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La diffusione delle politiche di decentralizzazione scolastica in tutto il mondo, in contesti assai differenti, testimonia il fatto che l’implementazione di questo tipo di politiche non dipende né dal livello di sviluppo economico del Paese, né dalla sua grandezza territoriale, né dalla forma di Stato (unitario, regionale o federale), né dal tipo di forze politiche al governo (Mons, 2004; Eurydice, 2007; Barrera-Osorio et al., 2009).

L’autonomia scolastica è legata all’idea che alle scuole e agli insegnanti debba essere attribuita una maggiore responsabilità per quanto riguarda i risultati di apprendimento degli studenti e, di conseguenza, anche una maggiore libertà d’azione riguardo a vari aspetti organizzativi della vita scolastica interna (McNamara e O’Hara, 2008). D’altro canto, si tratta anche del riconoscimento del diritto dei diretti interessati a prendere decisioni sulle questioni che li riguardano e che non hanno una risposta unica e adatta a tutti i contesti:

“The tendency to decentralisation keeps company with the lack of trust in the state’s capacity to provide an adequate answer to each and every need of an increasingly demanding population. Stated differently, it acknowledges that there are no right answers and that people most affected by the decision should have a role in taking those decisions” (MacBeath et al., 2004, p.90).

Infatti, uno degli argomenti principali a favore dell’autonomia scolastica è l’idea che le persone cui spetta il compito di prendere le decisioni a livello locale abbiano una migliore conoscenza delle loro istituzioni, dei contesti socio-culturali in cui operano e dei bisogni della popolazione studentesca. Questo permette loro di fare scelte più adeguate e di utilizzare nel modo migliore le risorse a disposizione (Mons, 2004; Barrera-Osorio et al., 2009; Hanushek, Woessmann e Link, 2011). Tuttavia, vengono messi in evidenza anche alcuni rischi quali la mancanza di capacità di prendere adeguate decisioni da parte dei soggetti locali, l’emergere di un comportamento opportunistico, il prevalere degli interessi e benefici individuali su quelli dell’intera società, l’allocazione inefficace delle risorse per causa dell’eventuale duplicazione delle strutture e, infine, le disuguaglianze territoriali e sociali dal punto di vista delle risorse a disposizione (Winkler, 1989; Sebastian, Gertler e Schargrodsky, 2008; Parry, 1997).

Nel rapporto di Eurydice sulle politiche di autonomia scolastica in Europa (2007) si sostiene che la forza motrice di questo tipo di riforme nel decennio in cui cominciarono ad avviarsi (anni Ottanta) era l’intento politico di garantire la libertà d’insegnamento, di

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migliorare la partecipazione democratica delle comunità locali e di completare il processo di decentralizzazione. Mons (2004) fa notare anche il caso, in parte affine, degli Stati che negli anni Novanta si erano liberati dalle forze autoritarie al governo e in cui, quindi, il trasferimento delle responsabilità alle scuole o agli enti locali aveva l’obiettivo di “couper avec un passé autoritaire symbolisé par une structure centralisée” (p.43). L’autrice si riferisce, in particolare, ai molti Stati dell’Est Europa, ad alcuni Paesi dell’America Latina, come, ad esempio, Uruguay, e alla Spagna46.

Gli anni Novanta sono segnati anche da un’altra preoccupazione che spingeva gli Stati a intraprendere riforme nella pubblica amministrazione: la gestione dei finanziamenti pubblici (Eurydice, 2007). L’esigenza di ottimizzare la spesa pubblica, ma non a discapito della qualità dei servizi di interesse dello Stato, porta agli interventi volti a ‘modernizzare’ il settore pubblico attraverso l’adozione delle logiche manageriali (Mons, 2009; Fondazione Giovanni Agnelli, 2014). Le teorie che hanno innescato e accompagnato questo ampio processo di trasformazione della gestione della pubblica amministrazione spesso vengono ricondotte all’approccio chiamato New public management (NPM). Questo approccio si riferisce a un insieme di dottrine riguardanti la pubblica amministrazione che si sono diffuse in molti Paesi dell’Ocse a partire dalla fine degli anni Settanta (Hood, 1991). Il NPM nasce dall’unione di due correnti d’idee: il neoistituzionalismo e il managerialismo. Lo scopo è quello di aumentare la qualità e l’efficienza nella gestione dei servizi pubblici tramite l’applicazione dei principi del settore privato, spesso facendo riferimento al razionalismo economico47 (Hood, 2001;

Eurydice, 2007; Mons, 2009).

Le idee sottostanti l’agenda delle riforme nella pubblica amministrazione hanno avuto un impatto anche sul settore d’istruzione, soprattutto per quanto riguarda gli interventi verso

46 Nel caso spagnolo questo succede negli anni Ottanta.

47 È sorto un ampio dibattito riguardo ai vari aspetti del NPM: si discute su quanto siano compatibili tra di loro

le teorie da cui deriva questo approccio, quale contenuto e quali caratteristiche accomunino le forme in cui il NPM si è manifestato in diversi Paesi. Hood (2002), nella sua descrizione critica del New public management, riporta anche il dubbio che hanno sollevato alcuni autori circa l’esistenza o meno della convergenza su uno stesso paradigma - il NPM - delle riforme nella gestione della pubblica amministrazione. Tuttavia, ci si possono individuare alcuni principi comuni, tra cui il focus sull’utente dei servizi pubblici, la decentralizzazione delle responsabilità, il dovere dei funzionari pubblici di rispondere di fronte alla comunità (accountability), l’enfasi sulla qualità dei servizi e sull’efficienza degli enti e la sostituzione dei controlli procedurali con la valutazione dei risultati.

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maggiore autonomia scolastica e school accountability48 (McNamara e O’Hara, 2008). Queste politiche, che alcuni autori riconducono alle ideologie neo-liberali, oltre ad essere promosse per prima dai governi dei Paesi anglosassoni, hanno avuto una spinta anche da parte dalle organizzazioni internazionali quali l’Ocse, la Banca Mondiale e l’Unione Europea49.

Nel XXI secolo non sono più tanto le idee di rinnovamento politico-amministrativo a promuovere il trasferimento delle responsabilità agli istituti, quanto piuttosto l’intento specificamente legato al sistema educativo: migliorare la qualità dell’insegnamento e degli apprendimenti (Mons, 2004), ovvero “giving more freedom to schools and teachers in order to improve the quality of education” (Eurydice, 2007, p.45).

Eurydice (2007) nota che il grado di autonomia attribuita alle scuole non è necessariamente legato al momento storico in cui sono state introdotte queste politiche. Ad esempio, le riforme volte a incrementare l’autonomia scolastica in Spagna e in Francia erano piuttosto limitate, mentre le riforme nel Regno Unito (in Inghilterra, Galles e Irlanda del nord) erano più ampie, nonostante fossero state avviate nello stesso periodo.

Il processo, però, non è sempre unidirezionale: verso la fine degli anni Novanta in alcuni Stati si sono verificate delle ‘inversioni di rotta’ (Mons, 2004). Ad esempio, l’Ungheria, dopo un forte decentramento dell’inizio degli anni Novanta, nel 1998 e nel 2011-2012 ha nuovamente rinforzato i poteri dell’autorità centrale (Mons, 2004; OECD, 2013b). Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo, il Regno Unito, gli Stati Uniti e l’Australia hanno imposto degli standard nazionali per l’insegnamento di alcune materie. Nel Regno Unito, già nel 1988 il governo Thatcher centralizzò il controllo del curricolo e degli esami nazionali, mentre allo stesso tempo fu trasferito il controllo sui docenti e l’amministrazione scolastica dalle autorità educative locali (LEA) ai consigli direttivi delle singole scuole (McGinn, 1992).

48 Il termine inglese accountability’ non ha una traduzione equivalente in italiano, perciò solitamente non viene

tradotto (Martini, 2010). Esso indica ‘la responsabilità’ o più precisamente ‘il dover rendere conto’. In rapporto al settore d’istruzione Vidoni (2004, p.9) lo definisce come “processo attraverso il quale i sistemi formativi sono direttamente responsabili della qualità dei loro prodotti – le conoscenze degli studenti, competenze, comportamenti e attitudini”. Questo dovere-impegno si ha nei confronti di ‘portatori di interessi’ (stakeholders), che nel caso delle scuole consistono, innanzitutto, in genitori, autorità amministrative e decisori politici (Martini, 2007).

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