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SOPRAVVIVERE: LA PASSIONE DEL POTERE

1. Il secolo della sopravvivenza

La morte sta davanti a noi, un po' come sulla parete dell'aula scolastica un'immagine della battaglia di Alessandro Magno. Ciò che importa è oscurare o cancellare quell'immagine con le nostre azioni, ancora in questa vita.267

«Tre fenomeni importanti e ben noti all'umanità hanno come conclusione dei mucchi di cadaveri. […] Sono la battaglia, il suicidio di massa e l'epidemia»268. Diverse sono, tuttavia, le cause, gli obiettivi e le modalità con cui i morti sono stati storicamente ammucchiati in occasione di ciascuna di queste devastanti circostanze. Se in ogni battaglia si è sempre trattato di uccidere in massa esclusivamente la schiera dei nemici, nel suicidio di massa sono gli stessi membri della propria comunità di appartenenza a rientrare nel mucchio finale dei morti. L'unica affinità che accomuna i due fenomeni in questione concerne pertanto l'intenzionalità con cui la morte – dei nemici in un caso, della propria stessa gente in un altro – viene attivamente perseguita dagli uomini. Solo in occasione di un'epidemia il mucchio dei propri morti non è frutto di un'azione deliberata: onde prevenire la minaccia del contagio, gli uomini si mantengono a distanza gli uni dagli altri. La speranza di sopravvivere in simili circostanze isola pertanto ogni vittima potenziale, di fronte alla quale sta la massa indistinta di coloro che sono già stati contagiati dall'epidemia. Diversamente dalle catastrofi naturali che procurano quasi simultaneamente la morte, inoltre, la fulmineità con cui si propaga un'epidemia non le impedisce di protrarsi anche per lunghi periodi di tempo, finché il numero dei morti finisce per superare quello dei vivi formando una vera e propria massa condannata a crescere ulteriormente nel suo insieme. Ecco perché, fra tutte le sciagure incontrate dall'umanità nel corso della storia, le grandi epidemie sono rimaste scolpite nella memoria di chi è sopravvissuto: in simili circostanze, la morte si dilata a tal punto nel tempo da lasciare a chi le sopravvive il tempo per vederla all'opera. Solo nell'epidemia gli uomini possono diventare testimoni passivi del massacro di vite umane che si svolge sotto i loro occhi269.

267 F. Kafka, Aforismi di Zürau, cit., p. 101. 268 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 331.

269 Cfr. E. Canetti, «Epidemie», in ivi, pp. 329-332. Da Omero ad Albert Camus, la storia della letteratura

occidentale è costellata da testimonianze circa le ripercussioni provocate dai mucchi di morti contagiati da epidemie come la peste sui sopravvissuti: a questo proposito, cfr. Omero, Iliade, Newton Compton, Milano 2010, libro I; Sofocle, Edipo re, Garzanti, Milano 2004; Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano 2003, libro II, 46-54; Lucrezio, De rerum natura, UTET, Torino 2005, libro VI, 1145-1196; G. Boccaccio,

L'epidemia di morte propagata dal potere nel corso del XX secolo rappresenta una sintesi inedita e perversa delle diverse forme di sopravvivenza a mucchi di morti conosciute dall'uomo nel corso della sua storia. Il Novecento è infatti riuscito a organizzare in modo scientifico, dunque più che

intenzionalmente, l'assassinio di massa di milioni di nemici interni ed esterni270, prolungando per

l'intero arco della sua durata la proiezione di questo repellente spettacolo di morte271. Perciò l'esperienza di quanti sopravvissero a questa visione non ha precedenti nella storia di coloro che scamparono alla morte in battaglia272, in un suicidio di massa273, in un terremoto o, ancora, di chi sopravvisse a un'epidemia dopo esserne stato contagiato274. L'Europa stessa assunse le fattezze di un immenso cimitero a cielo aperto, in cui per la prima volta furono ammassate le vittime contagiate da una generale e premeditata epidemia di morte propagatasi in uno stesso luogo sui contemporanei di

una stessa epoca275.

Il valore paradigmatico assunto dalla morte nel corso del cosiddetto secolo breve276 autorizzerebbe forse addirittura a ribattezzare l'arco di tempo compreso tra lo scoppio della prima guerra mondiale e la disfatta dell'Unione Sovietica anche e soprattutto come il secolo della sopravvivenza. Una tale variazione terminologica consentirebbe di non ridurre a mero dettaglio trascurabile l'impressionante

numero di morti prodotti su scala industriale nel corso del Novecento277, senza peraltro confondere

2011, cap. XXXI; D. Defoe, Journal of a Plague Year, 1722; tr. it. di E. Vittorini, La peste di Londra, Bompiani, Milano 1995; A. Camus, La peste, Gallimard, Paris 1947; tr. it. di B. Dal Fabbro, La peste, in Id., (a cura di) R. Grenier, Opere, cit., pp. 369-615.

270 Non a caso, una delle più acute testimoni del Novecento ha notato che «la differenza decisiva fra la

dominazione totalitaria, basata sul terrore, e le tirannidi e le dittature, fondate con la violenza, è che la prima si rivolge non solo contro i propri nemici ma anche contro gli amici e i sostenitori, avendo paura di qualsiasi potere, anche del potere dei suoi amici. Il colmo del terrore raggiunge il proprio culmine quando lo Stato di polizia comincia a divorar i propri figli, quando i boia di ieri diventano le vittime di oggi. E questo è anche il momento in cui il potere scompare del tutto», H. Arendt, On Violence, Harcourt Brace & Company, 1970; tr. it. di S. D'Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, pp. 60-61.

271 Cfr. E. Wiesel, La nuit, Les Editions de Minuit, Paris 1958; tr. it. di D. Vogelmann, La notte, La Giuntina,

Firenze 1980, pp. 37-38: giunto a Birkenau nel 1944 insieme ad altri deportati ebrei, l'autore racconta che «non lontano da noi delle fiamme salivano da una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi si bruciava qualche cosa. Un autocarro si avvicinò e scaricò il suo carico: erano dei bambini. Dei neonati! Sì, l'avevo visto, l'avevo visto con i miei occhi... Dei bambini nelle fiamme».

272 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 314-315. 273 Cfr. ivi, p. 314.

274 Canetti si sofferma sull'esperienza del sopravvissuto in seguito a un'epidemia nelle pagine in cui viene narrata

la ripopolazione della tribù dei Kutenai, cfr. ivi, pp. 312-314.

275 Della sopravvivenza della precedente umanità in generale si era sempre fatta esperienza nei cimiteri ed essa si

ricollegava sempre «alla sopravvivenza in un'epidemia: in luogo della peste, si tratta di un'epidemia di morte in generale, concentratasi in un unico luogo da epoche diverse», ivi, p. 301.

276 Cfr. E. J. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century, 1914-1991, Michael Joseph, London;

Viking Penguin, New York 1994; tr. it. di B. Lotti, Il secolo breve 1914-1991, BUR, Milano 2009 (IV ed.).

277 Fu Canetti stesso ad annotare da un giornale nel 1932 che «con i suoi 23 000 000 morti la guerra mondiale ne

ha prodotti più del triplo della guerra dei sette anni, della rivoluzione francese, della guerra napoleonica, della guerra di Crimea, della guerra civile americana, della guerra russo-giapponese e di tutte le guerre balcaniche insieme», da S. Hanuschek, «Dieser hellerleuchtete, entsetzliche Tag. Elias Canetti als Zeitzeuge des Wiener Justizpalastbrandes», in (Hrsg. von) T. Köhler und C. Mertens, Justizpalast in Flammen. Ein brennender

l'inedita qualità del male perpetrato dai regimi totalitari con la mera somma aritmetica delle rispettive vittime. Del resto, è proprio all'insegna del contrasto permanente tra la vita umana auto-conservatasi

mentre quella di altri uomini veniva spezzata che il recente passato non consente di essere

frettolosamente derubricato come una mera parentesi storica all'interno dell'equazione illuministica di modernità e progresso. Tale, per l'appunto, era stata l'operazione “laicamente” calcolata dagli intellettuali europei per risolvere il problema della presenza del male nel mondo, dopo che il dibattito pubblico innescato sul finire del XVIII secolo dal terremoto di Lisbona aveva decretato il fallimento definitivo di ogni teodicea278.

Precocemente confutata dalle intuizioni profetiche di Nietzsche e Dostoevskij279, la validità di questa equazione tipicamente intellettuale non fu irrimediabilmente compromessa “solo” dall'incommensurabilità dei crimini commessi dai regimi totalitari280, ma anche e soprattutto Dornbusch, Verlag für Geschichte und Politik, Wien 2006, pp. 148-149 [Ekzerpt Canettis aus dem Amsterdamer

“Telegraf”; Block 11, April 1932, Nachlass Elias Canetti in der Zentralbibliothek Zürich, Schachtel 3].

278 Cfr. J. Shklar, «Sventura e ingiustizia», in Id., The face of Injustice, Yale University, London, 1990; tr. it. di R.

Rini, I volti dell’ingiustizia, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 63-99. In queste pagine l'autrice ravvisa nel terremoto che colpì la città di Lisbona nel 1755 uno degli eventi fondatori della coscienza moderna: «a fare di esso un disastro memorabile non è la distruzione di una città ricca e splendida, né la morte di dieci-quindicimila persone sotto le macerie, bensì la reazione intellettuale innescatasi in tutta Europa. È stata l'ultima volta che i piani di Dio sull'uomo sono stati oggetto di un dibattito pubblico generale in cui si sono impegnate le menti più notevoli del tempo. Fu l'ultima significativa protesta contro l'ingiustizia divina, che di lì a poco sarebbe diventata intellettualmente irrilevante». La riflessione su e la messa in discussione del concetto stesso di Dio tramandato dalla tradizione religiosa occidentale – in particolare quella ebraica – dopo Auschwitz è al centro del saggio di H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine Judische Stimme, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1987; tr. it. di C. Angelino, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, il melangolo, Genova 2004. Sulla parabola concettuale compiuta dalla filosofia in tema di ermeneutica del male dal terremoto di Lisbona ai nostri giorni passando attraverso la stazione obbligata di Auschwitz, si veda E. Donaggio, «Prima stazione, Auschwitz», in Id., Che male c'è. Indifferenza e atrocità tra Auschwitz e i nostri giorni, l'Ancora del mediterraneo, Napoli 2005, pp. 45-64.

279 Cfr. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, cit., p. 156: «prefigurate dentro le viscere del pensiero, le

strutture descritte da Nietzsche e da Dostoevskij si sono ben presto realizzate nell'esteriorità più brutale. Il Grande Inquisitore russo del XX secolo c'è stato davvero, e così anche il superuomo nazional-ariano: strumentalisti in grande stile entrambi, cinici all'estremo riguardo ai mezzi e pseudoingenuamente “morali” in rapporto ai fini». Del primo si veda, in particolare, F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, cit. e, del secondo, F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit.

280 L'assoluta insensatezza delle pratiche di sterminio, così come l'anti-utilità dei costi impiegati per porle in

essere segnalano la loro piena razionalità in rapporto al tentativo ideologico-totalitario di rendere superflui gli uomini. Semplificando e promuovendo attivamente la maledizione stereotipata di quanti ne erano stati esclusi, l'autoproclamazione della razza eletta da parte dei nazisti ha consentito al Terzo Reich di non limitarsi a perfezionare scientificamente le tecniche di sterminio adottate contro gli ebrei, ma anche e soprattutto di rendere peggiore della morte la vita stessa di questo nemico interno, appositamente designato come l'incarnazione storica del male: «questo è l'inferno: non la morte, ma il suo prolungamento indefinito, la sua sottrazione all'attimo e la sua consegna all'eternità», R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica, il Mulino, Bologna 2011 (II ed.), p. 208 (la prima edizione del testo apparve nel 1993 col titolo di Nove pensieri sulla politica). Se, come ebbe a notare Sartre, fu “l'antisemita a creare l'ebreo”, d'altro canto la de-umanizzazione del popolo eletto da Dio fornì ai suoi carnefici la migliore conferma pratica della loro auto-identificazione con la razza eletta dalla storia a rappresentare l'avvento intramondano dell'Übermensch: «è l'umanità inferiore, e anzi la non-umanità, degli ebrei a fornire la carta d'identità di ultrauomini a coloro che la “mandavano in fumo”», ivi, p. 220. Cfr. J. -P. Sartre,

Réflexions sur la question juive, Gallimard, Paris 1954; tr. it. di I. Weiss, L'antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano 1990.

dall'incolmabile discontinuità di vedute interpretative maturate all'interno della tradizione ermeneutica del male dopo Auschwitz281. Le strategie metafisiche con cui la teologia prima282, l'illuminismo poi283 avevano inteso disinnescare la contraddizione latente tra i loro postulati di fede e l'innegabile presenza del male nel mondo, infatti, erano state vanificate in un sol colpo dal carattere mimetico assunto nel corso del Novecento dal male politico per eccellenza, il nazismo: «il male è essenzialmente tale non quando si oppone al bene, ma quando lo imita parlando in suo nome, col suo linguaggio, con la sua

voce. Quando si oppone al male come assoluto bene: la sua perfetta mimesi»284. Proprio le soluzioni

compensatorie avallate dalla tradizione del pensiero occidentale per neutralizzare o, addirittura, rimuovere il male avevano reso innocui gli anticorpi metafisici assunti in grandi dosi dalla modernità per immunizzarsi dalla sua portata storica. Di contro alle speranze riposte nelle sue promesse, in altri termini, l'illuminismo dimostrava di essersi convertito nello stesso mito cui originariamente intendeva subentrare, trascinando la pretesa disgiunzione di modernità e barbarie nell'esito perverso della loro piena ricongiunzione e convergenza storica285: «le ideologie che mirano al bene assoluto – l'imposizione della società giusta, l'affermazione della razza eletta, il perfetto funzionamento della macchina – […] contribuiscono a creare il male assoluto. La barbarie appare così inscritta

281 È d'obbligo rinviare nuovamente al capolavoro di H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. Cfr. S. Forti, La

filosofia di fronte all’estremo, in Id. Il totalitarismo, Laterza, Roma 2001, pp. 67-114.

282 Tali sono la riduzione del male alla contingenza del peccato, la sua de-realizzazione nella dottrina della

privatio boni e la sua strumentalizzazione quale mezzo per conseguire il bene, secondo F. Hermanni e P.

Koslowski (a cura di), Die Wirklichkeit des Bösen: systematisch-theologische und Philosophische

Annäherungen, Fink, München 1998. La tradizione della teodicea risalente all'agostinismo politico aveva

concepito negativamente il male, attribuendogli il significato privativo e deficitario di “assenza di bene” o

privatio boni. Per converso, il fatto che il bene non si fosse storicamente dispiegato in tutta la sua potenziale

espansione faceva il paro con il tentativo di relativizzare la presenza nel mondo del suo contrario, inteso come libertà non ancora dispiegata. Un altro versante della teodicea si era invece ispirato alla tradizione del manicheismo gnostico, che aveva concepito il male nei termini di una forza storicamente in lotta contro il bene. Cfr. G. Riconda, Bene/Male, il Mulino, Bologna 2011.

283 L'obiettivo dichiarato della teodicea è sempre consistito nel neutralizzare la contraddizione vigente, da una

parte, tra la fede in un Dio onnipotente e giusto e, dall'altra, la presenza del male nel mondo: la teologia cristiana risolse questo dissidio riconducendo l'origine del male all'accidentalità del peccato commesso dall'uomo. Il paradigma della colpa che accomuna cristianesimo ed ebraismo riesce a dare un significato alla sofferenza umana intendendo la colpa sia come pena e punizione sia come espiazione e redenzione. Per converso, l'illuminismo aveva intravisto nel processo di secolarizzazione la possibilità di ridimensionare, se non addirittura di eliminare, l'immaginario teologico in cui erano inscritte le nozioni di peccato e senso di colpa, sostituendole con gli istituti moderni del crimine e della pena: in ciò si risente l'eredità postuma dell'intellettualismo socratico, secondo cui il male è l'effetto di un difetto di conoscenza dell'uomo, un errore, in quanto tale rimediabile eliminando nel tempo – e non al di fuori di esso – le cause soggettive dell'ignoranza e quelle oggettive dell'ingiustizia sociale.

284 R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica, cit., p. 205.

285 Cfr. M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, cit. Il tentativo di «comprendere perché

l'umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie» ha attraversato il resto della produzione filosofica di entrambi gli autori: a questo proposito, si veda anche M. Horkheimer, Eclipse of Reason, Oxford University Press, New Y 1947; tr. it. di E. V. Spagnol, Eclisse della

nell'orizzonte della modernità e lo sterminio un esito possibile della civilizzazione»286.

Sostituendo l'illuministica contrapposizione dei due termini in questione con la loro compenetrazione reciproca, la storia recente del XX secolo aveva coniugato al presente ciò che ogni culto storicista, prima di essa, poteva ancora permettersi di relegare a un mitico passato. Proprio nell'epoca in cui il definitivo superamento della barbarie sarebbe dovuto giungere a compimento, i suoi esecutori materiali trovarono terreno fertile per coltivarla là dove era stato cullato il sogno di un'umanità finalmente emancipata dalle catene dell'ignoranza e della miseria287. Ecco perché, quando sul finire di Masse und Macht Canetti sembra cedere alla tentazione di rivelare apertamente i propositi della sua opera, scrisse che «a un europeo del XX secolo non si addice affatto presumere d'essere superiore alla barbarie»288. Se diversità sostanziale esisteva tra le personalità che misero in ginocchio l'Europa nel secolo scorso e i loro predecessori, essa infatti consisteva nella minor perizia con cui i secondi erano stati in grado di ideare mezzi più efficienti per assecondare le medesime intenzioni che avevano animato i primi. A tal proposito, Canetti si domanda: «chissà se i soprusi dell'inferno erano minori quando si credeva ancora ad esso? Chissà se le nostre nature infernali erano più sopportabili quando sapevano dove sarebbero andate a finire? Noi, fieri di avere eliminato l'inferno, lo diffondiamo adesso dappertutto»289. A confronto con la realtà, le più pessimistiche profezie formulate nel corso della storia dell'umanità risultavano addirittura eufemistiche: «[...] nessuna delle antiche religioni può bastare, provengono tutte da periodi idilliaci»290. Nel secolo in cui l'esperienza della sopravvivenza a milioni di morti ha preso il sopravvento su ogni altra dimensione della realtà, quest'ultima ha ampiamente superato ogni più sadica utopia immaginata in passato da risultare infine ancor più incredibile di quest'ultima: l'immaginazione stessa dell'uomo sembra non riuscire a tenere il passo con le sfide poste all'ordine del giorno dagli strumenti di distruzione di massa perfezionati fino ai giorni nostri291.

286 P. P. Portinaro, «Introduzione», in Id. (a cura di), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002, p. XXX. Sulla

dialettica paradossale che congiunge, anziché disgiungere, modernità e barbarie, cfr. M. Miller e H. -G. Soeffner,

Modernität und Barbarei. Soziologische Zeitdiagnose am Ende des 20. Jahrhunderts, Suhrkamp, Frankfurt a. M.

1996 e T. Todorov, Mémoire du mal. Tentation du bien, Editions Robert Laffont, Paris, 2000; tr. it. di R. Rossi,

Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2004 (II ed.) e Id., Face à l'extrême, Éditions du Seuil,

Paris 1991; tr. it. di E. K. Imberciadori, Di fronte all'estremo, Garzanti, Milano 2011 (II ed.).

287 Questo, del resto, sembra essere il filo rosso delle testimonianze raccolte in P. Agosti, G. Borgese (a cura di),

Mi pare un secolo: ritratti e parole di centosei protagonisti del Novecento, Einaudi, Torino 1992.

288 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 499. Si veda anche E. Canetti, La provincia dell'uomo, cit., p. 152:

«pensare che la crudeltà degli assiri, proprio quella crudeltà sistematica, sarebbe poi impallidita, e noi stessi l'abbiamo visto accadere. Così il baricentro morale della storia si è spostato per sempre, e i barbari che ci facevano paura quando eravamo bambini siamo stati noi, il nostro tempo, la nostra generazione: solo che noi lo siamo stati di più».

289 E. Canetti, La provincia dell'uomo, cit., p. 346. Cfr. anche E. Canetti, La tortura delle mosche, cit., p. 120:

«[...] era più facile allora, quando si aveva la prospettiva di andare all'inferno. Questa prospettiva, la scomparsa degli esseri umani in un tempo ragionevole, è la più atroce che sia mai esistita».

290 E. Canetti, La provincia dell'uomo, cit., p. 347.

D'altra parte, analoghi meccanismi di rimozione adottati per eludere più o meno consapevolmente il male sembrano operare ancora oggi, dinanzi alle minacce che incombono sull'intero pianeta e che hanno definitivamente messo in discussione i tradizionali confini politici da cui in precedenza

provenivano analoghi pericoli di distruzione planetaria292. Come ebbe a scrivere Canetti nel 1944,

anche «il progresso ha i suoi svantaggi: di tanto in tanto esplode»293. Proprio la crescente razionalità degli strumenti di sterminio adottati dal potere nel corso del Novecento aveva consentito alla barbarie di pervenire al suo culmine, fino a prefigurare la minaccia incombente della distruzione nucleare294. Il rischio inedito prefigurato da una simile parabola potenzialmente auto-distruttiva295 suggeriva di vagliare il significato della nozione di sopravvivenza in un senso ulteriore rispetto all'accezione attribuitale nel linguaggio comune. Pronunciate nel 1980, sono nuovamente le parole stesse di Canetti a testimoniare, meglio di ogni ulteriore citazione bibliografica, il peso insopportabile lasciato in eredità dai morti del XX secolo ai suoi superstiti e, soprattutto, a precisare il senso specifico che la