SOPRAVVIVERE: LA PASSIONE DEL POTERE
3. La morte deviata: il potente felice
Là dove si storicizza, tutto trova il suo posto, la storia racchiude parecchie cose, e ancor più è destinata ad accoglierne; inevitabile corollario ne è pertanto una grande differenziazione: nulla, altrimenti, sarebbe identificabile.350
Tra tutte le possibili forme di sopravvivenza conosciute dall'uomo351, la più bieca consiste nell'uccidere352. Nel caso della morte attivamente inflitta agli altri, la nozione – apparentemente neutra – di sopravvivenza non presuppone semplicemente la morte altrui per attingervi il suo significato in via derivata; quest'ultimo va piuttosto situato a monte della morte altrui, decretata dalla brama di sopravvivere che innerva da cima a fondo il potere. L'uomo infatti non si limita a uccidere l'animale indifeso di cui si nutre, ma «vuole anche uccidere l'uomo che gli è di ostacolo, che gli si contrappone quale nemico. Si vuole abbattere quell'uomo per sentire che si esiste ancora quando egli non è più. Egli tuttavia non deve interamente sparire, poiché la sua presenza corporea come cadavere è indispensabile a quella sensazione di trionfo»353. In questo caso, si desidera attivamente la presenza del corpo inanimato del proprio avversario per trarne la sensazione di esistere ancora diversamente da lui, oltre alla soddisfazione di agire su di esso senza subire reazione alcuna.
In un momento simile di sopravvivenza attivamente desiderata conta soprattutto l'unicità del
350 E. Canetti, Party im Blitz. Die englischen Jahre, Hanser, München 2003; tr. it. di A. Vigliani, Party sotto le
bombe. Gli anni inglesi, Adelphi, Milano 2005, p. 72.
351 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 298: «ogni uomo nasce da […] sopravvissuto a duecento milioni di
suoi simili». Dal fenomeno della generazione – in cui un solo spermatozoo sopravvive a milioni di suoi simili –, a catastrofi naturali in cui muoiono amici e nemici assieme; dalle morti singole che riguardano parenti (il figlio al padre) e amici (fra coetanei), fino ad arrivare all'autorità goduta dai vecchi presso alcuni gruppi umani per via della loro anzianità (gli etruschi scandivano i secoli in base alla durata in vita dei loro capi), la sopravvivenza attraversa la storia del genere umano, dalle sue biografie individuali più remote al destino di interi popoli e civiltà.
352 Come ha notato Karl Heinz Bohrer, «Il motivo dell'uccidere è il punto archimedeo del sistema canettiano»,
cfr. K. H. Bohrer, Der Stoiker und unsere prähistorische Seele. Zu “Masse und Macht”, in (Hrsg. von) H. G. Göpfert, Canetti lesen. Erfahrungen mit seinen Büchern, cit., p. 65.
sopravvissuto354. Chi sopravvive «si vede solo, si sente solo»355: la sensazione di solitudine che investe chi sopravvive all'altro è coessenziale alla sensazione di trionfo che pervade il primo al cospetto del corpo esangue del secondo. Tuttavia, di una forma peculiare di solitudine si tratta: non di quell'isolamento che conferisce alla persona sola la gratificante consapevolezza di esserlo mentre tutti gli altri non lo sono, ma di quella solitudine ricercata da chi vorrebbe essere letteralmente l'unico356. È proprio l'unicità esperita da chi sopravvive, infatti, a dischiudere la consapevolezza della propria potenza357.
Chi ha la fortuna di sconfiggere l'avversario, inoltre, non si limita ad avvertire la propria supremazia, ma quest'ultima gli infonde il coraggio e la volontà necessari ad affrontare lo scontro
354 Cfr. E. Canetti, «Il sentimento del cimitero», in ivi, pp. 332-334, in cui l'autore condensa entrambe le
caratteristiche proprie della sopravvivenza, l'unicità di chi vive e la sua statura eretta di contro alla moltitudine
dei morti e alla loro impotente posizione. Canetti infatti si sofferma sulla forte attrazione esercitata dai cimiteri,
visitati anche quando non ospitano nessuno dei propri cari. L'autore scava nel contegno solitamente dimostrato dal visitatore per estrarre la radice profonda del senso di superiorità provato durante il suo passaggio da una tomba all'altra: «anche l'uomo ingenuo lo prova. Egli tuttavia sente ancor di più d'essere il solo che passeggia nel cimitero. Sotto i suoi piedi giacciono molti sconosciuti, tutti stretti insieme. Il loro numero è indeterminato, ma certamente grande, e sempre cresce. Essi non possono allontanarsi gli uni dagli altri: giacciono come in un mucchio. Solo il vivo va e viene come più gli piace. Solo lui sta ritto in piedi in mezzo ai giacenti» (ivi, p. 334), cosicché nei cimiteri sembra di sopravvivere a un'epidemia di morte generale, che – diversamente dalla peste – si è diffusa in epoche diverse e si è concentrata in un unico luogo. Si veda anche Le voci di Marrakech, cit, pp. 61 sgg., dove la desolazione del cimitero ebraico viene contrapposta a quei camposanti europei che possono essere paragonati ai soli campi di battaglia su cui moltissimi uomini in tempo di pace possono provare la sensazione di essere sopravvissuti e che, proprio per il fatto di garantire a ciascuno di loro di essere i soli in posizione eretta tra tutti gli altri che giacciono supini, riserva loro una sensazione di invincibilità altrimenti assente nella loro vita. Quando negli ultimi anni di vita Canetti stava redigendo i suoi ricordi sugli anni inglesi, tornò sul “sentimento del cimitero” in questi termini: ricordando le sue visite al camposanto di Hampstead in Church Row a Londra, Canetti afferma di aver capito dalle date scolpite sulle lapidi disposte disordinatamente «[...] il significato dei cimiteri, e se qualche volta mi sono espresso al riguardo in modo forse eccessivamente drastico e sommario, adesso che il tempo è passato e sta per venire il mio turno vorrei correggere il tiro. Certo, rispetto all'occupante di questa o quella tomba, ci sentivamo in vantaggio di tutti gli anni trascorsi da quando la pietra era stata posata, quasi fossimo tanto più vecchi di quell'altro perché potevamo osservarne la lapide, ma non c'era nulla di duro in questo sentimento, si trattava caso mai di un senso di pace che si condivideva con l'occupante della tomba. Perché trovarsi lì a soppesare il tempo trascorso da allora tornava anche a suo vantaggio. Si leggeva il suo nome, lo si pronunciava magari a mezza voce; del defunto non si sapeva nulla per cui potergli portare rancore, e anche se nei suoi confronti non si provava vera e propria gratitudine, gli si permetteva tuttavia di partecipare in modo semplice e naturale al tempo in cui la nostra attenzione era rivolta a lui. Ciò sembrerà forse incomprensibile, ma potrebbe spiegare il calore dei sentimenti che si provavano nell'avvicinarsi ad alcune di quelle pietre e nel guardarle, come se ci conoscessero. Talvolta – e la cosa suona davvero inconcepibile – avvertivo una sorta di curiosità promanare dal defunto, il cui nome era iscritto sulla lapide. Perché ero venuto di nuovo, perché venivo spesso, perché qualche volta mi fermavo, ma non sempre? Nomi e date si erano impressi nella memoria del visitatore, e chi mai saprebbe dire a quanta gente è poi rimasto legato un nome? Li ho ancora in testa tutti, non avrebbe senso menzionarli qui insieme alle loro date, ma mentre ho dimenticato tante cose e sempre più ne dimentico – quei nomi sono lì, saldi nella mia mente come le pietre su cui furono incisi. Hampstead è fatta per me delle persone che vi ho conosciuto, di coloro che lassù a quei tempi erano già artisti famosi – e che ancor oggi lo sono in tutto il mondo – e di coloro di cui conosco i nomi dalle lapidi».
355 Cfr. ivi, p. 273.
356 Cfr. E. Canetti, La tortura delle mosche, cit., p. 53.
357 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 273: «quando si parla della potenza che gli consente tale istante, non
successivo: «l'istante di questo confronto con l'ucciso colma il sopravvissuto di un tipo di forza del tutto particolare, che non può essere paragonato ad alcun altro. Nessun altro istante esige con altrettanta forza d'essere ripetuto»358. La vita stessa di chi si sente sollevato alla vista di un morto ucciso verrà a coincidere con la mera sopravvivenza, a tal punto che per sentirsi vivo dovrà nuovamente imbattersi nel corpo inerme di un morto. In questo senso, l'uomo è un vero e proprio “predatore del lutto” altrui359 che, diversamente da ogni altro animale, si ricorda delle sue prede uccise360.
Oltre a uccidere un singolo nemico in un omicidio, in un agguato o in un duello, è possibile moltiplicare esponenzialmente la vera e propria felicità connessa all'istante della sopravvivenza361 e, per di più, esibire apertamente la sensazione della propria crescita che si accompagna alla morte altrui in occasione di una vittoria militare. La battaglia offre la miglior occasione per ostentare apertamente tale trionfo ed entrare in rapporto con molti morti, procurando onore e gloria a chi è sopravvissuto. In questo senso, la piramide del potere non si limita solo a “verticalizzare” i benefici prodotti dalla base sociale. Una simile verticalizzazione, piuttosto, è possibile proprio perché ai suoi angoli inferiori c'è sempre un certo numero di uomini vivi che, contemplando i nemici morti ammassati dal “vertice”, continua a rendergli obbedienza e tributargli onore.
Dinanzi a questi mucchi di morti, il sopravvissuto è il privilegiato: è proprio la quantità dei morti a convincerlo della sua buona sorte. Se nelle diverse forme con cui l'uomo sopravvive ai propri simili senza ucciderli direttamente sembra sempre che sia stata combattuta una battaglia, al termine di una battaglia vera e propria sembra che essa sia stata combattuta appositamente perché colui che infine si salva potesse sopravvivere. Prendendo parte in prima persona allo scontro con i nemici, il sopravvissuto ha effettivamente «stornato da sé, sugli altri, la morte»362, dopo averla affrontata a viso aperto. Il fatto stesso che lui viva e trionfi mentre gli altri giacciono inermi a terra è percepito come la prova più evidente della sua superiorità. In questo caso, la sensazione di forza che deriva da una visione così apocalittica è più intensa di ogni afflizione per i propri compagni caduti sul campo di battaglia, «è la sensazione d'essere eletti fra molti che hanno un comune destino. Proprio perché si è ancora vivi, ci si sente in qualche modo i migliori. Si è data buona prova di sé, dunque si vive ancora. Si è data miglior prova di molti altri, i quali dunque sono morti. Colui al quale accade di sopravvivere
358 Ivi, p. 274.
359 Cfr. E. Canetti, La provincia dell'uomo, cit., p. 289.
360 Cfr. ivi, p. 294. Come ha giustamente notato Dagmar C. G. Lorenz nel suo Man and Animal: the Discourse of
Exclusion and Discrimination in a Literary Context (in «Women in German Yearbook», vol. 14, 1998, pp. 201-
224), «per Canetti la distinzione decisiva non è tra uomo e animale, ma tra predatori e specie che non sfruttano e non dominano le altre», ivi, p. 216.
361 Cfr. E. Canetti, «Potere e sopravvivenza», 1962, in Id., La coscienza delle parole, cit., p. 49: «il senso di
felicità del sopravvivere concreto rappresenta infatti un intenso piacere. Una volta subentrato e approvato, esso esigerà la sua ripetizione e crescerà rapidamente fino a diventare una passione insaziabile».
più volte è un eroe. È più forte. Ha in sé più vita. Le potenze più alte gli sono benevole»363.
Costruendo distanze che potessero tenere lontano il pericolo e consentirgli di controllarlo, l'uomo ha sempre cercato di acquisire una sensazione di invulnerabilità [ein Gefühl der Unverletzlichkeit]. Anziché bandire il pericolo tenendosi a debita distanza, tuttavia, gli eroi che sono al centro di intere tradizioni leggendarie scelsero di andarvi incontro. In questo caso specifico, l'uomo si è deliberatamente esposto alla minaccia di morte riconoscendo – anche pretestuosamente – in qualcuno il proprio nemico e costringendolo allo scontro. La gloria tributata agli eroi dai rispettivi popoli364, tuttavia, non lascia trapelare le reali motivazioni sottese alle loro imprese leggendarie. Anziché badare alla gloria futura del loro nome, gli eroi andarono incontro alla loro eventuale morte anche e soprattutto per sentirsi invulnerabili e, dunque, per vincere la paura della morte. Una volta abbattuto il nemico, l'eroe sente di essere invulnerabile, come dimostra la sua stessa sopravvivenza; per esperire nuovamente tale sensazione, egli deve necessariamente tornare a uccidere. Perciò egli combatte, vince e uccide per collezionare vittorie. La sua stessa sicurezza può essere conseguita solo uccidendo; uccidendo, egli vince; vincendo, egli si sente invulnerabile e questa invulnerabilità cresce fino a diventare una seconda pelle, una sorta di seconda armatura cucita sulla prima, più potente di quest'ultima in quanto forgiata dalle morti altrui e immune al potenzialmente fatale contatto con l'ignoto (essendo lei stessa la fonte stessa di questo eventuale contatto).
Ė come se egli disponesse ormai di un altro corpo, non più nudo, non più esposto, corazzato grazie agli istanti dei suoi trionfi. Finalmente più nessuno può nuocergli, è un eroe. […] La reputazione dell'eroe e la sua coscienza di sé si compongono di tutti gli istanti in cui egli si drizzò vittorioso sul nemico abbattuto. L'eroe è ammirato per la superiorità che gli viene conferita dal suo senso di invulnerabilità e che non appare come ingiusto vantaggio sull'avversario. Egli sfida senza esitare chiunque non gli si sottometta. Combatte, vince, uccide; colleziona vittorie.365
Come dimostra il caso ideal-tipico dell'eroe, la soddisfazione di sopravvivere può sfociare in una
passione pericolosa e insaziabile a seconda delle circostanze. Con quanta più frequenza ci si trova
dinanzi a un mucchio di morti, quanto più grande sarà tale mucchio, tanto più aumenterà il bisogno di ammassare nuovi cadaveri. Le biografie di eroi e mercenari mostrano la morbosità di un simile attaccamento alla passione di sopravvivere: la loro intera personalità si nutre della soddisfazione esperita alla vista di molti nemici stesi a terra. La stessa reputazione dell'eroe è direttamente proporzionale al numero delle vittorie accumulate e, per converso, alla quantità dei nemici uccisi in battaglia, al punto che «noi non riusciamo più, ormai, a concepire questo processo come una prassi concreta, non lo intendiamo più nel modo giusto, e tuttavia la sua sotterranea efficacia sopravvive
363 Ivi, pp. 274-275.
364 Cfr. ivi, p. 276: «il popolo vuole invulnerabile il suo eroe».
indiscutibilmente fin nel nostro secolo»366.
Tracce evidenti di un simile processo sussistono, infatti, nella cultura di una tribù delle Isole Marchesi, presso la quale la parola Mana designa il potere soprannaturale e impersonale che trapassa dal corpo del nemico ucciso a quello del guerriero che lo ha abbattuto. Un membro della tribù delle isole Marchesi può diventare capo nelle imprese di guerra a seconda del numero dei nemici ammazzati in precedenza, da cui dipende il Mana progressivamente accumulato e incorporato. L'acquisizione di questo potere impersonale, tuttavia, non dipende dal valore del guerriero, ma è piuttosto la causa di quest'ultimo. Assumendo il nome del nemico ucciso, chi gli sopravvive si impadronisce del suo Mana dopo essersi cibato della sua carne. Inoltre, il guerriero porta con sé un resto del corpo del nemico ucciso per personalizzare il rapporto intimo con il Mana predato. L'accrescimento del valore del guerriero è indissolubilmente legato all'uccisione dell'avversario, la cui morte gli consente di perseguire nuove vittorie con accresciuta consapevolezza delle proprie forze: «la presenza fisica del nemico, vivo e poi morto, è indispensabile. Ci dev'essere stata necessariamente battaglia e uccisione; tutto dipende dallo specifico atto di uccidere. Le parti maneggevoli del cadavere che il vincitore si assicura, si incorpora, porta su di sé, gli ricordano sempre l'accrescimento del suo potere. Grazie a esse si sente più forte e con esse suscita terrore: ogni nuovo nemico che egli sfida trema di fronte a lui e ha dinanzi agli occhi, spaventoso, il proprio destino»367.
Presso altre popolazioni si ritrovano concezioni alternative a quella del Mana, ma pur sempre orientate al medesimo scopo. Tra i Murngin della Terra di Arnhem, ad esempio, la forza guerresca deve essere acquisita mediante l'uccisione notturna, quindi nascosta, di un nemico. Qualora un giovane di questa tribù riesca nel suo intento, lo spirito del morto ucciso penetra in lui. In questo caso, il vincitore cresce grazie a una forza che – diversamente dal Mana – è personale e in quanto tale deve essere incorporata senza che il predatore venga scoperto, onde evitare che lo spirito dell'ucciso opponga resistenza a penetrare nel corpo dell'uccisore. L'anima del morto si reincarna in un animale che il guerriero provvederà a uccidere nuovamente per cibarsi della sua carne. È quanto mai significativo il fatto che tale animale cresca rapidamente dopo essere stato ucciso, tanto da poter essere offerto come nutrimento al resto della tribù. Tuttavia, poiché anche quest'ultima caccia si svolge nel segreto della notte, sembra avere ancora poco a che vedere con le più familiari vicende attribuite agli eroi dalla nostra tradizione.
Alcuni racconti tramandati nelle isole Figi hanno invece come protagonisti alcuni personaggi che somigliano molto agli eroi impavidi e solitari noti a noi “moderni”. Il racconto preso in esame da Canetti ha come protagonista un ragazzo che, vivendo lontano dal padre e non essendo ancora cresciuto, si reca da lui e affronta da solo tutti i nemici paterni per ottenere l'attenzione e il plauso del
366 Ivi, p. 45.
genitore. La scena finale del racconto in questione ritrae il ragazzo seduto sopra il mucchio dei nemici uccisi con le sue sole forze. Tuttavia, avverte Canetti, «non si pensi che ciò accada solo nelle leggende»368. Sebbene questi personaggi non si limitino a uccidere i nemici ma si cibino addirittura della loro carne, la figura dell'eroe coincide sempre con colui che sopravvive uccidendo. La reputazione di simili virtù guerresche era talmente grande che i quattro possibili nomi con cui venivano battezzati gli eroi dipendeva direttamente dal numero dei rispettivi nemici uccisi:
Al gradino più basso della scala c'era il Koroi, l'uccisore di un uomo solo. Koli si chiamava, poi, chi aveva ucciso dieci nemici; Visa, chi ne aveva uccisi venti; Wangka, chi ne aveva uccisi trenta. Un celebre capo venne chiamato Koli-Visa-Wangka […] Non è mai del tutto privo di pericoli accostarsi ai popoli cosiddetti primitivi. Li studiamo affinché da essi ricada su di noi una luce spietata; e tuttavia suscitano spesso l'effetto opposto. Ci vediamo enormemente superiori a essi, poiché ciò che essi fanno con le clavi noi lo facciamo anche con le bombe atomiche. In realtà il solo punto sul quale possiamo compiangere il capo Koli-Visa-Wangka è il fatto che la sua lingua lo metta in così gravi difficoltà con il far di conto. Certo, per noi la cosa è più facile, molto più facile.369
Il solco tracciato dalla modernità rispetto a ciò che la precede, la discontinuità che essa è solita rivendicare nei confronti del proprio passato, infatti, le serve principalmente da anestetico per garantirsi l'innocenza del proprio sguardo sulle cose presenti. Ecco perché non è da confinare a una mera percezione soggettiva di Canetti l'impressione secondo cui «[...] gli uomini provino più sensi di colpa per i terremoti che per le guerre che essi stessi fomentano»370. Solo nel primo caso è infatti possibile salvaguardare l'illusione della propria innocenza nei confronti dei morti ammassati da simili tragici eventi. Come dimostrato dal trapasso della potenza impersonale del Mana dall'ucciso al vincitore nelle isole Marchesi, dall'accrescimento del vincitore presso i Murngin della Terra di Arnhem e nelle isole Figi, la sopravvivenza dell'eroe si accompagna a un intenso piacere e l'annessa sensazione di felicità impone la ripetizione dell'uccisione del nemico, fino a sfociare in una vera e propria passione insaziabile371. Tuttavia, tale passione non è certo confinabile al solo caso di quegli eroi leggendari che si gettano deliberatamente in duelli sempre più rischiosi per acquisire e rinnovare il senso della propria invulnerabilità ogniqualvolta la loro gente sia minacciata da mostri o nemici esterni372. Le figure eroiche che si ritrovano nei cosiddetti “popoli primitivi”, infatti, raffigurano
368 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 306.
369 E. Canetti, «Potere e sopravvivenza», 1962, in Id., La coscienza delle parole, cit., p. 48. La fonte di Canetti è
L. Fison, Tales from Old Fiji, London 1904, pp. 51 ssg.