SOPRAVVIVERE: LA PASSIONE DEL POTERE
2. Dal terrore della morte al sollievo mortale della sopravvivenza
Il cimitero appariva come un gigantesco mucchio di macerie; forse lo era stato, e solo più tardi era stato adibito a questa più solenne destinazione. […] Tutto giaceva supino. Qui camminare in posizione eretta non era piacevole, non c'era niente di cui esser fieri, ci si sentiva soltanto ridicoli. Nelle altri parti del mondo i cimiteri sono allestiti in modo tale da suscitare nei viventi un senso di felicità. […] il visitatore, unico essere umano tra tanti morti, proprio da questo si sente rallegrato e rinvigorito. […] a ciascuno di costoro egli è sopravvissuto. Senza confessarselo, ha quasi la sensazione di averli vinti a duello.325
«Ci sono scrittori, in verità assai pochi, che sono talmente se stessi da farci sentire dei barbari ogni volta che ci permettiamo di dire qualcosa sul loro conto»326: le parole distillate con la solita cura da Canetti per commentare uno dei suoi modelli letterari, Franz Kafka, conserverebbero intatta tutta la loro validità e pregnanza se fossero riferite al loro stesso autore. Addentrandosi immediatamente in una descrizione dettagliata degli effetti della paura più caratteristica della condizione umana, in effetti, l'incipit di Masse und Macht si dimostra quanto mai avaro dei soliti convenevoli con cui ogni autore tende a entrare progressivamente in confidenza con il lettore della sua opera. Rinunciando a ogni sorta di accomodante preambolo, Canetti sembra piuttosto volerlo appositamente disorientare o, se non altro, avvertire del complesso itinerario concettuale che lo attende: il lettore viene così catapultato – quasi a sua insaputa – in una sorta di terra straniera, senza neanche avere il tempo di adattarsi alle sue condizioni inospitali.
In questo senso, l'esordio di Masse und Macht può essere legittimamente accostato all'entrata angusta di un imponente labirinto327: l'esitazione provata al momento del passaggio attraverso questa
325 E. Canetti, Le voci di Marrakech, cit., pp. 61-62.
326 E. Canetti, «L'altro processo. Le lettere di Kafka a Felice», 1968, in Id., La coscienza delle parole, cit., p. 140. 327 Cfr. C. Magris, Gli elettroni impazziti, in «Nuovi argomenti», cit., p. 264: «[...] l'opera di Canetti è una
parabola, visionaria e lucidissima, del delirio autodistruttivo cui si è votata, nel nostro secolo la ratio occidentale sotto l'incalzare della sua crisi. […] La ragione, che si esaspera per difendersi dall'irrazionale, si nega e si storce in follia, così come la scatenata proliferazione della razionalità geometrica conduce all'irrazionalità del labirinto» e proprio della struttura labirintica assume infine le forme non solo il canovaccio narrativo del suo romanzo, ma l'impianto argomentativo di Masse und Macht. Altri lettori illustri di Masse und Macht hanno preferito adottare altre immagini per alludere alle difficoltà inizialmente incontrate dal lettore: «più si penetra nel libro, più si corre il rischio di vedere gli alberi, ma non la foresta: si è catturati dalla diversità delle forme, dalla ricchezza dei contenuti che appartengono ad ambiti talmente diversi […] che si ha l'impressione di essere in presenza di una sorta di antropologia fantastica», Y. Ishaghpour, Elias Canetti. Metamorfosi e identità, cit., p. 112.
strettoia iniziale funge implicitamente da monito per chiunque si accinga a varcare la soglia del testo . Convogliando l'attenzione del lettore su sentieri non ancora battuti nel suo pregresso curriculum disciplinare, i singoli paragrafi di Masse und Macht somigliano spesso a dei vicoli ciechi. L'impressione che non comunichino direttamente tra loro contribuisce ad acuire ulteriormente lo smarrimento iniziale del lettore, confondendolo circa le tappe del tragitto percorse nel corso della lettura. Ogni via intrapresa e percorsa fino in fondo costringe a tornare sulle altre, correggendo via via le convinzioni che ci si era formati su di esse, fino a scoprire che l'intera opera altro non è che una spietata quanto lucida incursione nel labirinto aporetico della storia dell'uomo. Le insidie interpretative che si celano nelle pagine dell'opera sovente obbligano il visitatore a tornare sui propri passi, ma non prima di averlo attirato su strade ancora inesplorate, che non di rado si rivelano fuorvianti rispetto alle vie d'uscita di volta in volta ipotizzate sfogliando le pagine del testo. Masse und Macht sembra così avviluppare il lettore in un vorticoso circolo ermeneutico senza fine, che puntualmente lo riconduce al punto di partenza. Nel corso di questo andirivieni tra le pagine del testo, il visitatore rischia a più riprese di lasciarsi sopraffare dal senso di frustrazione che resta in agguato dietro ogni pagina. Di frustrazione del lettore, d'altra parte, non è azzardato parlare proprio perché dietro ogni angolo testuale lo attendono le intuizioni a dir poco sorprendenti dell'autore, che possono deludere l'entusiasmo del primo solo dopo averne eccitato la curiosità fino a rendere irresistibile la tentazione di ripercorrere a ritroso i paesaggi già visti alla luce di quelli contemplati successivamente328. Se leggendo Masse und
Macht domina sempre più la sensazione di ripercorrere passaggi del testo che si era sicuri di aver
lasciato definitivamente alle proprie spalle, del resto, è perché l'autore stesso rinvia continuamente il lettore alle battute iniziali del suo complesso itinerario concettuale: oltre a disorientare fin da subito il lettore, infatti, il “timore di essere toccati dall'ignoto” gli offre indirettamente anche il filo d'Arianna con cui districarsi nei meandri del testo. Quello che a prima vista si configura come un labirinto aporetico lascia progressivamente intravedere nel suo stesso ingresso anche una possibile – forse l'unica – via d'uscita accessibile al visitatore329.
Proprio l'assenza di ogni premessa a Masse und Macht, allora, si configura come la miglior introduzione possibile a un'opera cucita nel suo insieme da uno stile estremamente tagliente e conciso330, che tradisce tutta l'impazienza dell'autore di affrontare senza mezzi termini la realtà più
328 Si veda la recensione all'edizione americana di Masse und Macht (tr. dal tedesco di Carol Stewart, per la
Viking Press, New York 1962) di A. D. Grimshaw, Crowds and Power by Elias Canetti, «Annals of the American Academy of Political and Social Science», vol. 352, Urban Revival: Goals and Standards, 1964, pp. 169-170, dove si parla esplicitamente della continua oscillazione tra eccitazione e frustrazione che avvolge il lettore imbattutosi nell'opera.
329 Lo stesso vale per il romanzo Die Blendung: «la convenzionale logica del lettore viene messa in crisi all'inizio
dall'assurdo comportamento dei personaggi; ad un certo punto, però, sarà costretta ad accettare la non-logica del romanzo, che ha in sé una sorprendente coerenza», M. Ciacchi, M. Gelsi, C. Grassi, P. Madrassi, I recensori
imbarazzati, in «Nuovi argomenti», cit., p. 253.
vicina e incontrovertibile del suo tempo: «la morte è la prima e più antica realtà, anzi saremmo tentati di dire: è l'unica realtà. È di una mostruosa vecchiezza e nuova in ogni momento. […] Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei. Fintanto che esiste la morte, ogni luce è un fuoco fatuo, poiché porta ad essa. Fintanto che esiste la morte, il bello non è bello, il buono non è buono»331. Descrivendo il timore di essere toccati dall'ignoto, l'autore intende anzitutto ovviare alla generale assuefazione alla morte che recinta la vita di ogni individuo nella sala d'aspetto della sua fine inevitabile: benché «la morte come desiderio si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell'uomo per trarla alla luce»332, infatti, essa viene solo raramente ammessa. Questa sorta di falsa coscienza peculiare dell'uomo di per sé rappresenta già una forma di reazione involontaria alla onnipresente minaccia di questo fenomeno, avvertito da ogni uomo sotto forma di un'angoscia incessante, così pervasiva da non abbandonare mai il groviglio delle sue reazioni psichiche. Ogni suo gesto, infatti, riflette la sua costante – anche se impercettibile – preoccupazione di evitare il contatto con ciò che non conosce, con l'ignoto che in quanto tale lo minaccia. Se non fossimo mortali, del resto, non avremmo neppure motivo alcuno di fare continuamente luce intorno a noi, di vedere chiaro ovunque si volga il nostro sguardo per sgomberare il nostro campo visivo dal timore di eventuali attacchi provenienti da sconosciuti ed estranei. Il divario tra il misconoscimento soggettivo della morte e la pervasività di questa imprescindibile minaccia è ulteriormente testimoniato dal fatto, quanto mai banale, che «l'uomo non crede mai del tutto alla morte finché non l'ha sperimentata. E la sperimenta negli altri. Essi muoiono dinanzi ai suoi occhi, ciascuno singolarmente, e ogni singolo che muore lo convince della morte»333 in generale, dunque anche della sua.
Non a caso, la prima reazione di chi si imbatte in un morto, specialmente se quest'ultimo lo riguarda in qualche misura, è l'incredulità. Pur di non credere alla sua morte, inizialmente si spia ogni eventuale movimento del suo corpo con trepida attesa se si tratta di un amico, con angosciosa diffidenza se invece è un nemico. Si tratta di una prima forma di autodifesa che l'uomo adotta per non prendere pienamente coscienza dell'inappellabile sentenza di condanna capitale che pende su di lui, così come su ogni altro essere vivente. Non appena sia stata accertata la dipartita del conoscente – amico o nemico che sia –, all'incredulità iniziale subentra immediatamente il terrore «di fronte alla realtà della morte, che si potrebbe definire l'unica realtà, una realtà talmente inaudita che include in sé tutto il resto»334. L'istantanea trasformazione dell'incredulità iniziale in terrore riflette la natura semi- contagiosa ascritta alla morte, che ricorda a ogni vita la sua prossima fine. La visione del morto proietta infatti sull'osservatore il terrore nei confronti della propria fine, costitutivamente mediata da
all'altro gli fosse tolta la parola. Vuole essere così denso che la parola non gli sia mai tolta».
331 E. Canetti, «Hermann Broch», 1936, in Id., La coscienza delle parole, cit., p. 27. 332 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 87.
333 E. Canetti, «Potere e sopravvivenza», 1962, in Id., La coscienza delle parole, cit., p. 44. 334 Ivi, p. 42.
quella altrui: il confronto con la morte altrui anticipa quindi la propria, anche se la prima è «meno di essa poiché non si muore veramente, più di essa perché ce n'è sempre anche un'altra»335.
In questo senso, ogni morte chiama in causa la vita che le sopravvive, accusandola di un reato coessenziale alla sua stessa durata. Sopravvivendo a tutte le morti altrui, ogni uomo è suo malgrado colpevole di vivere ancora; la pena inizialmente comminata per espiare tale colpa consiste nel fatto che ogni morte gli ricorda che anche la sua vita è condannata ad andare incontro alla sua fine. Si tratta del medesimo processo sommario celebrato in ogni epoca dallo stesso giudice imparziale proprio perché naturale, che minaccia di trascinare nell'anonimato ogni suo imputato. Neppure chi ha fatto dell'omicidio una professione per la sua vita può sfuggire del tutto a un simile confronto, che incute nel sicario il medesimo terrore provato da chiunque assista al corpo esangue di un amico morto. Questa assunzione del morto nell'osservatore rappresenta, secondo Canetti, la più profonda e la più degna mediazione cosciente di cui l'uomo sia capace. Si tratta di «un'esperienza della quale non dobbiamo vergognarci d'essere vittime e che proprio per questo si staglia nella vivida luce delle religioni»336, in cui per l'appunto la morte altrui ricorda a chi è sopravvissuto la propria e l'immedesimazione che ne deriva viene proiettata e veicolata nell'immagine della sopravvivenza dei morti stessi. Il silenzio a dir poco imbarazzato serbato da ogni uomo a proposito del confronto con la morte altrui è a dir poco emblematico di tale “sostituzione proiettiva”, in occasione della quale la morte altrui viene esperita come propria e la propria sopravvivenza viene proiettata su chi è morto. L'esperienza comune dell'assunzione del morto nell'osservatore, tuttavia, rimanda anche a un'ulteriore fase della sopravvivenza, altrettanto frequente ma del tutto indegna per l'uomo, «[...] che sta nel cuore del potere e anche della grandezza, e sul quale dobbiamo aprire gli occhi senza paura, senza riguardi, se vogliamo comprendere che cosa sia davvero e che cosa apparecchi il potere»337.
Ricordando allo spettatore la propria fine inevitabile, la morte altrui gli procura anche un'inconfessabile sensazione di sollievo, che compensa il terrore provato in precedenza dinanzi al corpo disteso del morto. Una soddisfazione latente prende immediatamente il sopravvento sul terrore di chi lo osserva, perché la morte altrui gli ricorda anche e soprattutto di essere scampato alla propria. Si tratti di un amico o di un nemico morto, il vissuto emotivo dell'osservatore è monopolizzato dalla sensazione di essere sfuggito alla morte da cui egli – come ogni altro – è minacciato. Dopo esser stata percepita come incredibile prima e terrificante poi, la morte altrui si rivela quindi piacevole. Chi vi assiste sente di aver evitato la propria, quasi come se l'avesse deviata su qualcun altro; «il vivo lo ha spinto avanti al suo posto»338. In quest'ultima fase del confronto con il morto, dunque, l'osservatore
335 Ivi, p. 43. 336 Ivi, p. 43. 337 Ivi, p. 43. 338 Ivi, p. 44.
non si limita a constatare, nella sua posizione eretta, che a morire è solamente colui che giace inerme a terra, ma individua addirittura un nesso causale indiretto tra la morte altrui, ormai definitiva, e la propria vita, come se egli vivesse ancora grazie alla morte di qualcun altro: «Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell'atto di sopravvivere, l'uno è nemico dell'altro; e ogni dolore è poca cosa se lo si confronta con questo elementare trionfo»339. Lo sa bene il protagonista di una delle commedie noir di Chuk Palahniuk, destinato a diventare l'ultimo superstite di una setta religiosa americana: quando la polizia scopre il corpo senza vita dell'assistente sociale assegnata a Tender Branson nell'ambito del programma di protezione dei superstiti della Chiesa Creedish, il suo ormai ex assistito non stenta a riconoscere che «con lei lì stesa e morta dopo dieci anni di colloqui a cuore aperto ogni settimana, il mio primo pensiero è stato, ecco un'altra buona ragione per rimettermi in piedi»340.
Incredulità, terrore, sollievo: questa, secondo Canetti, sarebbe la rapida sequenza di scosse registrata da un ipotetico sismografo installato nella coscienza di un uomo per misurare le gradazioni crescenti del terremoto emotivo inaugurato dal confronto con la morte di un suo simile. La sensazione di trionfo che pervade il sopravvissuto, tuttavia, è così aberrante da essere solitamente velata in ogni modo da chi la esperisce in prima persona. Il sollievo dovuto alla propria sopravvivenza solitamente non viene sfoggiato per l'intensità del dolore inflitto dalla perdita di una persona cara: «i nostri costumi esigono che un cadavere venga allontanato rapidamente. […] Un funerale, per quanta pompa possa avere, di solito non mette in evidenza la vista del cadavere, bensì è la cerimonia del suo
occultamento e della sua soppressione»341. Quand'anche il morto non fosse in rapporto intimo con il
vivo, infatti, difficilmente quest'ultimo esibirà la sua soddisfazione. Si tratta di un trionfo che resta sepolto nella coscienza di chi solitamente lo avverte solo di sfuggita, perché oltre a non farne parola con nessuno forse non lo ammetterà mai neppure dinanzi a se stesso. «La convenzione ha qui il suo valore: cerca di occultare e di contenere un moto la cui libera manifestazione avrebbe conseguenze assai pericolose»342, sostituendo ciò che realmente si sente nella profondità più insondabile del proprio animo con ciò che si deve sentire quando si sperimenta la morte di un altro essere umano.
Che il sopravvissuto provi vergogna o meno, in ogni caso «la situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere. Sopravvivere non è solo spietato, è qualcosa di concreto: una situazione ben delimitata, inconfondibile»343. È la concreta e irrecuperabile asimmetria vigente tra il corpo disteso del morto e quello eretto del sopravvissuto, troppo spesso schivata dai pensatori che si sono cimentati
339 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 273. 340 C. Palahniuk, Survivor, cit., p. 161. 341 Ivi, p. 557.
342 E. Canetti, «Potere e sopravvivenza», 1962, in Id., La coscienza delle parole, cit., p. 44.
343 Ivi, p. 44. Il concreto da cui la filosofia e le scienze specialistiche troppo spesso hanno omesso di fare i conti è
proprio la morte: cfr. E. Canetti, «Gespräch mit Uwe Schweikert. “Mich brennt der Tod”», (1983), in Id.,
con il potere, a fornire l'istantanea più accurata della passione sottesa a tale fenomeno e, in seconda istanza, a consentire di ricostruire il segreto processo con cui tale passione viene reiterata nella vita sociale. Se il disagio comunemente provato nel concreto istante della sopravvivenza misura l'umanità di chi assiste alla morte altrui in quanto è direttamente proporzionale alla dignità di chi le sopravvive, il piacere derivante dalla morte degli altri è sintomatico della natura patologica del potere. Anzi, l'inconfessabile desiderio di sopravvivere è così coessenziale e cooriginario alla psiche stessa del potere, da definire la sua condizione fisiologica “normale”, dal momento che il suo certificato di nascita originale e originario viene rilasciato sempre e soltanto in occasione di un funerale altrui: in questo senso, «l'istante del sopravvivere è l'istante della potenza»344. Poiché di vera e propria volontà di sopravvivenza [Wille zu Überleben] si tratta, tuttavia, l'oggetto di tale desiderio non può mai essere del tutto consumato, pena l'impossibilità di continuare a soddisfarla. Detto altrimenti, per essere esaudita la volontà di sopravvivenza non può mai essere assecondata del tutto: chi vuole sopravvivere, deve nel contempo salvaguardare la vita di coloro a cui vuole sopravvivere. In questo modo, la fame di sopravvivenza si rivela insaziabile, dal momento che il desiderio della morte altrui viene continuamente riattizzato dalla permanenza della sua condizione di possibilità, la vita altrui. La relazione di sopravvivenza deve necessariamente procrastinare la morte altrui per potersi garantire una certa stabilità spazio-temporale; nel contempo, la vita risparmiata dalla morte accresce ulteriormente la volontà di sopravviverle. Se l'istante della sopravvivenza coincide con l'istante della potenza provata da chi continua a vivere a dispetto della morte altrui, ogni forma di potere istituita tra gli uomini deve reiterare il sollievo associato all'istante della sopravvivenza fisica mortificando la vita dei sottoposti anziché ponendovi fine. Se nell'istante della sopravvivenza si sprigiona una sensazione soggettiva di potere che la morte altrui trasmette in eredità alla vita propria, quando si parla di potere oggettivo è la vita intera di chi obbedisce a fornire il “materiale umano” a cui sopravvivere; nel contempo, la vita di chi emette i comandi viene trasformata in una perenne rincorsa per la sopravvivenza.
Secondo Canetti non esiste forma di sopravvivenza che non infonda un'inconfessabile sensazione soggettiva di potere al sopravvissuto, così come non esiste forma istituzionale di potere che non assuma la vita altrui a polo conflittuale di una relazione di sopravvivenza. Benché apparentemente sovrapponibili da un punto di vista logico, tuttavia, sussiste una certa priorità cognitiva tra i due
344 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 273. In questo frangente, Jesi traduce il termine tedesco Macht con quello
italiano di “potenza”, anziché di potere come nel resto del testo. La traduzione mi sembra più che legittima, dal momento che il concetto tedesco di Macht utilizzato da Canetti differisce da quello di Herrschaft proprio per la sua ulteriorità semantica rispetto alle forme di potere legittimamente riconosciute, che non verrebbero comprese nella loro essenza se si prescindesse dal piacere della sopravvivenza: cfr. M. Weber, Dominio, cit.; G. Marramao,
Contro il potere. Filosofia e scrittura, cit., p. 42: «[...] il termine tedesco Macht possiede un'estensione semantica
più ampia del latino “potere” […] a seconda dei diversi contesti in cui viene utilizzato nell'opera di Canetti, esso sta a significare ora il “potere” propriamente detto, ora la “potenza”. Non per nulla, per rispettare questa maggior