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Modifiche e adeguamenti dell’istituto a partire dal

Le modificazioni e gli adeguamenti che il fedecommesso aveva subito fino alla seconda metà del XIII secolo si erano orientate verso due direzioni che, sebbene abbastanza diverse, conducevano comunque al medesimo scopo: la conservazione del patrimonio domestico. Ciò poteva avvenire adottando e conciliando tutti i mezzi che il diritto romano forniva per rendere i beni inalienabili, oppure servendosi di quelli che, mediante il sistema delle sostituzioni, lo stesso diritto prevedeva per riunire quella parte del patrimonio che si era dovuto ripartire tra i figli.

Di tali accorgimenti, quelli che disponevano del divieto di alienazione si presentavano più idonei e nuovi: il divieto di alienazione non era legato ad una disposizione fedecommissaria ma agiva con mezzi propri.

Alcuni documenti storici risalenti a quel periodo (metà XIII secolo - primi anni del XVI), mettono in evidenza le prime manifestazioni del divieto di alienare. Un esempio è dato da un testamento del 1252 dove si racconta di un tale che, per beneficiare i fratelli di un diacono suo amico, lasciò loro delle vigne disponendo quanto segue: “ut non liceat eis predictas vineas alienare, set ipsi eas habeant in vita, post mortem vero ipsorum, si legitimos descendentes reliquerint, sint eorum descendentium, quod, si absque descendentibus

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decesserint vel descendentes reliquerint et infra legitimam aetatem ipsi descendentes sine legitime aetatis et descendentibus obierint, predicte vinee deveniant ad predictum diaconum”63.

In altri casi si prevedeva anche il divieto, per il figlio maschio nascituro e, in mancanza di questo, per il fratello, di alienare le case di abitazione della propria famiglia: “prohibeo ne domus, viventibus devolvatur64”.

Come si può osservare, il divieto di alienare65 poteva essere disposto per far fronte a circostanze di famiglia meramente occasionali, oppure per prolungare la permanenza dei beni nel casato o, infine, per beneficiare una o più persone che stavano più a cuore al disponente. Queste diverse motivazioni si ripercuotevano sulla durata del divieto: nel primo caso la prohibitio avrebbe avuto vigore finché sussistevano i motivi per i quali era stata disposta; negli altri due casi si protraeva all’infinito di discendente in discendente. I beni che più si prestavano alla subordinazione del vincolo erano gli immobili.

Gli esempi fin qui delineati destarono un certo timore in quanto non rispondenti ai principi e ai requisiti del diritto romano. Per avere efficacia il divieto di alienare non solo doveva essere imposto a favore di una determinata persona, ma altresì, alterius personae quae lederetur alienatione facta (ad esempio il legatario, l’erede, la

63 S. FULLONI, L'abbazia dimenticata: la Santissima Trinità sul Gargano tra

Normanni e Svevi, Napoli 2006, p. 249.

64 Altro esempio lo troviamo nel testamento del doge Agostino Barbarigo del 1501:

“volumus quod ipsi [i figli maschi] nunquam possint vendere vel alienare bona immobilia per nos ipsis dimissa, permutare illa possint cum voluntate aliorum commissariorum nostrorum”, et bona per permutationem acquisita sint ad condicionem aliorum bonorum nostrorum.” In F.NANI MOCENIGO, Testamento del doge Agostino Barbarigo, Venezia 1909, p. 352.

65 Per garantire che i beni rimanessero al consorzio familiare, il divieto di alienazione

poteva prescindere da limitazioni di tempo e perdurare fino all’estinzione di una famiglia. A. AZARA - E. EULA, Fedecommesso (Diritto intermedio), Nuovissimo Digesto italiano, Torino 1961, p. 196.

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famiglia, o il fedecommissario). La prohibitio, di regola, veniva disposta dal testamento o dal contratto, ma poteva essere sancita anche dagli statuti, dalla legge, dai praecepti iudicis, non mai dalla sententia arbitri, perché, secondo il diritto canonico arbitrium sumit vires ex pacto.

L’effetto e la portata di questa proibizione fu innanzitutto quello di vedere negato il diritto di vendere, di donare, di dare in pegno, di obbligarsi, d’istituire eredi extra familiam e di compiere qualsiasi atto capace di produrre una translatio dominii; non mai d’impedire l’assegnazione della legittima o la costituzione della dote e della donatio propter nuptias66. Infatti, anche in un feudo istituito ea lege ut extra agnatos non alienet, il fratello doveva dotare la sorella de re quae non debet exire extra familiam; i beni feudali erano anch’essi bona prohibita alienari. A dispetto della tendenza a limitare i diritti delle donne, la giustificazione di dotare la donna o sorella fu trovata nello jus naturae e nel principio secondo cui l’utilità pubblica, determinata dal favor matrimonii, doveva essere preferita alla ragione privata. Per tale motivo, quindi, fu stabilito che la prohibitio poteva essere imposta agli estranei e non ai congiunti.

Allo stesso tempo, mentre la maggior parte dei giuristi era convinta che il fedecommesso causasse le medesime conseguenze di una prohibito alienationis, altra parte non era d’accordo circa lo stabilire la durata e la causa del divieto che, per il diritto romano, rappresentava un requisito essenziale del praeceptum. Al fine di risolvere tale problematica, il giurista Iacopo Belviso67 propose una

66 S.CALONACI, Dietro lo scudo incantato: i fedecommessi di famiglia e il trionfo

della borghesia fiorentina (1400 ca-1750), Firenze 2005, p. 48.

67 Iacopo Belviso (1270-1335), giureconsulto bolognese, contribuì notevolmente a

diffondere in Italia nello studio del diritto le nuove correnti ultramontane che aveva conosciuto durante il soggiorno in Francia. Fu autore di additiones alla Glossa ordinaria ai tre Digesti, al Codice, al Volumen, di un commentario ai Libri Feudorum che sembra legato all'esperienza di insegnamento a Napoli, e di una lectura

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distinzione: quando “sunt expressa nomina propria filiorum, quibus facta est prohibitio, ultra filium non extenditur”, quando, invece, nella proibizione non venivano specificati i nomi dei figli (prohibitio fuit facta expressio propriorum filiorum), questa si estendeva anche ai nipoti.

Diversamente la pensava Baldo degli Ubaldi68, il quale era convinto che la prohibitio facta filiis non potesse estendersi ai nipoti, pur riconoscendo al testatore la facoltà di disporre che i suoi beni rimanessero in perpetuo nella sua famiglia, o penes successores.

Sul punto varie furono le posizioni assunte dai giuristi: alcuni furono d’accordo nel ritenere che la prohibitio fatta ai figli non si dovesse estendere ai nipoti, anche se il testatore poteva disporre affinché i suoi beni restassero in perpetuo nella sua famiglia; altri ritennero, che non si dovesse uscire dalla quarta generazione soprattutto quando l’obbligo cadeva sui discendenti; la maggior parte si orientò verso l’opinione opposta, ovvero che la prohibitio avesse forza in infinitum. In definitiva, prevalse l’opinione di Bartolo da Sassoferrato69 che, richiamandosi alla Novella 159 di Giustiniano,

affermò che tale prohibitio poteva estendersi anche all’infinito, oltre il nome della famiglia e che, se fosse stata imposta ai liberi in perpetuo,

sull'Authenticum, frutto maturo dell'ultimo periodo di insegnamento a Bologna. G.M. MAZZUCCHELLI, Gli Scrittori d'Italia, Brescia 1760, pp. 722-724; V.BINI, Memorie istoriche della perugina Università degli studi e dei suoi professori, Perugia 1816, vol. I, pp. 64-66.

68 Baldo degli Ubaldi è stato uno dei maggiori giuristi italiani del Medioevo.

Discepolo di Bartolo da Sassoferrato, insegnò nelle università di Bologna, Perugia, Pisa, Firenze, Padova, Pavia. Dominò tutti i campi del diritto: fu canonista oltre che civilista, e lasciò ampi commentari a tutto il Corpus iuris civilis e alle Decretali di Gregorio IX. C.FROVA -M. GRAZIA-N.OTTAVIANI – S.ZUCCHINI, VI centenario della morte di Baldo degli Ubaldi, 1400-2000, Perugia 2005, p. 87; E. Cortese, Baldo degli Ubaldi, in Dizionario dei giuristi italiani, vol. I, cit., pp. 149-152.

69 Su Bartolo da Sassoferrato lucerna e monarcha iuris, si veda per tutti S.LEPSIUS,

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l’ultimo della famiglia avrebbe avuto il diritto di alienare ciò che gli era pervenuto.

Per quanto riguardava, invece, la causa prohibitionis, i giureconsulti furono tutti d’accordo nello stabilire che essa era indispensabile, e che la disposizione era efficace solo quando la prohibitio fosse conosciuta. Quando il divieto si riferiva allo stato delle persone (servi, vassalli) era valido sia se la causa era expressa sia se era tacita. In tutti gli altri casi il favor libertatis doveva riguardare persone indicate esplicitamente e non tacitamente, e la causa doveva risultare con chiarezza.

Quanto poi all’applicazione, il divieto doveva essere interpretato restrittivamente se causava un danno o una punizione, invece estensivamente se arrecava un vantaggio.

Un’altra problematica che venne approfondita dai giureconsulti fu quella relativa alla possibilità dell’inosservanza delle disposizioni. Essi distinsero la causa necessaria da quella volontaria, stabilendo che solo la prima aveva la forza di svincolarsi dal divieto. Come causae necessitatis furono considerate la legittima, la dote, la donatio post mortem, nonché l’obbligo di pagare i debiti del disponente. Ad ogni modo, la causa, anche se necessaria, non poteva colpire l’erede che non avesse fatto l’inventario, e l’alienatio fatta per heredem de re prohibita non veniva revocata herede vivente, neanche se era stato istituito erede qualcuno della famiglia70. Nel caso poi che il divieto fosse derivato da un onere fideicommissi, il pretium succedeva loco fideicommissi, non solo se l’erede era ignaro della prohibitio per colpa del disponente, ma anche se lo fosse stato per fatto proprio. Questi i principi sui quali si fondò la dottrina e dai quali prese avvio lo sviluppo successivo.

Nel complesso tra i vari giuristi vi fu concordanza nel vietare la donazione e il compiere qualsiasi atto mediante il quale poteva

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avvenire una translatio dominii directi, utilis, vel alicujus juris in re, mentre fu consentito testare a favore dell’erede quamvis non sit de familia, successione ab intestato, ma non anche a favore del Fisco, perché ciò che non transit in extraneum heredem, non transit in Fiscum, ma ad pias causas. Infine, si stabilì che le cose prohibitae alienari extra familiam dovessero ritenersi tali finché non superest nisi unus de familia. Anche se tutti d’accordo, i parenti non potevano liberarsi da questo vincolo e si sarebbero messi contro il praeceptum testatoris se costui non li avesse autorizzati a servirsi di questo.

La prohibitio poteva essere imposta anche per verba affermativa, come quando si diceva “rem aliquam servari vel conservari71”; i beni vincolati erano comunque considerati extra commerciume contro di essi non valeva né la prescrizione acquisitiva, né la confisca da parte dello Stato. Unico limite per l’inalienabilità erano le causae necessitatis72.

Oltre la inibitio imposta direttamente dal testatore, l’inalienabilità poteva scaturire anche da un onere fedecommissario. Ma mentre nel primo caso il divieto di alienare presupponeva le modalità relative alla causa prohibitionis ed al favor personae, nel secondo caso tale divieto prescindeva da questi ostacoli e conservava una efficacia maggiore. Dunque, quando il testatore proibiva l’alienazione extra familiam provvedeva a stabilire il successore escluso nella discendenza. Invece quando disponeva che i beni dovevano trasmettersi ai successivi discendenti, istituendo una disposizione fedecommissaria, all’atteggiamento di divieto in senso stretto vi aggiungeva l’utilitas alterius quam gravati e la causa finalis del praeceptum. Nel primo caso egli garantiva la conservazione dei beni fra i successori, eliminando gli ostacoli che impedivano ciò; nel

71B.CIPOLLA, Tractatus de usucapione pro empto, Lugduni 1578, p. 397.

72 A.G.GAMBELLIONIBUS, Tractatus non minus praticus quam theoricus, Venezia

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secondo caso assicurava anche l’indicazione di colui al quale si voleva che pervenissero i beni e di coloro nelle cui mani i beni dovevano passare (substitutio fideicommissaria)73.

Con la disposizione fedecommissaria, vi era il vantaggio di avere la persona che avrebbe potuto agire nel caso in cui si fosse avuta un’alienazione in causus prohibitio. Titolari del diritto di esercitare l’azione di revocazione erano gli agnati fino al decimo grado, cioè gli ammessi alla successione de jure civili, in quanto si presumevano vocati ex fideicommisso.

Inibendosi l’uscita dei beni dalla famiglia, il divieto di alienare, accostandosi al fedecommesso, ne traeva gli elementi relativi alla restitutio e rafforzava il suo punto debole relativo alla causa prohibitionis.

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