• Non ci sono risultati.

Una metodologia per la storia del discorso politico *

La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.

Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza parole.

Italo Calvino, Lezioni americane, 1988

1. IL PARADIGMA DI CAMBRIDGE.

«Dopo colazione ci imbarcammo per Sky. Pioveva fitto quando partimmo, ma schiarì a mano a mano che andavamo avanti. Uno dei barcaioli, che parlava inglese, disse che un miglio a terra era due mi-glia in mare. Osservai allora che da Glenelg ad Annidale sull'isola di Sky, che era il nostro tragitto, ed era detto di dodici miglia, ce n'era-no in realtà solo sei; ma egli n'era-non riuscì a capirlo. Bene, disse il dott. Johnson, non parlatemi mai dell'originario buon senso di quelli delle Highlands. Ecco qui un tizio che chiama due miglia un miglio, e però

* Ringrazio Marco Geuna e Adriana Lai per l'intelligenza e la pazienza con cui hanno letto il testo e hanno suggerito un enorme numero di correzioni e sollevato rilevanti proble-mi concettuali.

120 MARIA LUISA PESANTE

non riesce a capire che dodici di quelle miglia immaginarie sono in realtà solo sei»1.

Quella mattina del 2 settembre 1773, sulla barca per Sky, il dott. Johnson era zuppo di pioggia e ancora arrabbiato per un

contrattem-po del giorno precedente, ma il problema che gli contrattem-poneva il barcaiolo con il suo ondeggiare tra una concezione assolutamente realista e una concezione assolutamente convenzionalista del miglio era uno degli interessi costitutivi del suo viaggio nelle terre alte scozzesi e nelle Ebridi, occasione di una perplessità profonda e non di malumore pas-seggero. Nel suo resoconto del viaggio una storia diversa da quella raccontata nel diario di Boswell, ma con la stessa valenza emblemati-ca, viene collocata sulla fatale isola di Sky. «La mia curiosità sui

bro-gu'es [una sorta di scarponi di pelle rozzamente conciata] mi diede un primo esempio dell'informazione che si può ottenere nelle High-lands. Un giorno mi fu detto che fare i brogues era un lavoro domesti-co, che ognuno esercitava per se stesso, e che per fare un paio di

bro-gues occorreva un'ora. Immaginai che l'uomo fecesse i brogues come la donna faceva un grembiale, finché il giorno dopo non mi fu detto che fare i brogues era un mestiere, e che un paio poteva costare mezza corona. Verrà in mente che questi due racconti possono essere en-trambi veri, e che da qualche parte li comprano e da qualche altra se li fanno da sé; ma i due resoconti mi furono fatti nella stessa casa, nel giro di due giorni»2.

Samuel Johnson sarebbe stato un antropologo non indulgente, di quelli che di fronte a rendiconti dei nativi fattualmente o logicamen-te incompatibili tra di loro non si rispondono che questo per l'appun-to è il modo locale di vedere le cose e che esigenze di compatibilità fattuale e deduzione logica sono un'indebita sovrapposizione. Di fronte ai selvaggi del nord individuò con irritazione, ma non senza comprensione, il problema di come si indaga una società, un sistema culturale, in cui più informazione si raccoglie meno conoscenza si ot-tiene; ed era abbastanza simpatetico da percepire che spesso le rispo-ste assurde erano reazioni a domande improprie. Il fatto che i selvag-gi fossero suoi concittadini, sia pure ai marselvag-gini del regno, lo metteva naturalmente in una posizione che era insieme interna ed esterna.

1 SAMUEL JOHNSON A joumey to the Western islands of Scotland - JAMES BOSWELL,

The journal afa tour to the Hebrides, Harmondsworth, 1984, pp. 240-241. Annidale è lo spelling di Boswell; poco oltre uso quella attuale di Armadale.

METODOLOGIA PER LA STORIA DEL DISCORSO POLITICO 121 Per questa ragione il racconto del suo incontro con menti altre che gli raccontano in maniera disgiunta e incoerente il proprio mon-do, che è insieme coeso e irrimediabilmente spaccato (due anni più tardi James Anderson scriverà che nelle Highlands non si crede né alla giustizia del clan né a quella dello stato), è un ottimo modello dei problemi che incontrano, nel tentativo di ricostruire mondi mentali del passato, tutti gli storici che pensano che la storia sia un paese stra-niero e non la propria famiglia due generazioni prima (se si tratta di qualche generazione in più non importa, tanto abbiamo conservato sia le lettere sia i merletti). L'osservatore cerca di capire come si fan-no le cose nel paese straniero, ma i resoconti che ne ricava sofan-no con-tradditori; lungi dallo spiegargli le pratiche, gli pongono il problema del linguaggio. E il linguaggio è ambiguo; lungi dal consentirgli di ca-pire il significato mediante l'uso, lo pone di fronte a usi che, se appli-cati a fini interpretativi, definirebbero un mondo fisicamente impos-sibile. Nella stragrande maggioranza dei casi lo storico non può più andare a misurare quante miglia ci sono tra Glenelg e Armadale (il lettore tragga da sé le conclusioni del fatto che sono quindici miglia, di terra, il miglio terrestre essendo pari a 5280 piedi e il miglio mari-no a 6080). Lo storico del paese straniero mari-non ha mezzi di accesso privilegiati. Non sa la lingua e non capisce i discorsi, e spesso non può vedere direttamente le attività (la preparazione del cibo è di quelle che si possono vedere meglio, e perciò il dott. Johnson, come tutti gli antropologi, ci racconta molto del cibo scozzese, mentre non riuscì mai a vedere né qualcuno che si facesse i brogues né un mercato dove venisse venduto a quello stravagante prezzo il frutto di un'ora di lavoro).

Non è meraviglia perciò che il modello concettuale dell organizza-zione della ricerca sia stato cercato dagli storici in questo secolo sem-pre più spesso nella disciplina di coloro che si sono specializzati in paesi stranieri. Non meraviglia neppure che il campo nel quale è stata meno diffusa tra gli storici la tendenza, o la capacità, di trattare come straniero il passato è stato quello delle grandi tradizioni intellettuali dell'Europa moderna3. Più di trent'anni orsono Jack Hexter si

la-3 La frase è vera solo se viene presa alla lettera, senza estensioni: c'è stata un'attività enormemente vivace volta a creare un atteggiamento di estraniazione soprattutto rispetto alla continuità con i nostri progenitori antichi. Ma non è stata generalmente diffusa, salvo che nell'antichistica; e spesso è stata condotta da parte di studiosi che non sempre gii stori-ci considerano tali: un'attività che, nelle sue diverse forme, può essete rapidamente esem-plificata citando J.-P. Vernant e Michel Foucault.

122 MARIA LUISA PESANTE

meritava della penosa condizione della storia moderna sotto questo profilo: non abbastanza estranea da porre allo storico un problema ineludibile come quello che ormai avevano riconosciuto gli antichisti, non abbastanza prossima da poter essere effettivamente trattata co-me un affare di famiglia senza per questo produrre automaticaco-mente grossolane distorsioni, come la storia contemporanea. Nel frattempo la situazione è cambiata; e, ad esempio nel campo della storia del pensiero politico, modi nuovi di trattare la storia dell'età moderna, fondati su una premessa di sostanziale discontinuità tra il presente e il passato e una rilevante polemica contro le continuità riconosciute di consueto, non solo si sono fatti strada, ma sono stati anche accom-pagnati da una riflessione metodologica che è stata probabilmente la più esplicita e formale delle discussioni metodologiche rilevanti per il mestiere dello storico in questi anni4. I «revisionisti»5, ovvero gli autori del paradigma di Cambridge (J.G.A. Pocock, Quentin Skin-ner, John Dunn) hanno fornito una complessa ricostruzione storica, che di per sè potrebbe costituire un modello metodologico, e anche una varietà di argomenti metodologici atti a delineare sia modelli eu-ristici di approccio al campo della storia del pensiero politico sia modi di convalidazione delle procedure di ricerca. È di questo outillage me-todologico che intendo discutere in questo saggio.

Sono opportune tre qualificazioni preliminari. In primo luogo è bene chiarire che discutere del paradigma di Cambridge in termini di metodologia è una scelta non obbligata di livello di generalità (co-me vedremo, è stato persino (co-messo in dubbio da autorevoli interlocu-tori che si tratti propriamente di una metodologia). In secondo luogo devo avvertire che uso indifferentemente argomentazioni di autori diversi per chiarire diverse implicazioni possibili di una metodologia

4. La distinzione è ovvia ma può ancora essere esplicitata: di gran parte delle discus-sioni teoriche di questi anni sulla conoscenza storica non esiste nessuna forma di traduzio-ne operativa che faccia una qualche differenza per le procedure effettive della ricerca stori-ca; in molti casi è lecito sospettare che la traduzione non sia possibile per difetto di impo-stazione

5. I «revisionisti» contro gli «ortodossi» è una terminologia sviante che uso qui, a fini di identificazione, e per rifiutarla, per la prima e l'ultima volta. Ogni generazione di studiosi che abbia qualche cosa di nuovo da dire è per necessità revisionista in senso gene-rico; ma revisionismo è un termine che indica specificamente quei tipi di attività intellet-tuale che dipendono sostanzialmente dalle teorie che criticano, e dalle quali non vogliono o non possono staccarsi interamente.

METODOLOGIA PER LA STORIA DEL DISCORSO POLITICO 123 che può essere vista come un'impresa comune, di studiosi che condi-vidono in senso lato alcune premesse, preoccupazioni ed obiettivi, senza che sia necessario assumere una forma particolarmente forte di unità di intenti tra di loro o sia necessario concludere che eventuali divergenze ammontino a contraddizioni in una dottrina. E, poiché si tratta di una discussione metodologica, e non di una ricostruzione storica di una visione dei problemi dello storico, uso anche, senza particolari preoccupazioni circa i loro tempi, scritti che coprono or-mai l'arco di un trentennio, per cui è ragionevole assumere come nor-male l'esistenza di ripensamenti, mutamenti di fuoco, rielaborazioni. Se questo ammonta a dire che tento di ricostruire una matrice con-cettuale, e di riflettere su questa, purché in essa siano riconoscibili le operazioni degli autori considerati, posso accettare questa descri-zione. Infine, il punto di vista da cui è condotta questa discussione non è interno alla ricostruzione storica del discorso politico, che è in maniera praticamente esclusiva il campo di lavoro degli autori; la di-scussione è invece condotta dal punto di vista di chi si ponga proble-mi di ricostruzione storica anche di altre attività intellettuali, o addi-rittura di storie di attività non intellettuali. Questo punto di vista mi sembra legittimo e utile per due ragioni connesse. Da un lato, molte delle affermazioni in discussione hanno di per sé un carattere di ge-neralità maggiore di quello implicito nella loro diretta finalizzazione originaria. Poiché tutto ciò che in esse viene asserito come dipenden-te dalla natura del linguaggio deve valere per tutdipenden-te le situazioni stori-che in cui è coinvolto il linguaggio, esse devono necessariamente esse-re valide anche per altri campi: oppuesse-re non sono valide nemmeno per la storia del pensiero politico. Dall'altro lato, spesso gli autori in que-stione hanno operato cortocircuiti tra ciò che viene da loro asserito circa la natura del linguaggio in generale e ciò che viene asserito dei linguaggi del discorso politico, nascondendo sia difficoltà sia possibi-lità di generalizzazione che non dovrebbero essere sprecate.

La natura comune del progetto di Cambridge può essere meglio definita identificando questa metodologia della storia dei linguaggi come un episodio rilevante nella storia della disputa novecentesca sul carattere delle scienze sociali. La disputa ha spesso preso la forma fal-lace di tensione tra le scienze sociali e la storia, ma in realtà dipende da una difficoltà concettuale che riguarda sia l'una sia le altre. Tutta la storia intellettuale del secolo è stata dominata da una tensione tra il tentativo di ridurre le scienze sociali (compresa la storia) a una spie-gazione di tipo causale analoga a quella delle scienze naturali (il caso più riuscito di conoscenza che si sia realizzato nella storia umana) e

124 MARIA LUISA PESANTE

il tentativo di trovare procedure di spiegazione per un ambito della vita umana in cui valgano descrizioni antropomorfiche, attribuzioni di senso, indeterminazione degli attori.

Il primo tentativo ha goduto di un modello epistemologico forte, ma questo è avvenuto grazie a un riduttivismo cosi spinto da esclude-re aesclude-ree della vita storica associata degli uomini che invece sono brate nel corso dei decenni sempre più rilevanti. Il secondo ha sem-pre sofferto di un meccanismo epistemologico debole (il fatto stesso che io usi qui il termine «meccanismo» è un sintomo delle egemonie epistemologiche esistenti), che ha dato luogo a risultati ostensivi e descrittivi piuttosto che esplicativi.

Che la propensione per il secondo modello sia stata egemonica tra gli storici, e quella per il primo rilevante, ma minoritaria, non ha im-pedito ricorrenti scoppi di dibattito. È possibile dire che sul terreno metodologico la seconda metà del secolo ha visto una ritirata difensi-va dei sostenitori del primo modello e una aggressidifensi-va crescita dei so-stenitori del secondo, accompagnata^ tuttavia, in questo campo, an-che da una vasta area di moderati. È una situazione an-che ha offerto varie possibilità di rapprochement. Nessun ambito è sembrato più adatto a un confronto ravvicinato e risolutivo che quello dello studio dei fenomeni linguistici. Infatti il linguaggio si presenta come la ma-trice di tutte le possibilità espressive dell'uomo (e quindi come il mo-do fondamentale del conferimento di significato) e al tempo stesso come un modello della produzione di norme e di regolarità (quindi come caso privilegiato di un'analisi strutturalista delle modalità stori-che della vita umana) stori-che è in grado di sostituire con successo a un modello di spiegazione causale un modello di spiegazione relazionale altrettanto forte e sistematico. Il paradosso del linguaggio è che in esso si può sia riconoscere la dicotomia tra causalità e significato alla sua origine e quindi esprimerla nella sua forma più forte e irrimedia-bile sia identificare la matrice unica di una vita storica dell'uomo, che è causata e insieme dotata dei significati che contingentemente le so-no attribuiti.

Il nucleo più ambizioso del progetto di Cambridge è stato un con-fronto diretto con la dicotomia tra causa e significato, e un'intenzio-ne forte di ridurla, obiettivi entrambi perseguiti in modi diversi, che dipendono anche dai diversi interessi di ricerca degli autori. Il pro-blema che la dicotomia tra causa e significato pone a chi indaga il mondo storico si delinea all'inizio di questa storia in modo specifico nell'opera di Adam Smith. In quella sorta di summa di tutti i materia-li cruciamateria-li della sua riflessione che sono le lezioni sulla retorica per

METODOLOGIA PER LA STORIA DEL DISCORSO POLITICO 125 tutti gli anni '50, fino al 1763, egli definì la modalità dello stile narra-tivo, che è quello proprio dello storico, come una sorta di ermeneuti-ca il cui oggetto sono le azioni degli uomini, e in particolare quelle che «have contributed to great revolutions and changes in States and Governments. The changes or accidents that have happened to in-animate or irrational beings can not interest us; we look upon them to be guided in a great measure by change, and undesigning instict; design and contrivance is what chiefly interests us, and the more of this we conceive to be in any transaction the more we are concerned in it». Smith proseguiva impiegando in funzione ermeneutica il prin-cipio costituitivo della sua etica, la simpatia. «The accidents [...] which affect the human species interest us greatly by the sympathe-ticall affections they raise in us. We enter into their misfortunes, grieve when they grieve, rejoice when they rejoice, and in a word feel for them in some respect as if we ourselves were in the same con-dition»6. Poi, come è noto, procedette ad offrire quella che a tutti gli effetti sembra una spiegazione storica delle cause della ricchezza e della libertà dei moderni, nel III libro della Ricchezza, in termini di «unintended consequences» e di totale mancanza di «design». Di fronte a questa biforcazione, lo storico, come lo scienziato sociale, può affidarsi a diverse soluzioni, nessuna delle quali è priva di costi. Può scegliere la via più facile, che è quella della specializzazione, del difendere la specificità di uno dei due resoconti possibili, rifiutando di affrontare i problemi che derivano da un confronto con l'altro re-soconto della presa della Bastiglia. Può affermare l'egemonia, o addi-rittura unicità, di un resoconto sull'altro. Può tentare la rischiosa via del confronto diretto tra i due casi empirici. La natura dell'impresa affrontata dalla scuola di Cambridge può essere definita come il ten-tativo di individuare una modalità della narrazione storica in cui ri-scoperta delle intenzioni degli attori nel compiere un atto e ricostru-zione delle conseguenze non intenzionali degli atti sono necessaria-mente fuse a causa del funzionamento del linguaggio. Gli atti in que-stione sono atti linguistici.

È a questo punto che la svolta linguistica negli studi storici diven-ta impordiven-tante, in una varietà di modi possibili che è opportuno tene-re distinti. La svolta linguistica è stata un cambio di paradigma in

126 MARIA LUISA PESANTE

senso molto lato, l'imposizione di un nuovo ordine di problemi in di-versi campi della ricerca, consistente nell'aver reso impossibile la ce-cità al linguaggio, alla sua importanza, alla sua pervasività nella co-struzione dell'esperienza umana. Molte conseguenze ne sono seguite, ma per usare utilmente questo riferimento in un ragionamento sulla storia e gli storici, sarà bene ricordare che un cambiamento di para-digma non detta la soluzione dei problemi, che dalla svolta linguistica sono derivate diverse, divergenti filosofie, e che uno storico non ha bisogno nemmeno di adottarne una in particolare per usare la centra-lità del linguaggio come nucleo di un modello di ricerca storica: deve solo particolareggiare in un suo campo specifico le modalità di una ricerca sulla lingua che è nata ai livelli più alti di astrazione, come filosofia del linguaggio e linguistica generale. Questo non è detto per suggerire che il compito sia facile, puramente applicativo, ma per mettere in chiaro che uno storico che si definisca storico dei linguaggi non deve necessariamente essere un adepto della filosofia linguistica con cui gli è avvenuto di incontrarsi, probabilmente in un momento decisivo per la definizione più formale del suo metodo. I primi scritti in cui è stato esplicitato un metodo per la storia del pensiero politico fondato sulla ricostruzione dei linguaggi risalgono ai primi anni '601, in un contesto dominato da una filosofia analitica del linguag-gio di stampo wittgensteiniano, nel quale appariva ovvio che per una filosofia politica intesa come complesso di asserzioni sul carattere delle società politiche e sulla possibilità aperte agli attori dentro di esse mancava ormai la necessaria fiducia epistemologica. Una filoso-fia secondo la quale è compito esclusivo della filosofiloso-fia un'analisi lin-guistica delle asserzioni sulle cose, senza poter asserire nulla sulle co-se stesco-se, offre una paradossale opportunità a uno storico del pensie-ro politico. Egli può storicizzare la teoria wittgensteiniana del

lin-7. I più importanti tra i primi saggi metodologici di Pocock sono raccolti in JOHN G.A. POCOCK, Politics, language, and time. Essays on politicai thought and history, Chicago,

Documenti correlati