altri, non funzionali al proprio vivere; scopo della terapia è allora quello di aiutare le persone a riprendere il contatto con se stesse, con la propria autenticità, i veri sentimenti e

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valori, accettandosi per quello che si è.

1.3 La terapia centrata sul cliente

“La Terapia Centrata sul Cliente (TCC) si basa su teorie psicologiche cosiddette organismiche” (Antiseri 1983: 668- 669) e adatta una prospettiva olistica,

dal momento che l’essere umano e il suo ambiente sono considerati come un tutt’uno.

Il singolo individuo, l’essere umano, nella totalità della sua esistenza storica, appare guidato da motivazioni che lo spingono all’ autorealizzazione: il motore della condotta umana è costituito dall’intrinseca tendenza dell’organismo a realizzare le proprie potenzialità. Nella teoria di Rogers un riferimento costante viene fatto a una forza di base “che ha una direzione fondamentale positiva” (Rogers 1994: 44- 45). L’ambiente, più che essere considerato come un insieme di fattori che condizionano lo sviluppo dell’uomo, viene concepito come un contesto nel quale l’individuo tende a realizzarsi in maniera “naturale”. Solo quando l’ambiente diventa carente, stressante o minaccioso, l’organizzazione dell’individuo si frantuma e il suo sviluppo risulta alterato nella sua autorealizzazione, evidenziando così la “patologia”. (Rogers 1994: 46)

I problemi psicologici non dipendono né da credenze né da percezioni sbagliate, e non sono neanche comportamenti inadeguati e inappropriati in conformità a tali credenze e percezioni errate. La

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disfunzionalità si manifesta quando non si riesce ad imparare dal feedback, per cui si persiste nella propria percezione sbagliata o nel comportamento inadeguato.

La disfunzionalità non è altro che un’incapacità ad imparare e a cambiare. Dunque per Rogers, due sono le cause correlate con questa incapacità:

- incongruenza

- incapacità d’essere in processo

Per quanto riguarda l’incongruenza, questa si ha quando il paziente non riesce né a differenziare adeguatamente le componenti del sé (sé organismico o reale che è la fonte di tutti i bisogni, sé percepito che ci mette in contatto con i bisogni, sé ideale dove si simbolizzano tutte le esperienze che emanano dal sé percepito), né a stabilire tra di esse un'adeguata armonia, mentre nell’incapacità di essere in processo il

client non è capace di comportamenti finalizzati e non sa darsi degli

obiettivi, risponde passivamente all'influenza dell'ambiente o alle sue pulsioni interiori, e non è in grado di compiere scelte autonome.

All’inizio della terapia il cliente si trova in uno stato di mancata corrispondenza tra l’immagine che ha di sé e quello che ritiene di essere ed il suo bisogno di autorealizzazzione: sfruttare cioè a pieno le sue facoltà mentali, intellettive e fisiche in modo da percepire che le proprie aspirazioni sono congruenti e consone con i propri pensieri e con le proprie azioni. L'autorealizzazione richiede caratteristiche di personalità molto particolari. Secondo Maslow le caratteristiche di personalità che deve avere una persona per raggiungere questo

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importante obiettivo sono: realismo, accettazione di sé, spontaneità, inclinazione a concentrarsi sui problemi piuttosto che su di sé, autonomia e indipendenza, apprezzamento delle cose e delle persone, capacità di avere esperienze profonde, capacità di avere rapporti umani positivi.

La struttura del sé si forma sulla base delle interazioni ambientali, in particolare come effetto dell'interazione valutativa con gli altri (Mead: 1934). Essa è una forma concettuale organizzata, fluida ma coerente, di percezioni delle caratteristiche e delle relazioni del sé, insieme con i valori annessi a questi concetti. L’importanza attribuita all’esperienza ed i valori facenti parte della struttura del sé sono sia sperimentati direttamente dall'organismo sia assunti da altri come se essi fossero stati sperimentati direttamente. La consapevolezza della differenziazione dei valori precedentemente citati permette lo sviluppo del concetto di sé. Poiché lo sviluppo del sé è determinato significativamente dalle valutazioni altrui (Kohut 1977; Stolorow, Atwood 1992), s’instaura un processo attraverso il quale la persona prova un forte bisogno di considerazione positiva che può indurlo a valutare le proprie esperienze anche in modo difforme da un processo nel quale gli individui effettuano valutazioni basandosi liberamente su quanto avvertono a livello sensoriale. Questo si distingue da un sistema fisso di valori caratterizzati dal dover essere e dal dover fare e da quanto è comunemente considerato giusto o sbagliato. Questo viene chiamato processo di valutazione organismico ed è congruente con l'ipotesi centrata sulla persona di una fiducia fondamentale

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nell'individuo e che, anche se i valori personali sono stabiliti dall'individuo stesso, essi hanno per effetto un grande senso di responsabilità sociale.

Il senso di responsabilità deriva dal fatto che le persone scelgono, sulla base della propria valutazione diretta delle situazioni, anziché secondo la paura del giudizio altrui o secondo insegnamenti esterni sul come pensare ed agire. (Winnicott: 1965).

La considerazione positiva ha, dunque, un ruolo estremamente importante per uno sviluppo pieno della personalità. Può, infatti, determinarsi una grave frattura nell'esperienza dell'individuo quando la considerazione positiva dell'ambiente, verso la quale ciascuno è portato istintivamente, è fortemente condizionata in direzioni opposte alle proprie spontanee tendenze verso l'autorealizzazione. Può darsi, d'altro canto, che l'individuo riceva dal proprio ambiente una considerazione positiva incondizionata, cioè libera da quelle “condizioni di merito” che agiscono negativamente sullo sviluppo della personalità. In tali casi, sentirsi stimato e accettato incondizionatamente corrisponde al fluire dell'esperienza in accordo con il processo di valutazione organismica, e perciò in accordo con la tendenza all'autorealizzazione. Quando, invece, la considerazione positiva è condizionata, la percezione (se non la consapevolezza) dell'esperienza diventa dicotomica: le esperienze valutate positivamente e che sono congruenti con il sé vengono percepite e accuratamente integrate; le esperienze, invece, che sono valutate negativamente, e che sono conflittuali (cioè non congruenti), sono

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ignorate o distorte ed escluse dalla coscienza. Quando esiste uno stato di disaccordo interno tra il vissuto e il concetto di sé, la personalità non è più strutturata in un’unità coerente ed integrata ma risulta soggetta all'esperienza di una minaccia ed è caratterizzata da un senso di disagio e di ansia. In tali situazioni, la necessità di mantenersi coerenti con il proprio concetto di sé attiva processi di difesa come la distorsione e/o la negazione dell'esperienza, che hanno come conseguenza il mantenere inalterato lo stato di incongruenza del sé ed impediscono la simbolizzazione della conoscenza.

Per approfondire, diciamo che, a causa del bisogno di considerazione positiva di sé, l’individuo ha una modalità di valutazione condizionata e, in funzione di questo condizionamento, il vissuto sarà percepito in modo selettivo; questo comporta che le esperienze possano essere non simbolizzate o simbolizzate in maniera distorta a seconda che mettano o meno in pericolo il concetto di sé che si è venuto formando in relazione con l’altro:

• le esperienze conformi sono percepite e simbolizzate correttamente (simbolizzazione corretta);

• alcune esperienze non conformi sono percepite in maniera selettiva o deformate per renderle conformi (simbolizzazione distorta);

• alcune esperienze non conformi non sono percepite in alcun modo (mancata simbolizzazione).

Per concludere questo primo punto, non essendo tutte le esperienze simbolizzate correttamente nella coscienza o incorporate nella nozione

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del sé, avremo uno stato d’incongruenza e di distacco interno fra il sé e il vissuto e quindi di vulnerabilità e malfunzionamento psichico, viene cioè a strutturarsi un processo di difesa che scatta ogni volta che le esperienze vengono percepite come minacciose e che opera attraverso la distorsione percettiva dei dati della realtà. La persona che è costretta a ricorrere alla difesa, non ha più un contatto realistico e diretto con la sua esperienza e diventa perciò incongruente.

Per quanto riguarda poi il secondo punto, e cioè l’incapacità di essere in processo, è stato rilevato (Bohart 1990) che non è la discrepanza che crea una disfunzionalità, bensì il modo in cui la persona risponde per cercare di risolverla. Più in generale si può affermare che la disfunzione è prodotta da un unico fattore scatenante, quale può essere l’incongruenza teorizzata da Rogers. La principale fonte di disfunzione è ritenuta l’incapacità di percepire correttamente tutti i bisogni del sé. Il conflitto, secondo questo approccio non è dunque tra conscio e inconscio o tra ciò che è morale e ciò che è immorale, ma tra differenti organizzazioni di sé.

I motivi del grande successo della terapia centrata sul cliente vanno innanzitutto ricercati nel fatto che, come abbiamo già detto, l'approccio rogersiano non pretende di imporre grandi sistemi teorici ma semplicemente di proporre la crescita e la maturazione del singolo e dei gruppi attraverso una modificazione salutare, costruttiva e profonda dei rapporti interpersonali, basata sulla partecipazione affettiva (empatia), sull'abbandono dei ruoli stereotipati e sulla responsabilizzazione di ciascuno. Non vi è dubbio che questo

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approccio interpersonale ha trasformato non solo il mondo della psicoterapia, ma anche quello dell'educazione, del lavoro, dello sport, dell'assistenza medica e sociale; perché ha consentito agli operatori di stabilire rapporti autentici e genuini con se stessi e con i propri pazienti. Vi è anche un ulteriore motivo del successo terapeutico di questa terapia: essa non è un sistema statico e chiuso, ma un insieme dinamico di teorie e di ipotesi che, in quanto tali, sono esplicitamente formulate in modo provvisorio e vengono mantenute sino a quando ricerche più esaurienti avranno potuto meglio definirle o smentirle.

Come detto precedentemente, la terapia centrata sul cliente viene

applicata anche nelle scuole e in altri settori educativi e formativi, è per questo che si parla anche di “approccio centrato sulla persona”; il pensiero di fondo è che tutti gli esseri umani, considerati come persone, possano imparare ad ascoltarsi di più, a comunicare meglio ad avere quindi un migliore contatto con se stessi e con gli altri per essere più efficaci nelle comunità di apprendimento e in quelle di lavoro.

"Il sistema creato da Rogers non è solamente una formulazione circa la struttura della personalità ed un metodo psicoterapeutico, è anche un approccio, un orientamento ed una visione della vita. In questo senso è giusto parlare di "Psicologia Rogersiana" [...] Una buona terapia Centrata sul Cliente, è un'avventura ed una ricerca portata avanti da due esseri umani: il cliente ed il terapeuta". (Zucconi 2003)

Rogers non individua principi indiscutibili, ma una serie di osservazioni tratte dall’esperienza le quali possono a loro volta aiutarci

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a comprendere le nostre esperienze. Non serve a nulla assumere una facciata nei rapporti interpersonali: la nostra educazione ci impone di mascherare spesso le nostre emozioni per offrire all’altro una faccia che non risulti sgradevole. Secondo Rogers questo è un errore che non porta a nulla di buono; è importante, invece, essere sé stessi ed accettarsi. Perché questo sia possibile non bisogna farsi troppo condizionare da ciò che gli altri dicono di noi, bisogna fare attenzione ai giudizi degli altri, ma non dobbiamo permettere che ci mandino in crisi, altrimenti ciò ci impedirà di essere noi stessi.

Anche nel rapporto terapeutico, il client non si affida passivamente al counselor, ma ci sono due persone (client e counselor) che fanno insieme un percorso di crescita. Ciò significa, come abbiamo già detto, che il client sarà responsabile del proprio cambiamento sia nel corso della futura terapia che nella sua vita.

L’esperienza del cliente, quella del terapeuta e il presente immediato della loro relazione sono al centro dell'attenzione in ogni incontro, lo psicoterapeuta tenta di collocare il proprio "lavoro" il più vicino possibile all'esperienza del cliente nella relazione presente, tenendo conto di come il client è in quel momento, con le sue idee, relazioni, valori.

La fiducia, intesa come convinzione personale della correttezza di qualcosa (o qualcuno), e come convinzione profonda di fondatezza e verità che non può essere forzata, è molto importante nella relazione

client – counselor.

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affidabilità e responsabilità che si è maturata di quel tale, significa che si è stabilita una relazione interpersonale basata sulla comunicazione e sulla condivisione di valori ed esperienze. La relazione di fiducia deve essere sempre reciproca. Tutto ciò comporta la rottura con l'immagine e la funzione tradizionale del terapeuta come esperto dei problemi del cliente. Al contrario, il terapeuta si considera collaboratore e compagno che cresce insieme al client in un processo di incontro da

persona-a-persona. Un'altra caratteristica fondamentale di questa

terapia è che la teoria ed il linguaggio devono essere vicini all'esperienza colloquiale. L'essenza più evidente di questi presupposti è che non vi è una teoria o un linguaggio standard, ai quali doversi adattare, non vi è una verità oggettiva a cui dover fare riferimento, l'unica verità è il vissuto della persona in difficoltà.

L'attenzione è focalizzata sulla dimensione esistenziale del rapporto che si instaura ed è proprio la qualità del rapporto che permette alle persone ed ai gruppi di comunicare efficacemente, risolvere problemi, esprimere al massimo le proprie potenzialità, crescere. Lo sviluppo della personalità e l'integrazione determinano una capacità crescente di vivere appieno il momento; di avere un'immagine di sé meno distorta, meno difensiva e più completa (con una percezione più adeguata sia dei fenomeni sia dei cambiamenti dell'esperienza) e di vivere le relazioni in modo più realistico. La teoria centrata sulla persona si interessa molto di più dei processi che delle strutture.

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Praticare la psicoterapia, non significa fare qualcosa al soggetto, né convincerlo a fare qualcosa per sé; si tratta invece di liberarlo perché possa crescere e svilupparsi in modo normale, e di rimuovere ostacoli in modo che possa andare avanti.”

(Rogers 1942: 63)

E aggiunge:

La maggior parte degli errori che faccio nelle relazioni interpersonali, la maggior parte dei fallimenti cui sono andato incontro nella mia professione, si possono spiegare col fatto che, per qualche motivo di difesa, mi sono comportato in un modo, mentre in realtà sentivo in un modo del tutto diverso”. (Rogers 1951:

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Una delle caratteristiche di Rogers è il suo stile trasparente e personalizzato, (scrive infatti in prima persona); un sistema che contrasta con quello accademico (che utilizza in genere la terza persona). Questa sua modalità comunicativa inizia fin dalla prefazione di La terapia centrata sul cliente. A tal proposito Rogers stesso scrive:

Questo libro tratta delle esperienze vissute in modo squisitamente personale da ciascuno di noi. Parla del cliente che siede nel mio studio lottando per essere se stesso ed è nello stesso tempo mortalmente spaventato di essere se stesso, del cliente che tenta di vedere la sua esperienza così com’è, desidera di essere quell’esperienza ed è terrorizzato nello stesso tempo da tale prospettiva” (Rogers

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E aggiunge:

“Questo libro parla di me mentre sto con questo singolo cliente, confrontandomi con lui, partecipando a quella sua lotta nel modo più profondo di cui io sia capace.

Parla dei miei tentativi di percepire la sua esperienza vissuta e del significato e dell’aroma che questa esperienza ha per lui”. ( Rogers 1951: 5)

Sebbene il gruppo di lavoro di Rogers incorse in insuccessi (Rogers, Russell 2002), per “ingenuità” scientifica e soprattutto per l’ostracismo del Dipartimento di Psichiatria e Psicologia dell’Università del Winsconsin, la terapia centrata sul cliente ha dimostrato negli anni la sua efficacia in molte condizioni psicopatologiche, rivelandosi particolarmente adatta a trattare le donne, le minoranze, le persone di diverso orientamento sessuale e le persone provenienti da altre culture, proprio per il suo carattere “aperto”, non “scientista”, ma umanistico e situazionato. Augusto Polmonari e Jan Rombauts notano in proposito:

“La terapia centrata sul cliente non è un sistema statico e chiuso, ma un insieme dinamico di teoria e di ipotesi che, in quanto tali, sono dichiaratamente formulate in modo provvisorio e vengono mantenute solamente sino a quando ricerche più esaurienti avranno potuto meglio precisarle”. (Polmonari, Rombauts 1994: 9)

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“Il maggior valore di una teoria, definita in termini non equivoci, consiste nel fatto che si possono trarre da essa ipotesi specifiche suscettibili di essere provate o confutate. Così, anche se le condizioni che ho postulato necessarie e sufficienti si dimostrassero quasi del tutto inesatte (cosa che spero non avvenga), potrebbero tuttavia far progredire la scienza in questo campo fornendo un punto di riferimento sulla base del quale distinguere ciò che è scientificamente vero da ciò che non lo è. (Rogers 1994: 60)

Sono proprio le caratteristiche di dinamismo e di fedeltà ai fatti che rendono la terapia rogersiana uno strumento di interpretazione della realtà aperto e stimolante”. (Polmonari, Rombauts 1994: 10)

Il terapeuta deve assomigliare ad un ricercatore e non ad un “funzionario”, o comunque

ad un mero esecutore, deve considerare il rapporto medico-paziente quale momento centrale dell’intervento terapeutico, superando il ruolo magico-paternalistico tradizionale e ponendosi in un autentico atteggiamento di parità col malato.

“Rogers sottolinea sempre, ed in termini espliciti, che non vi è aiuto quando non vi è un rapporto diretto, da persona a persona, ed aggiunge che questo rapporto diretto non è possibile quando chi vuole aiutare si irrigidisce in un ruolo professionale predeterminato!” (Polmonari, Rombauts 1994: 16)

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33 1.4 Il rapporto cliente – terapeuta

Come abbiamo già detto, il concetto base su cui si fonda la teoria rogersiana della personalità è l’ immagine di organismo inteso nella globalità psico-fisica, di un tutto organizzato che interagisce con la realtà; l'organismo non può essere scisso in parti separate, è un tutto irriducibile a semplici parti. Il terapeuta riconosce nel cliente non solo un essere umano al quale rapportarsi con rispetto ed empatia, ma anche una persona che può essere per se stessa lo strumento migliore di esperienza e di crescita. Questo porta ad un’ accettazione

incondizionata del cliente da parte del terapeuta. Infatti:

“più l’individuo è capito ed accettato profondamente, più tende a lasciar cadere le false “facciate” con cui ha affrontato la vita e più si muove in una direzione positiva, di miglioramento”. (Rogers 1994: 45)

La direzione verso cui il cliente muove i propri passi, nella ricerca della condizione essenziale di liberazione dei falsi concetti del sé, non può essere indicata dal terapeuta, poiché l’azione di quest’ultimo deve basarsi sul principio della “non direttività”. Rogers, in generale, consiglia di limitarsi a dare al cliente solo risposte che possano rendergli più chiaro il significato dei suoi sentimenti, o di quanto afferma. Per aiutare il soggetto a comprendere meglio se stesso e la propria situazione, il terapeuta deve sforzarsi di creare un rapporto permissivo, e si dovrà perciò astenere dal fornire qualsiasi giudizio.

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Nella relazione d’aiuto e nel conseguente processo di modificazione del cliente, non valgono criteri esterni di descrizione, ma criteri interni al cliente stesso in base a ciò che viene via via sperimentando.

“Tutto ciò si basa ovviamente sul rispetto della persona umana, ma anche e soprattutto sulla fiducia nelle sue potenzialità”. (Palmonari, Rombauts 1970: 14)

Come già detto, un’altra componente importante dell’atteggiamento del terapeuta verso il paziente è lo sforzo per una completa comprensione empatica dei suoi problemi, specie di quelli che emergono nella sua esperienza attuale. I sentimenti del cliente vanno compresi dal “di dentro”, sforzandosi di vedere e vivere il suo mondo come lui stesso lo percepisce e lo sperimenta.

“Sentire il mondo del cliente “come se” fosse nostro, senza però mai perdere questa qualità del “come se”, questa è empatia; sentire l’ira, la paura, il turbamento del cliente, come se fossero nostri, senza però aggiungerci la nostra ira, il nostro turbamento, questa è la condizione che tentiamo di descrivere” (Rogers 1994: 57)

Un’altra condizione è che il cliente percepisca in qualche modo il senso di parità, di accettazione e di empatia che il terapeuta si sforza di porre in essere. Se non vi sono comunicazioni riguardanti tali atteggiamenti, il processo terapeutico non può avere inizio in senso proprio. Un altro dato importante è rappresentato dall’esperienza

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attuale (experiencing). Essa è correlata al processo totale della vita soggettiva, cioè allo scorrere continuo di sentimenti impliciti o espliciti, di stati preconcettuali o concettuali: in ogni momento, infatti, in ciascuno di noi esistono concetti e sentimenti di cui siamo consapevoli e altri al di sotto del livello di consapevolezza. A questo continua corrente di sentimenti attingiamo per rifornire di significati il nostro presente; essa è strettamente legata “al dato sentito immediatamente e che è implicitamente significativo […]

al sentimento che un soggetto prova nell’avere un’esperienza. Quando mi chiedo: Che tipo di esperienza attuale è questa?. Vi è sempre una risposta implicita anche se ancora non è stata concettualizzata una risposta esplicita” .(Rogers 1978: 45-48)

Si può rilevare una notevole differenza nel modo di sperimentare di ciascun soggetto, a seconda degli stadi in cui si trova nel processo continuo di modificazione e di crescita. Ad un estremo si osserva la rigidità di chi è incapace di vivere l’esperienza con immediatezza: i significati personali giungono a consapevolezza, ma poiché il distacco da quanto si prova è grande, essi vengono formulati in maniera impersonale. All’altro estremo si trova l’accettazione piena di quanto si prova nel presente, anche di sentimenti in precedenza negati. Gli stadi intermedi sono caratterizzati dall’ “intellettualizzazione”, a vari livelli, dal raccontare troppo o dall’eccessivo riflettere in ciò che si prova in un determinato momento, dal timore di sperimentare con immediatezza le situazioni. Questo continuum intermedio termina

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proprio con l’accettazione totale prima menzionata, cioè quei momenti in cui quello che si sente coincide con quello che si pensa. Rogers e Kinget (1970: 86) notano in proposito:

“Nello stadio più avanzato del continuum, vivere con immediatezza quanto si prova è la caratteristica più rilevante del processo di terapia”.

Aggiungono inoltre:

“In questi momenti il sé è la coscienza riflessa di quel che si prova e la volontà è la conseguenza naturale del significato di questo fluire di referenti interiori. Il soggetto, a questo stadio, è un processo fluido di esperienze accettate ed integrate”. (Rogers, Kinget 1970: 88)

1.4.1 Le qualità del terapeuta

L’atteggiamento di base del terapeuta “ person-centered” sta nella convinzione che il paziente sia capace di far fronte alla sua situazione psicologica e di poter affrontare in modo costruttivo tutto ciò di cui diventa cosciente, nonostante questa consapevolezza sia spesso di natura percepita o intuitiva; per cui non stabilisce quali obiettivi il cliente debba raggiungere per migliorare. Anzi l’obiettivo del terapeuta è quello di favorire le condizioni in cui potranno operare le tendenze intrinseche dello stesso cliente nel confrontarsi con le esperienze problematiche, nell’esplorarle, nell’estrarre significati nuovi ed

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importanti e nel riorganizzare con creatività l’esperienza attuale per operare in modo più produttivo.

Nella sua forma tradizionale o “pura” di terapia centrata sul cliente, lo scopo del terapeuta è di essere un compagno di viaggio dell’auto-scoperta del cliente. In seguito Rogers divenne più esplicito circa la tendenza all’auto-realizzazione intesa come forza motivante al cambiamento del cliente. A questo seguì una maggiore precisione riguardo a ciò che il terapeuta avrebbe dovuto fare per sollecitare tale tendenza.

Rogers vede quali condizioni imprescindibili del terapeuta: congruenza, accettazione incondizionata ed empatia. L'empatia, nella teoria centrata sulla persona, è un processo attivo e immediato. Il terapeuta fa il massimo sforzo per entrare all'interno del mondo del

client, e per immedesimarsi negli atteggiamenti espressi, piuttosto che

osservarli soltanto, per cogliere ogni sfumatura della loro mutevole natura e lasciarsi assorbire completamente dagli atteggiamenti dell'altro. I terapeuti centrati sulla persona variano nella concezione del processo di comprensione empatica. Alcuni tendono a comunicare una comprensione soltanto di quello che il cliente desidera comunicare. A Rogers è sembrato giusto non soltanto chiarire i significati del quale il cliente è consapevole, ma anche quelli al di sotto del livello di consapevolezza.

Rogers insiste sul fatto che 1'empatia non è una tecnica di "riflessione dei sentimenti", bensì un modo di essere in cui il terapeuta è profondamente immerso nel mondo esperienziale del cliente.

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Altri termini per descrivere la considerazione positiva incondizionata sono: calore, accettazione, interessamento non permissivo, apprezzamento.

"Quando il terapeuta prova un atteggiamento positivo, non giudicante, accettante verso il cliente, comunque egli sia in quel momento, il cambiamento terapeutico è più probabile. Questo implica che il terapeuta accetti il cliente in qualunque stato d'animo egli si trovi, confusione, risentimento, paura rabbia, coraggio, amore, orgoglio... Quando il cliente si sente accettato dal terapeuta in modo totale, anziché condizionato, un progresso terapeutico diviene molto probabile" (Rogers 1986: 198).

Le radici di questa condizione offerta dal terapeuta si trovano profondamente racchiuse nella storia di questo approccio, che già mezzo secolo fa è stato chiamato terapia di relazione. Il terapeuta non fa nessuno sforzo per portare il cliente a conclusioni od azioni, ma gli dà piuttosto la più piena opportunità di esprimere sentimenti abitualmente inibiti, e di vedere ed accettare se stesso con tutti i propri limiti.

All'interno del rapporto l'individuo comprende come affrontare i problemi e come assumersi le proprie responsabilità. E' al centro di questo rapporto, con un counselor non critico e accettante, che il cliente “persegue una crescita emozionale fino allora impossibile, in quanto, in altre condizioni, si poneva in atteggiamento difensivo” (Rogers 1937: 240). Il terapeuta inoltre deve porsi in uno stato di congruenza, cioè di autenticità rispetto al cliente.

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“La crescita di una personalità, infatti, è facilitata quando il terapeuta è ciò che è, quando nel rapporto con il suo cliente è “autentico”, senza maschere, quando riflette apertamente i sentimenti e le disposizioni che fluiscono in lui in quel momento” (Rogers 1994: 57).

Il termine “congruenza” cerca di descrivere questa condizione. Esprime cioè l’idea che il terapeuta è disponibile ai propri sentimenti ed è perciò capace di viverli, di essere in rapporto con loro e di comunicarli, se opportuno. Vuol dire che il terapeuta

“entra in un rapporto personale diretto con il suo cliente, incontrandolo da persona a persona; vuol dire che è proprio se stesso, senza alcuna riserva”. (Rogers 1994: 57)

E’ molto difficile raggiungere questa condizione, tuttavia

“quanto più il terapeuta sa ascoltare con accettazione ciò che passa dentro di lui, quanto più sa gestire la complessità dei propri sentimenti, tanto più elevata è la sua congruenza”. (Rogers 1994: 90-91)

Oltre alla congruenza, alla comprensione empatica e alla considerazione positiva incondizionata i terapeuti devono, secondo Rogers, tener conto di ulteriori tre condizioni per gestire al meglio il rapporto con i pazienti:

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- il cliente è in uno stato di vulnerabilità o di ansia

- Il terapeuta comunica, a parole, al cliente, la propria empatia e comprensione positiva incondizionata.

Secondo alcune scuole di pensiero, perché una relazione d’aiuto sia efficace è sufficiente che il counselor abbia una certa competenza cognitiva, sia puntuale alle sedute, presti attenzione ai contenuti portati dal cliente, riesca a essere consapevole e a non lasciarsi trascinare dai propri pregiudizi. Ma queste scuole non sempre spiegano adeguatamente come il counselor debba elaborare le proprie tematiche personali, quasi che egli sia un’entità astratta o che il processo stesso del counseling gli consenta di entrare in una condizione esistenziale particolare in cui egli può prescindere dalle proprie problematiche. Accade invece spesso che, quando il processo di counseling sembra non funzionare il problema riguardi proprio il counselor, vissuti personali, sentimenti non elaborati, visione del mondo e modo di gestire se stesso nella relazione con l’ambiente.

Ecco qualche esempio di interferenze: la noia percepita dal terapeuta spesso non dipende da ciò che il cliente racconta (o dal modo in cui lo fa), ma dal fatto che il counselor stesso arriva alla seduta stanco, magari dopo aver lavorato per molte ore senza essersi concesso spazi e tempi per recuperare le proprie energie. Al momento della seduta, quindi, egli non è più recettivo: ecco che qualunque cosa gli arrivi dal cliente non può trovare risposte vitali da parte sua, ma solo una sorta di spossatezza.

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incongruenza nella sua vita quotidiana e costruisca un’ “armatura provvisoria” per difendere i propri vissuti personali (un tradimento nella vita di coppia, un problema economico o la preoccupazione per la salute di una persona cara). In tal caso, tra lui e il cliente si interpone come un velo attraverso il quale il counselor si protegge dal peso del non detto e che però viene percepito, dal client, come noia. Alcuni

counselor tendono a prendersi tutta la responsabilità del processo e,

invece di stare con l’altro, tendono a portarlo dove vogliono loro, spendendo in questo iper-interventismo tutta la loro energia, con un risultato di reciproca insoddisfazione: il cliente non riesce a esprimersi e ad andare dove vorrebbe; il counselor si sente frustrato per la resistenza che il paziente gli oppone.

Può esserci anche un problema di sovraempatia: alcuni counselor tendono a “invadere” il cliente con i loro sentimenti, travolgendoli con responsi verbali ed emozionali che sono al di là di ciò che l’altro ha la capacità o il desiderio di ricevere. Potrebbe capitare, per esempio, che il cliente racconti eventi drammatici della propria vita, senza tuttavia entrare in contatto con la paura e il dolore, e che il counselor non si limiti a un rispecchiamento ma reagisca in modo emotivo, addirittura con un pianto.

Sarebbe questa una forma di sovra-empatia che non solo potrebbe andare oltre le capacità di contenimento del cliente, ma che egli potrebbe anche fraintendere, interpretandolo come un “mi fai pena”. A volte può capitare che il cliente cerchi, in modo inconsapevole, di collocare il professionista nello spazio funzionale ai suoi bisogni e

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dato che il counselor è una persona e ha anche lui delle aree d’inconsapevolezza, può a sua volta colludere senza rendersene conto (collusione = coillusione). Casi di collusione possono presentarsi principalmente a: professionisti della relazione d’aiuto neo-diplomati, legittimamente insicuri e bisognosi di conferme sulle proprie capacità professionali, che hanno accettato i lavorare con un cliente in crisi, senza troppo riflettere.

Nella relazione di counseling il cliente, con le sue tensioni e le sue difficoltà, non è in grado di tollerare quelle parti di sé che non ha potuto elaborare e sicuramente esse hanno anche degli effetti su ciò che la persona porta come problema. Queste parti non sono né consapevoli, né controllabili e possono essere solo spostate dentro un "oggetto" esterno, il counselor. Egli diventa quindi "contenitore", e nel momento in cui pone in atto la sua capacità di ricevere, contenere e aiutare a portare alla consapevolezza le proiezioni del cliente, può elaborarle e restituirle come parti che gli appartengono.

Come già detto, anche il professionista è una persona con aree d’inconsapevolezza. Esiste anche la possibilità, quindi, che il

counselor non sia in grado di accettare e di contenere le proiezioni di

alcuni clienti che, con la loro intensità o tipologia, possono fargli riemergere problematiche personali non risolte. Tutto questo non è da attribuirsi solo all’inesperienza del counselor; si tratta piuttosto di normali e fisiologici processi di transfert e controtransfert che:

a) avvengono anche in un percorso di counseling;

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personale sia formativa.

L’importante è non negare, evitare, minimizzare, giustificare dubbi ed eventuali difficoltà e porsi delle domande. Il counselor può depositare la propria emotività nel supervisore (che funge da "contenitore") e ritornare in contatto con la reazione emozionale provata nella situazione col cliente. Il supervisore, grazie alla maggiore esperienza, competenza, capacità e oggettività, potrà far cogliere al

counselor l'origine della sua reazione emozionale, aiutandolo a sentirla

e ad elaborarla. Se il counselor, in questi casi, non si rifacesse ad un supervisore, i suoi sentimenti, non elaborati, potrebbero contaminare la congruenza; infatti, in assenza di consapevolezza la congruenza è superficiale e limitata alle parti di noi di cui siamo consapevoli. D’altra parte, se siamo consapevoli dei nostri sentimenti ma li “mettiamo da parte”, saremo necessariamente non congruenti. In entrambi i casi, congruenza e trasparenza diventerebbero nelle mani del counselor strumenti estremamente pericolosi, perché sarebbero gravati dal peso dei suoi tratti nevrotici e dunque non solo non potrebbero essere adeguatamente “responsive” rispetto al cliente, ma tenderebbero, al contrario, a essere “responsive” rispetto alle tematiche personali del

counselor: materiali indigeriti, tossici per sé, per l’altro e per la

relazione e stimolerebbero il cliente non tanto a far chiarezza nel proprio sentire quanto a condividere con il counselor le proprie illusioni (“Vuoi lasciare tuo marito? Anch’io vorrei lasciare il mio, ma

non me ne sto dando il permesso!” oppure: “Accidenti, è mio marito a voler lasciare me!”).

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Se non ha lavorato sufficientemente su di sé il counselor rischia di diventare un “tecnico” la cui possibilità di efficacia è seriamente compromessa dalle proprie ferite e limiti personali. Se non si è disintossicato dalla sua storia passata, il counselor porterà le sue tossine nella relazione, e questo lo indurrà a percepire in maniera distorta ciò che gli viene dall’altro. In particolare, potrà ritenere appropriati o inappropriati certi atteggiamenti del cliente non sulla base di un sistema percettivo sano, equilibrato e libero, le cui leggi sono dettate dalla logica dell’evoluzione e quindi adeguate alla situazione, ma sulla base delle proprie ferite e difese personali cristallizzate. Se per esempio ha avuto una madre fredda o un padre particolarmente repressivo, sarà portato, seppur involontariamente, a giudicare come inopportuna l’espressività di una persona che ha ricevuto degli input diversi. Lo stesso tipo di dinamica si verifica molto spesso quando il cliente è uno straniero, dunque una persona che ha vissuto in un sistema culturale, sociale e geografico che gli ha indotto una visione del mondo completamente diversa da quella nostra del terapeuta. Ecco perché, quando come counselor si riceve uno straniero nel proprio studio, è necessario fare un atto di umiltà: stare in contatto con se stessi e sospendere il giudizio.

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CAPITOLO SECONDO

Dagli approcci glottodidattici comunicativi agli approcci

umanistico affettivi

Introduzione

In una società complessa e articolata come quella attuale l’apprendimento di una lingua straniera diventa un’esigenza per la maggior parte dei cittadini. L’apertura delle frontiere, causa di una maggiore diffusione dei mass-media e di nuove tipologie di professioni, comporta una padronanza linguistica molteplice e completa. Per raggiungere tali scopi e per permettere che i cittadini di una comunità siano linguisticamente pronti ad affrontare, senza

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difficoltà alcuna, gli ostacoli derivanti dalla comunicazione in L2, è bene che già da bambini si inizi uno studio sistematico ed approfondito di una lingua straniera e che la stessa glottodidattica, concepita come scienza in grado di rispondere alle esigenze che si evolvono e si succedono nel tempo in una comunità linguistica, ponga particolare attenzione alla formazione dei singoli individui

.

Nell’ambito dell’insegnamento linguistico si sono succedute differenti teorie didattiche appartenenti ad eterogenee correnti di pensiero, le quali non possono essere vagliate unicamente come positive o negative; ognuna di esse, infatti, ha contribuito alla realizzazione delle nuove tecniche d’insegnamento promosse oggi nella stessa comunità europea. La tendenza generale attuale è quella di proporre agli studenti che cominciano ad apprendere una lingua, un percorso mirato verso la scoperta delle proprie potenzialità, ottenute attraverso il lavoro e la riflessione. Questa visione tende quindi ad abbandonare la concezione di proporre modelli d’insegnamento uniformi, unici e validi per tutti; piuttosto il percorso linguistico diventa un modo per scoprire e conoscere le proprie risorse, nel tentativo di apprezzarle e rafforzarle costantemente. Non a caso, dunque, sempre maggiore importanza è stata attribuita al ruolo dell’apprendente e ai fattori esterni (input linguistico, fattori sociali) ed interni (età, fattori affettivi, stili cognitivi, motivazione, attitudine) che potrebbero condizionare la buona riuscita del suo apprendimento. In questo capitolo verranno presentate le tendenze degli attuali programmi glottodidattici, i quali rivolgono particolare attenzione agli

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approcci detti umanistico-affettivi, sperimentati già negli anni Sessanta, e che hanno tra gli obiettivi comuni quello di considerare il discente principalmente come una persona che agisce in un contesto glottodidattico attraverso la sua stessa personalità, azionando processi psico-affettivi che intervengono nella comunicazione.

2.1 Apprendimento della lingua materna e delle lingue seconde

La caratteristica distintiva del processo di apprendimento della lingua madre (L1) è quella di procedere contemporaneamente allo sviluppo cognitivo e sociale del bambino, mentre nell'apprendimento di una seconda lingua (L2) i presupposti cognitivi di base dell'apprendente sono già dati. Un bambino non procede infatti dalla lingua ai significati, ma dai significati, dalla comprensione di ciò che vuole dire, alla lingua: egli normalmente impara le parole in base alle situazioni che comprende. Prima apprende l'elemento di significato, solo successivamente la parola. L'apprendimento della L1 avviene tramite un processo di riduzione della complessità, in cui il bambino non fa attenzione alla morfologia e utilizza parole di contenuto, formule e frasi fatte. La lingua viene appresa lentamente e tramite esperienze simili tra loro e fatte in interazione con parlanti esperti. Il processo di apprendimento di una L2 è condizionato da alcuni fattori:

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