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[...] il prezzo che di solito paghiamo per sopravvivere è la nostra vita.199 «La vita non vive»200 proprio perché si ostina a sopravvivere: questa parziale ma decisiva integrazione alla citazione di Ferdinand Kürnberger – riportata da Adorno in apertura della prima parte di Minima Moralia – potrebbe forse fungere da introduzione ideale a un testo sfacciatamente “inattuale” come Masse und Macht, che nell'esperienza attivamente ricercata della sopravvivenza ha rinvenuto la radice ultima delle offese arrecate alla vita201 e nella sua difesa dalle mortificanti ferite inferte dal potere ha ravvisato la propria missione, solo apparentemente impossibile.

A misurare questa presunta impossibilità era la sproporzione delle forze in campo schierate dal e

contro il nazionalsocialismo negli anni del suo dominio incontrastato sulla scena europea: da una

parte, le parole del potere totalitario, la cui propaganda onnipervasiva aveva contaminato ogni frammento della realtà e addomesticato le masse che avevano contribuito al suo iniziale trionfo202 e, dall'altra, il potere delle parole di interrompere il circolo vizioso della sopravvivenza, restituendo voce a chi non poteva più fare direttamente udire la propria. Pura violenza [Gewalt] del potente [Machthaber] contro assoluta impotenza [Ohnmacht] degli scrittori, dunque. Una lotta impari, certo, ma solo in apparenza condannata in partenza alla disfatta dei secondi. Proprio le parole del potere,

199 La citazione è dello scrittore ebreo viennese Arthur Feldmann ed è riportata in S. Žižek, Living in the End

Times, Verso, London-New York 2010; tr. it. di C. Salzani, Vivere alla fine dei tempi, Salani, Milano 2011, p. 18.

200 Cfr. T. W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp, Frankfurt a. M.,

1951; tr. it. di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994 (II ed.), p. 9. «Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un'appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria», ivi, p. 3.

201 Cfr. E. Canetti, «Gespräch mit Rudolf Hartung», (1971) in Id., Aufsätze. Reden. Gepräche, cit., pp. 238 e Id.,

«Gespräch mit Gerald Stieg», (1979) in ivi, pp. 318-329: «la sopravvivenza a danno degli altri esseri umani costituisce per me il germe del sentimento di potenza» [[...]das Überleben anderer Menschen für mich den Keim des Machtsgefühls darstellt].

202 Cfr. A. Koyré, Réflexions sur le mensonge, Allia, Paris 2004; tr. it. di C. Tarditi, Sulla menzogna politica,

Lindau, Torino 2010 (pubblicato per la prima volta a New York nel primo numero della rivista trimestrale «Renaissance», École Libre des Haute Études, vol. I, gennaio-marzo 1943). «Non si è mai mentito come al giorno d'oggi. E neppure si è mai mentito in modo così sfrontato, sistematico e continuo», ivi, p. 7: le parole di Koyré individuano nell'hitlerismo – modello di ogni regime totalitario – l'apice del connubio tra menzogna e politica moderna. Diversamente dalle società segrete del passato, infatti, i totalitarismi novecenteschi si configurano come delle inedite cospirazioni alla luce del sole, che agiscono in pubblico mantenendo segreto il loro perverso proposito di opprimere le masse. Ecco perché, se nessuna forma di potere può fare a meno del ricorso alla menzogna, i totalitarismi si fondano sul suo primato, volto a dominare le masse col loro stesso

consenso. In questo senso, il peso assunto dalla menzogna nella politica moderna è direttamente riconducibile

infatti, avevano indirettamente dimostrato e restituito agli scrittori di professione il potere delle loro parole, privandoli nel contempo di ogni futile pretesto per non schierarsi contro la morte e i suoi emissari. Se a oltre cinquant'anni di distanza dalla sua pubblicazione Masse und Macht conserva ancora un'aura di inattualità è anche e soprattutto perché il suo autore non esitò a formulare e attenersi in prima persona alla missione impossibile che il suo tempo gli aveva affidato, strappando con le sue parole le ipocrite maschere indossate dalla cinica autoconservazione del potere a discapito di intere masse condannate a morte dopo essersi sottomesse alla volontà di una sola guida [Führer], dalla

sopravvivenza per l'appunto203.

D'altra parte, le accuse di inattualità solitamente rivolte a un testo come Masse und Macht non possono essere frettolosamente liquidate enfatizzando univocamente la presunta eccezionalità dell'impegno intellettuale profuso dal suo autore nel corso della sua stesura, protrattasi per oltre trent'anni della sua vita. Prima ancora dei neologismi appositamente coniati da Canetti per afferrare il XX secolo alla gola, sono anzitutto le rivisitazioni semantiche di concetti classici indagati dai più diversi campi disciplinari del sapere come “massa” e “potere” a suscitare le maggiori resistenze in chiunque non abbia già acquisito una certa dimestichezza con il vocabolario dell'autore, così autonomo da rasentare la più assoluta autoreferenzialità e correre il rischio di ingabbiare il lettore, fino a isolare qualsiasi interprete entusiasticamente impegnato nell'impresa di restituirne l'inesauribile attualità. I

203 Cfr. E. Canetti, Heute hab ich geschlossen..., in Id., Über den Tod, Hanser, München–Wien 2003, p. 5: «15

Febbraio 1942. Oggi ho deciso di annotare i miei pensieri contro la morte, così come vengono, a caso, senza alcuna connessione e senza che essi si sottomettessero a un piano tirannico. Non posso lasciare passare questa guerra senza forgiare nel mio cuore l'arma che vinca la morte. Sarà un’arma straziante ed insidiosa, commisurata alla morte. In un tempo più ampio, volevo agitarla con scherzi e arroganti intimidazioni; mi immaginai l'uccisione della morte come una festa in maschera; in cinquanta travestimenti, una sorta di cospirazioni, volevo spingermi addosso a essa. Ma ora lei ha di nuovo agguantato la maschera. Non contenta delle continue vittorie diurne, si diffonde a destra e a sinistra. Essa vede l'aria e il mare, il più piccolo al pari del più grosso le è sospetto e compiacente, interessa tutti ancora una volta, non si lascia più tempo per nulla. Anche a me non rimane più tempo alcuno. Io devo afferrarla, là dove io sono in grado, inchiodarla qua e là a ogni nuova frase. Ora non posso costruirle alcuna bara, ancora meno guarnirla, e men che meno riporre le bare già decorate all’interno di mausolei muniti di pesanti inferriate. Pascal è invecchiato fino a 39 anni, io ne ho quasi trentasette. Se condividessi il suo destino, mi rimarrebbero due aridi anni di tempo. Quanta fretta! Ha lasciato in eredità pensieri disordinati in difesa del Cristianesimo. Io voglio afferrare i miei pensieri per difendere l'uomo dalla morte» [15. Februar 1942. Heute hab ich beschlossen, meine Gedanken gegen den Tod so aufzuzeichnen, wie Sie mir durch Zufall kommen, ohne jeden Zusammenhang und hone sie einem tyrannischen Plan zu unterwerfen. Ich kann diesen Krieg nicht vorübergehen lassen, ohne in meinem Herzen die Waffe zu hämmern, die den Tod bezwingt. Sie wird qüalend und heimtückisch sein, ihm angemessen. Ich wollte sie, in breiteren Zeiten, unter Späßen und dreisten Drohungen schwingen; die Erlegung des Todes stellte ich mir wie ein Maskenfest vor; und in fünfzig Verkleidungen, lauter Verschworenen, wollte ich mich an ihn herandrängen. Aber jetzt hat er wieder die Masken gepackt. Mit den laufenden Siegen des Tages nicht zufrieden, greift er links und rechts um sich. Er sieht die Luft und das Meer, das Kleinste wie das Größte ist ihm geheuer und genehm, er geht alles auf einmal an, für nichts mehr läßt er sich Zeit. So bleibt auch mir keine Zeit. Ich muß ihn packen, wo ich es kann, und da und dort in die erstbesten Sätze nageln. Ich kann ihm jetzt keine Särge zimmern, noch weniger sie verzieren, am wenigsten die Verzierten in harte, vergitterte Mausoleen legen. Pascal ist neununddreißig Jahre alt geworden, ich bin bald siebenunddreißig. Mit seinem Schicksal hätte ich dürre zwei jahre Zeit! Welche Eile! Er hat die ungeordneten Gedanken zur Verteidigung des Christentums hinterlassen. Ich will meine Gedanken zur Verteidigung des Menschen vor dem Tode fassen].

termini più ambigui di Masse und Macht corrispondono proprio a nozioni prima facie elementari come “potere” e “sopravvivenza”, dalla cui combinazione viene tuttavia stravolto il significato comunemente associato a entrambe. Questo primo scoglio ermeneutico può essere preliminarmente evitato solo affrontando direttamente l'esperienza fondamentale da cui entrambi i fenomeni appena richiamati traggono il loro senso specifico: la morte.

“Mi rivolto alla morte, dunque siamo”204: la rivolta contro l'assurdo all'insegna della quale Albert Camus aveva aggiornato la celebre formula del cogito cartesiano viene ulteriormente precisata da Canetti nei termini di una ribellione permanente contro l'assurdo per eccellenza, la morte per l'appunto, che in quanto tale non può rivendicare senso alcuno a proprio sostegno205. Se in Masse und

Macht il potere viene assunto come sinonimo di un'esperienza apparentemente innocua come la

sopravvivenza, del resto, è proprio perché sono i suoi detentori storici a tentare ostinatamente di attribuire un senso all'assurdità della morte altrui: «il XX secolo è per Canetti il tempo che si è consegnato alla morte e al potere, ossia alla messa in opera della morte in tutte le sue forme. Affrontarli a viso aperto, resistere loro, strappare la loro “spina”, sarà […] il suo modo di praticare “il mestiere di poeta”»206. Una sfida, questa, che non ha nulla a che vedere con un'effimera avversione a un imprescindibile dato biologico207, ma che è «piuttosto da intendere da un lato come critica della dimensione sociale dell'esperienza della morte, della sua elaborazione culturale, e dall'altro più

204 Cfr. A. Camus, L'Homme révolté, Gallimard, Paris 1951; tr. it. di L. Magrini, L'uomo in rivolta, in Id., (a cura

di) R. Grenier, Opere, Bompiani, Milano 1996, p. 643: «In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell'ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l'individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo». Si veda anche A. Camus, Remarque sur le révolte, 1945, in Id., Œuvres complètes, III, 1949- 1956, Gallimard, Paris 2008, pp. 325-337; tr. it. di S. Del Bono, Nota sulla rivolta, in «La società degli individui», (a cura di) M. Weyembergh, n. 42, 2011, pp. 95-112: composto tra il 1942 e il 1945, il saggio registra la fondamentale transizione dalla “rivolta solitaria” condensata ne La morte felice, Lo straniero e ne Il mito di

Sisifo alla “rivolta solidale” configurata in L'uomo in rivolta.

205 A tal proposito, le parole di Canetti sono alquanto inequivocabili: «lo sforzo più grande della vita è di non

abituarsi alla morte», E. Canetti, La provincia dell'uomo, cit., p. 310. Non a caso, poco dopo la morte di Canetti, Roberto Calasso ha scritto che «Canetti è stato maestro dell'unica resistenza che non conosce limiti né tregue: la resistenza contro la morte», R. Calasso, Seduti in quel caffé, in «La Repubblica», 19 Agosto 1994, p. 29. Sul problema della morte come architrave dell'opus canettiano, si veda E. Piel, «Der Gewalt den Garaus machen», in (Hrsg. von) Hanser, Hüter der Verwandlung. Beiträge zum Werk Elias Canetti, cit., pp. 148-166 e Id, «Aus Gesprächen mit Peter Laemmle», in Id., Aufsätze. Reden. Gepräche, cit., p. 339-345 (pubblicato per la prima volta nel 1999).

206 Y. Ishaghpour, Elias Canetti. Metamorfosi e identità, cit., p. 218. Il volume raccoglie alcuni interventi

pubblicati su diverse riviste europee (Id., Pour saluer Canetti, in «Austriaca», n. 2, 1983 (la cui versione in tedesco è tradotta col titolo Variationen über den Selbst-Denker Canetti, in «Literatur und Kritik», nn. 177-178, 1983); Id., Canetti: métamorphose et identité, in «Passé Présent», n. 4, 1984 (la cui versione in tedesco è tradotta col titolo Zu «Masse und Macht», in F. Aspetsberger und G. Stieg (a cura di), Elias Canetti. Blendung als

Lebensform, cit.; Id., Elias Canetti, in «Cahiers de la Différence», nn. 7-8, 1989 (la cui versione in tedesco è

tradotta col titolo Masse und Macht im Werk Elias Canettis, in J. Pattillo-Hess (a cura di), Tod und Verwandlung

in Canettis «Masse und Macht». Canetti Symposion, Kunstverein, Wien 1990.

207 Cfr. M. Reich-Ranicki, “Marrakesch ist überall”, in Id., Entgegnungen. Zur deutschen Literatur der siebziger

Jahre, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1979, pp. 47-52, che nel sostenere la tesi richiamata nel testo ascrive

propriamente come denuncia della condizione alienata propria dell'essenza stessa del soggetto e della sua esistenza nel mondo»208. Se la solitaria dichiarazione di guerra contro la morte che scandì la vita e le opere di Canetti ha generato incomprensioni e malintesi in critici e lettori non è solo perché il loro autore ha alternato affermazioni talvolta generiche209 a prese di posizione altrettanto circostanziate e difficilmente fraintendibili210. Una resistenza così ostinata desta tuttora scandalo proprio perché non accenna in alcun modo a venir meno l'abitudine a concepire la morte come un'esperienza connaturata alla vita stessa e, dunque, a naturalizzare indirettamente anche la mortificazione della vita di cui si

nutre il corpo obeso del potere211. L'una e l'altra, come vedremo, non possono essere in alcun modo

disgiunte, per quanto mere esigenze di chiarezza espositiva impongano di analizzare e introdurre entrambe distintamente.

A me sembra che senza una nuova impostazione nei confronti della morte non ci sia niente di veritiero da dire riguardo alla vita. L'esserci vuol essere ovunque, altrimenti non è l'esserci. Io non ammetto la morte, non ammetto una sola morte. Il fatto che muoiano anche le pulci e le zanzare non fa sì che la morte mi appaia più concepibile dell'atroce storia del peccato originale. Non fa differenza se qualcosa di noi è destinato a rimanere da qualche parte oppure no. Noi, qui, non viviamo abbastanza. Qui non abbiamo il tempo di farci valere. E poiché ammettiamo la morte, va a finire che la utilizziamo. Perché mai non dovrebbero esserci gli assassini se all'uomo morire sarebbe adeguato, e non se ne vergogna, e ha

incorporato la morte nelle sue istituzioni come se essa fosse il loro migliore, più sicuro e ragionevole

fondamento?212

Accettare la morte significa anzitutto accettare che gli altri muoiano. A rigor di termini, la morte in generale può essere esperita da qualsivoglia soggetto ancora vivente solo quando colpisce qualcun altro in particolare. Non si tratta, secondo Canetti, soltanto di un'innocente e sofferta presa di coscienza del soggetto in seguito alla scomparsa definitiva delle persone che lo circondano. Se il desiderio di trattenere o addirittura di riportare in vita chi non c'è più si staglia al centro di ogni esperienza religiosa, laicamente concepita come volontà di condividere ancora la propria vita – di

208 R. Puntin, Elias Canetti. A nude parole contro la morte, Lint, Trieste 2000, p. 13. A questo proposito, si veda

anche D. Barnouw, Elias Canetti. Zur Einführung, Junius, Hamburg 1996.

209 Cfr. E. Canetti, La provincia dell'uomo, cit., p. 173: «È peccato per tutti. Nessuno sarebbe mai dovuto morire.

Il peggiore delitto non meritava la morte e senza il riconoscimento della morte non ci sarebbero mai stati i peggiori delitti». Nella stessa pagina si può leggere un altro appunto, non meno ambiguo: «Ti chiedono sempre che cosa vuoi dire, quando insulti la morte. Vorrebbero da te quelle speranze da poco che vengono dipanate dalle religioni fino alla nausea. Ma io non ne so niente. Non ho niente da dirne. Il mio carattere, e il mio orgoglio, consistono in questo: che finora, non ho mai lusingato la morte. […] Mi sembra inutile e malvagia come sempre, mi sembra il male primordiale di tutto ciò che esiste, l'irrisolto e l'incomprensibile, il nodo in cui tutto da tempo immemorabile è stretto e preso e che nessuno ha osato recidere».

210 Cfr. ivi, p. 302: «questa gente, che sorridendo, contribuisce a sostenere la morte affermando che c'è un istinto

di morte. Che altro hanno detto con questo, se non che la resistenza contro la morte è in ogni caso troppo debole?».

211 Cfr. E. Canetti, «Gespräch mit Joachim Schickel», (1972) in Id., Aufsätze. Reden. Gepräche, cit., pp. 258-259

e Id., «Gespräch mit Uwe Schweikert. “Mich brennt der Tod”», (1983), in ivi, pp. 330-331.

convivere – con chi ormai è morto, la comune accettazione della morte altrui è direttamente

riconducibile al rifiuto della propria: la morte altrui ricorda a chi le sopravvive il suo ineluttabile destino; consapevole di dover morire, il sopravvissuto prova sollievo nel constatare di non essere ancora morto. La morte altrui, dunque, procura indirettamente soddisfazione a chi le sopravvive213.

Ora, secondo Canetti, ogni esperienza umana riconducibile al campo semantico della nozione di “potere” si innesta sempre sulla soddisfazione emotiva provata dal sopravvissuto al cospetto della morte altrui. Nel caso del potere, tuttavia, tale soddisfazione non viene solo casualmente esperita, ma

attivamente ricercata. Il divario incolmabile tra la posizione inerme assunta dal morto e quella

assolutamente libera del sopravvissuto non si limita solo a procurare una soggettiva sensazione di sollievo, ma viene oggettivamente riprodotto e, in casi storicamente “eccezionali” come le guerre, pubblicamente ostentato su una scala molto più ampia. Che si provi soggettivamente vergogna o meno del sollievo procurato dalla morte altrui, infatti, la situazione oggettiva della sopravvivenza fisica condensa quanto mai concretamente il contrasto fondamentale tra vita propria e morte altrui, che si staglia al centro di tutte le multiformi espressioni storiche del potere, per come queste vengono configurate in Masse und Macht. Non è un caso che Canetti associ all'immagine prototipica del potente l'aspirazione a diventare l'unico in assoluto tra gli uomini. La situazione in cui il vivo contempla isolatamente lo spettacolo di morte intorno a lui, infatti, è la miglior approssimazione possibile a una condizione di onnipotenza assoluta, proprio perché direttamente proporzionale alla definitiva impotenza del rispettivo termine di paragone, la vita altrui.

Il nesso causale tra autoconservazione della propria vita e morte altrui che Canetti fa confluire nella nozione di sopravvivenza e, in seconda istanza, in quella di potere, esige d'altra parte di declinare l'interruzione della vita altrui in senso sociale, oltre che fisico. Sopravvivere non significa soltanto

vivere ancora mentre gli altri muoiono214, né “solamente” uccidere ma, come avviene nelle circostanze

ordinarie della vita sociale gerarchicamente ordinata, vivere sovrastando la vita altrui. Uccidendo, la vita del potere si nutre della morte altrui, ma nel contempo si priva delle “risorse umane” necessarie al proprio sostentamento. Viceversa, “limitandosi” a mortificare la vita altrui, il corpo stesso del potere

213 Cfr. E. Canetti, «Gespräch mit Rupprecht Slavko Baur», (1972) in Id., Aufsätze. Reden. Gepräche, cit., p. 272:

all'intervistatore che gli chiedeva se per lui fosse di primaria importanza la lotta contro la morte o la lotta contro il male, Canetti affermò di non essere in grado di rispondere, dal momento che «da decenni per me la morte e il male sono identici» [Das ist eine Frage, die ich darum nicht leicht beantworten kann, weil seit jahrzehnten für mich der Tod und das Böse identisch sind].

214 I sinonimi tedeschi di questa particolare accezione del termine italiano “sopravvivenza” sono bestehen

bleiben, überdauern e noch leben. Rimane invece parzialmente esclusa dal campo semantico della nozione

canettiana di sopravvivenza la questione della continuazione della vita dopo la morte [Fortleben] indagata da Max Scheler in Tod und Fortleben, in Id., Schriften aus dem Nachlass, I, 1957, pp. 9-64; tr. it. di E. Simonotti,

Morte e sopravvivenza, Morcelliana, Brescia 2012. Utilizzando espressamente la nozione di Überleben, Canetti

intende indagare quel surplus simbolico di potenza [Macht] trasmesso nell'esperienza della sopravvivenza fisica dall'incolmabile asimmetria delle posizioni fisiche assunte da chi giace e da chi sta in piedi.

rinuncia alla mera sopravvivenza fisica per sopravvivere socialmente e crescere su se stesso. In questo modo, il divario incolmabile tra la possibilità del sopravvissuto di agire sul corpo esangue del morto senza subire reazione alcuna non viene riprodotta solamente al termine di aperte manifestazioni di violenza organizzata come le guerre, ma anche – e assai più di frequente, anche se in forma mitigata – da quelle gerarchie sociali che si reggono su una minaccia di morte per consentire ai rispettivi vertici