• Non ci sono risultati.

Sezione 3 Domande per gli intermediari e gli agenti costituenti il campo letterario

6.8 Narrazioni a confronto

Abbiamo descritto i criteri di selezione che guidano gli agenti costituenti il campo letterario, che detengono la legittimazione a valutare, scegliere o consigliare testi per la pubblicazione. I discorsi di editor, editori, direttori editoriali, agenti letterari ed intermediari attenti agli inediti si assomigliano, almeno fino a quando descrivono quali caratteristiche debba avere un buon manoscritto. Fatta salva una differente enfasi sulle une o le altre qualità, lingua, voce, stile e storia sono termini che si riscontrano nei discorsi di tutti gli intervistati. Allo stesso modo, fiuto ed altre metafore indicanti una capacità tacita e pre-razionale sono invocate per indicare il metodo di selezione, prima e insieme ad altre considerazioni più meditate.

Una prima differenza la si incontra però analizzando le risposte, distinte per dimensione della casa editrice: le più grandi sono interessate maggiormente alle storie, le medie più alla lingua. Nei discorsi degli editor delle più grandi, sono presenti in maggior misura tematiche di natura commerciale, in quelli delle medie tematiche che abbiano a che vedere col valore letterario. Le piccole si caratterizzano maggiormente per una identificazione della linea editoriale coi gusti dell’editore anche se, ovviamente, non si può avere la pretesa di generalizzare. Le case editrici di maggiori dimensioni sarebbero quindi più rivolte al successo economico, le medie al riconoscimento culturale. È una conclusione che non sconvolge, del resto, visto che le prime appartengono a gruppi industriali, a volte quotati in borsa, mentre le seconde hanno una diversa struttura proprietaria, con minori costi fissi. Ed è anche confermata dalle parole degli agenti letterari, che sostengono che gli editor richiedano loro opere in grado di vendere: per quello che abbiamo visto, si tratta di opere dalla forte storia, più che manoscritti molto letterari.

Quella del rapporto fra dimensione ed orientamento è una chiave di lettura ragionevole, ma che appare incompleta e, quindi, parzialmente insoddisfacente. L’impressione che rimane dall’analisi delle interviste è infatti che ci sia un grande rimosso collettivo, che ha a che vedere

213

con il successo commerciale. Sembra quasi che il discorso degli editor contenga spesso, come sottotesto, una excusatio non petita nei confronti del successo di vendita, come se vendere molti libri fosse una cosa sporca, poco etica. Lo si vede anche dal fatto che, quando ci viene detto che le case editrici sono imprese commerciali, e che quindi devono vendere per sopravvivere, questa affermazione sia fatta come se fosse una presa di posizione coraggiosa, e non una tautologia. Si tratta probabilmente della conseguenza di un pregiudizio ancora molto forte, nell’ambito editoriale, che riguarda la divisione fra una cultura alta ed una bassa, una riservata alle elite ed una che vende. Ne raccogliamo svariate evidenze: nel continuo, trasversale a tutti gli intervistati, difendere la qualità, ad esempio, di La solitudine dei numeri primi, apparentemente messa in dubbio dal suo successo o nel sentire la necessità di sostenere che non necessariamente un libro che vende debba essere brutto. E se ne trova testimonianza anche nei

lit blog: i Wu Ming, ad esempio, nella già citata opera di diffusione dei dati di vendita dei loro

libri, hanno ritenuto necessario iniziare difendendo l’idea stessa di vendita di libri dalla demonizzazione214. L’idea che ci siamo fatti è che, mediamente, gli editor siano maggiormente interessanti a vendere i libri che scelgono, di quanto non vogliano ammettere, temendo critiche e accusa di venalità. Pur non condividendo il pregiudizio di valore sull’eticità di vendere libri, l’obiettivo di smontarlo va oltre le nostre capacità: quello che possiamo fare è riscontrarlo nelle discrepanze fra quanto ci viene detto dagli editor e quanto sostengono gli agenti letterari. O,

214

“Come ogni anno, pubblichiamo i dati di vendita dei nostri libri aggiornati al 31 dicembre dell'anno prima. Il senso dell'operazione lo abbiamo spiegato e lo rispieghiamo: è una questione di glasnost e di approccio laico alla natura (anche) mercantile del libro, ossia allo scrivere come lavoro. Tra gli scrittori "idealisti" (nel senso filosofico, cioè che antepongono l'Idea di Letteratura alla realtà concreta e terrena delle narrazioni) è uso fingere di non auspicarsi il successo, negare che il libro sia anche (orrore!) una merce, simulare disinteresse o addirittura disgusto per la prospettiva di vendere tante copie... Peccato che tale posa di indifferenza sia in contraddizione coi toni lamentosi usati dai medesimi nel descrivere la propria condizione di "poco-vendenti", "poco-cagati", "relegati ai margini", "incompresi" etc. Ecco che ci viene riproposta la sbobba del genio-che-soffre, accompagnata alla tirata sul popolo infingardo e bue. Ma perché soffre, 'sto genio, e perché mai inveisce, se è riuscito nello sbandierato intento di non vendere? Conseguendo l'insuccesso, ha avuto successo, e allora che altro vuole? Se vendere è per i venduti, se sono i lettori a non meritarsi certi libri, se l'ars è longa e la vita è brevis e sarà la storia della letteratura a capire quanto vale il tale scrittore etc., allora perché pubblicare in vita? Perché rivolgersi a un editore? Perché non lasciarlo nel cassetto, il sudato manoscritto? L'unico valido interlocutore non è forse l'archeologo che un giorno scaverà e troverà i resti della scrivania? Che senso ha lamentarsi del fatto che altri vendano, se vendere è cosa ignobile e il danaro è stercum diaboli? In realtà, pare banale dirlo, non tutti i libri che vendono sono per forza banali o compiacenti o derivativi, e non tutti i libri invenduti sono incomprensibili, elitari o - semplicemente - brutti. Eppure, ancora troppa gente schifa chi vende solo perché vende ed esalta chi "floppa" solo perché "floppa". Occorre un approccio più laico e meno ipocrita. Se uno pubblica un libro è perché si auspica che altri lo leggano, possibilmente molti altri, più ce n'è meglio è. Se lo pubblica presso un editore, accetta che il libro rechi un prezzo in copertina e venga scambiato con denaro. Se firma un contratto in cui gli viene accordata una percentuale (bassa o alta che sia) del prezzo di copertina, vuol dire che si auspica di guadagnarci qualcosa pure lui (e ci mancherebbe altro, è stato lui a scrivere!). Quanti scrittori si sottraggono a questa trafila di loro spontanea volontà? Non ce ne vengono in mente: di norma, gli scrittori che pubblicano un libro vogliono anche venderlo. Quanti scrittori falliscono nel sottoporsi alla trafila poi vanno in giro a dire che l'uva non è dolce, anzi, è pure guasta? Troppi. Quando parliamo di copie "vendute", c'è ancora chi trova la cosa "inelegante", sconveniente, venale, poco artistica. Dopo una presentazione di New Thing a Udine, un blogger si disse indignato per il fatto che Wu Ming 1 avesse usato la parola "vendite", ed è solo un esempio tra i tanti. Non ci si rende conto che quelle vendite sono lettori, sono esseri umani in carne ed ossa che desiderano leggere quel che scrive uno scrittore al punto da recarsi in libreria e rinunciare a una parte del loro reddito pur di portarsi a casa le sue parole. Queste persone compiono un piccolo sacrificio per noi, il minimo che possiamo fare è non parlare dei soldi che hanno speso come se ci facessero schifo. Noi, quindi, siamo contenti quando ci imbattiamo in colleghi che snocciolano numeri come fossero olive nere, laicamente, senza problemi né bigottismi. Incitiamo tutti i colleghi a rendere noto quanto vendono: per trasparenza, per condividere informazioni utili coi lettori, per dare un'idea di quanto si legga oggi in Italia, di quale sia la soglia oltre la quale un libro è considerato "di successo" etc..” da www.wumingfoundation.com/italiano/glasnost2006.htm

anche, nel fatto che la ricerca di esordienti, così fortemente perseguita da tutte le case editrici, può spiegarsi principalmente attraverso motivi economici. Quello che ci interessa maggiormente, in questa sede, è constatare che, probabilmente, il timore di apparire troppo interessati alle vendite, ha fatto sì che i discorsi degli editor fossero normalizzati ad una idea di categoria di quello che è giusto e opportuno raccontare circa la fase di ricerca. Non sosteniamo che i discorsi fossero falsi, no. Semplicemente, che non abbiano trasmesso tutte le informazioni che ci sarebbero state utili per comprendere i processi che hanno luogo entro il campo letterario. Di conseguenza, se vogliamo capire in che maniera avviene l’ammissione degli esordienti al campo letterario, dobbiamo farlo anche in maniera indiretta. Passare dall’analisi di cosa viene cercato dalle case editrici, all’analisi dei canali attraverso cui arrivano alle stesse i manoscritti che saranno poi pubblicati. Lo faremo nel prossimo capitolo.