• Non ci sono risultati.

Neuroplasticità e Realtà virtuale

2.5 Uno sguardo al futuro

2.5.4 Neuroplasticità e Realtà virtuale

Il ricorso alla Realtà Virtuale (VR) nella neuroriabilitazione ha riscosso molto interesse in considerazione dei numerosi benefici che questo genere di tecnologie

può offrire. Definita come «an approach to user-computer interface that involves real-time simulation of an enviroment, scenario or activity that allows for user interaction via multiple sensory channels»173, la VR sembra garantire stimolazione

sensomotoria sufficientemente intensa per indurre la riorganizzazione cerebrale, promuovendo così il recupero delle funzioni neurologiche danneggiate. Tra i vantaggi legati a un suo utilizzo nella rieducazione del paziente figurano l'equilibrio tra un ambiente ricco e realistico e un contesto controllato e sicuro, come quello clinico; la possibilità di fornire compiti simili coinvolgenti e simili a quelli richiesti dalla vita quotidiana, così da tenere vivi l'interesse e l'attenzione dei pazienti nelle lunghe sessioni di lavoro; una maggior precisione nel feedback, che consente di modulare gli esercizi a seconda delle esigenze sfruttando la manipolabilità di parametri non controllabili nel mondo reale, come il playback dei movimenti compiuti.174 In generale, sino a questo momento la Realtà Virtuale

è stata adoperata prevalentemente nel trattamento di deficit motori a seguito di ictus. In uno studio condotto su pazienti emiparetici adulti175, le risonanze

magnetiche successive al periodo di cura hanno denotato una cospicua riorganizzazione cerebrale nella rappresentazione dell'arto paralitico, con conseguente miglioramento nella motricità dello stesso. Un trial clinico di Saposnik e colleghi176 ha sostanzialmente confermato, seppur su un numero

ristretto di volontari, la bontà della VR in questo ambito; per di più, l'utilizzo di una popolare console per videogiochi lascia intravedere margini anche per una

173 S.V. ADAMOVICH et al. (2009), p.29. 174 K.L. CHEUNG et al. (2014).

175 S.H. JANG et al. (2005). 176 G. SAPOSNIK et al. (2010).

riduzione dei costi delle terapie e una loro maggiore estensione sia in termini di tempo che di spazio, grazie alla teleriabilitazione. Anche nel caso di bambini affetti da paralisi cerebrale si è assistito a importanti fenomeni di riorganizzazione corticale, ai quali si è accompagnata una maggior destrezza nello svolgere compiti come il vestirsi e il nutrirsi autonomamente. Da segnalare, infine, che tentativi di sfruttare la neuroplasticità attraverso la VR sono stati compiuti anche nell'ambito dell'assistenza psicologica contro l'ansia e il disturbo post-traumatico da stress e dell'apprendimento, segnatamente per l'addestramento di chirurghi.

L'era della neuroplasticità

Si è provato a delineare le cause che hanno frenato il formarsi di uno specifico interesse per la neuroplasticità, attribuendo tale ritardo sostanzialmente a un più generale "stato di minorità" delle neuroscienze nel loro complesso e all'esigenza di stabilire, prima di tutto, un modello del sistema nervoso, e del cervello in

particolare, che fosse pratico da un punto di vista operativo. Proprio a questa necessità è stato ricondotto il successo della teoria localizzazionista, la quale, per la sua economicità, ben soddisfaceva la necessità di «a theoretical model of mind deeply grounded in a rigorous knowledge of the anatomical and physiological aspects of the nervous system»177.

Rimane ora da ipotizzare quali siano state le spinte decisive che hanno portato a una rivalutazione del quadro teorico e a una progressiva inclusione della nozione di cervello plastico. Tralasciando l'apporto di alcune scuole psicologiche, come la Gestalt, l'evento determinante per l'abbandono di questo paradigma sembra essere

lo sviluppo e l'adozione di un apparato tecnologico sempre più sofisticato. L'impatto che la tecnologia ha avuto nella comprensione dell'anatomia e della fisiologia cerebrale a partire dalla seconda metà del secolo scorso pare

difficilmente sottostimabile. Se ciò in generale è vero per l'intero settore delle neuroscienze, sembra esserlo in particolare per lo studio della neuroplasticità. Data la natura sfuggente del fenomeno, si è potuti giungere a produrre prove non più ignorabili solo grazie a un affinamento senza precedenti degli strumenti d'indagine a disposizione, un esempio emblematico del quale è rappresentato dall'evoluzione degli elettrodi: nello stretto lasso di tempo tra il lavoro di mappatura di Penfield e quello di Merzenich, essi videro le proprie dimensioni ridursi al punto da poter essere inseriti in un singolo neurone, registrandone così l'attività con estrema precisione. Merzenich fu così in grado di ravvisarne i minimi cambiamenti e inferire l'esistenza del cortical remapping. L'avvento delle

tecnologie di imaging ha poi sancito altri due passi essenziali: in primo luogo, esse hanno reso possibili rappresentazioni del cervello sempre più dettagliate, grazie a una crescente definizione; secondariamente, essendo procedure sempre meno invasive e pertanto agevolmente ripetibili, hanno consentito di raccogliere grandi quantità di dati e di stabilire come strutture e attività del medesimo organo cambino nel corso del tempo, una condizione imprescindibile per accertare l'azione dell'esperienza sulla materia cerebrale.

Nella maggior disponibilità e precisione consentita dal progresso tecnico sembra risiedere dunque il vero fattore cruciale per intendere come l'idea di malleabilità cerebrale sia giunta a maturazione proprio negli ultimi anni:

From a historical perspective, it is quite evident that many of the principal issues and questions in the field of neural plasticity and recovery of function have endured for more than a century. Inspection of early attempts to address these issues, both theoretical and empirical, reveals a remarkable degree of commonality in the main lines of thinking regarding neural plasticity between the classic writers and contemporary theorists. [...] Perhaps the most dramatic change in the field is the nature of the tools available to study these questions. The advent of structural MRI, PET and functional MRI has led to a number of pathbreaking discoveries.178

Ciò sembra essere confermato dagli sforzi attualmente profusi per concepire macchine dalle capacità computative superiori e dalle dimensioni più ridotte, con l'intento di fornire segnali di feedback più rapidi e affidabili. Se è corretta

l'interpretazione dell'emergere della nozione di neuroplasticità come di una questione prevalentemente tecnologica , è lecito attendersi allora che le tecnologie oggi al vaglio segneranno una nuova fase: da un lato garantendo ulteriori

applicazioni in ambito clinico; dall'altro contribuendo alla sistematizzazione del campo e alla disambiguazione del termine, chiarendo quali meccanismi siano in gioco nei processi di adattamento plastico, come essi si traducano a livelli differenti (molecolare, cellulare, sistemico) e aiutando infine a definire i limiti di questa proprietà.

3.

Considerazioni finali

Chi siamo e cosa dobbiamo fare: la prospettiva neuroplastica

Una delle conseguenze della "Decade del Cervello" è quella che è stata definita

neuro-turn: non solo le neuroscienze hanno conosciuto una straordinaria fioritura,

ma si sono spinte ben oltre, arrivando a intersecarsi con le humanities. Lungi dal voler dare un giudizio sulla bontà o sull'opportunità di questa tendenza, ci si limita a constatare la preponderanza che il cervello ha assunto nel dibattito sulla

condizione umana, al punto che le neuroscienze sono state definite «the new philosophy».179 È lecito domandarsi allora come la nozione di neuroplasticità si

leghi ad alcune delle questioni tradizionalmente appannaggio delle discipline umanistiche. L'importanza che questa scoperta riveste non si limita infatti alle considerazioni meramente tecniche sopra riportate; la complessità del fenomeno solleva, come praticamente sempre accade con le scoperte della scienza,

interrogativi di carattere più generale, sia astratti che più pragmatici.

In primo luogo ci costringe ad affrontare sotto una nuova luce la nostra identità come genere umano, inserendosi nella vexata quaestio del rapporto tra nature e

nurture, natura e cultura. Dopo anni – se non secoli – di polarizzazione tra le

posizioni all'interno del dibattito, le moderne ricerche nelle neuroscienze hanno suggerito che «there is a back and forth pattern between nature and nurture, a dynamic system that involves a continuous feedback loop shaping the physical structure of our

179 Reith Lectures 2003 (Consultato il 4 Gennaio 2016). Disponibile all'indirizzo http://www.bbc.co.uk/radio4/reith2003/lecture5.shtml.

brains»180. Appurato che proprio nella neuroplasticità risiede l'anello di

congiunzione tra ciò che è geneticamente determinato e ciò che invece è frutto dell'esperienza, resta da stabilire quanto di noi sia naturale e quanto sia un prodotto artificiale, costruito più o meno consapevolmente attraverso la cultura (termine da intendere in questo contesto nella sua accezione più ampia). Si tratta di un'operazione tutt'altro che oziosa e speculativa, a maggior ragione se si

considera che persino gli atti apparentemente più semplici, come quelli percettivi, dipendono in larga misura dall'ambiente con cui il soggetto è abituato a interagire piuttosto che da un qualche programma inscritto nel DNA.

I Moken, una popolazione nomade che vive nelle acque territoriali di Birmania e Thailandia, sviluppano sin da bambini un'acuità visiva subacquea più di due volte superiore a quella degli Europei181; tuttavia, bambini europei sottoposti ad

allenamento hanno sensibilmente migliorato le proprie prestazioni, mostrando che anche un movimento come la contrazione della pupilla risponde all'esercizio. In modo ancora più clamoroso, in campo psicologico è stato sostenuto che il

contesto socio-culturale sia talmente decisivo da determinare profonde difformità nei processi cognitivi; tali differenze sono state ravvisate, per esempio, tra

Occidentali ed Orientali, intendendo con ciò un riferimento alla cultura di provenienza e non all'etnia: i primi sarebbero caratterizzati da forme di pensiero più analitiche e orientate a singoli elementi, mentre i secondi da modalità

olistiche e attente al quadro più ampio, al punto che non sarebbe possibile stabilire dei modelli funzionali della mente uniformi ed universalmente validi:

180 AA.VV. (2008), p.16. 181 A. GISLÉN et al. (2003).

This assumption of universality was adopted by mainstream psychology of the 20th century [...] [and] was probably strengthened by the analogy to the computer. [...] Given that inferential rules and cognitive processes appear to be malleable even for adults within a given society, it should not be surprising if it turned out to be the case that members of markedly different cultures, socialized from birth into different world views and habits of thought, might differ even more dramatically in their cognitive processes.182

In generale, gli effetti dell'ambiente di sviluppo sono ravvisabili su più livelli, dalla percezione al linguaggio, dalle emozioni al calcolo mentale183. Non è un caso

quindi che da più parti sia stata invocata una visione integrativa, che sappia tenere conto tanto della dimensione naturale quanto di quella culturale nella formazione dell'essere umano.

Il proliferare di sub-discipline a vario titolo interessate al tema è indice, oltre che di una più diffusa attenzione verso il mondo delle neuroscienze, dell'impatto avuto dal concetto di neuroplasticità, più di altri adatto a candidarsi come perfetto trait

d'union tra le due sfere. Esso ha assunto un ruolo centrale, per esempio, nell'idea

di neurohistory, un approccio agli studi storici che si ripropone di fare richiamo alle nozioni offerte dalle brain sciences per gettare luce sul passato. Più

precisamente:

Neurohistory is a perspective on history that draws on the findings of the cognitive sciences. It proceeds from the understanding that the brain is relatively plastic and therefore open to the things we experience as children and adults. We take plasticity for granted in our everyday lives. It is the thing that explains why children learn in the classroom, why practice makes perfect, and why 182 R.E. NISBETT et al. (2001), p. 291.

occupational therapists can help people overcome aphasia and learn to talk again. But plasticity is not just a thing of the present day. It can help us understand cultural formations and cultural transitions in the past. [...] One of the most important features of neurohistory is that it can offer explanations for certain kinds of historical change. In particular, the introduction of a new behavioral pattern can spur the development, in the aggregate, of different brain structures (synapses or receptors). These new aggregate structures, in turn, could have the unintended second-order effect of inclining the population toward new behavioral patterns.184

L'ambizione è quella di guardare in modo nuovo a come natura e cultura interagiscano e abbiano interagito in passato, combinando l'approccio analitico tipico delle scienze con quello tradizionalmente olistico delle discipline

umanistiche185, nella convinzione che nessuno dei due sia da solo sufficientemente

attrezzato per fare fronte alla complessità del problema. Nelle parole di Daniel Lord Smail, a cui va la paternità del termine neurohistory:

Dopamine receptors, stress receptors, and other elements of the human brain may be similar the world over, but the density of receptors in each individual is variable and subject to complex historical and cultural contigencies. Changes in neurons, synapses, or endocrinological sistems induced by developmental and cultural circumstances, moreover, can have unpredictable forward- acting effects. The human brain, in other words, is an entity that exists in history. It is important for cognitive neuroscientists to learn how to come to grips with the brain's historicity.186

E' ovvio che questo genere di prospettiva multidisciplinare possa rivelarsi fertile anche per interpretare il presente, oltre che per gettare luce sul passato. Da qui il

184 What is Neurohistory? (Consultato 3 Gennaio 2016). Disponibile all'indirizzo http://www.neurohistory.ucla.edu/neurohistory-web-about.

185 E. RUSSELL (2014). 186 D.L. SMAIL (2014), p. 113.

crescente coinvolgimento delle cosiddette social sciences o humanities,

tradizionalmente interessate a quella parte dell'esperienza umana sussumibile sotto il nome di cultura, e il sorgere di ulteriori sub-discipline, quali le neuroscienze culturali187 o la neuroantropologia. Al netto delle relative differenze (peraltro non

sempre chiare), sono due i punti essenziali che non mancano mai di essere sottolineati in tutti i casi: la peculiarità biologica del cervello umano, unico per numero di neuroni, connessioni sinaptiche, estrema variabilità e dipendenza dall'esterno di questi due elementi; la complessità e ricchezza dell'ambiente in cui gli esseri umani si trovano ad agire. A tal proposito è stato notato:

Humans alone shape and reshape the enviroments that shape their brain. This cultural evolution differs from Darwinian biological evolution in important ways. Firstly, it creates more rapid, incremental, and widespread population variability. Second, it uses different processes to store the information that influences the development of the brain structure and function. In biological evolution, information is stored in the largely stable base sequence of DNA molecules. In cultural evolution, the information is stored in all aspect of cultural artifacts and practice. In biological evolution the evolution is stored in identical and complete form in many individuals. In cultural evolution, the information is distributed in different and incomplete form across many individuals and artifact.188

In un periodo di profonde alterazioni del tessuto sociale e migrazioni di popoli senza precedenti nella storia recente, comprendere i termini di questa delicata relazione diventa allora cruciale anche in chiave pratica, per potere costruire modelli di convivenza e integrazione cross-culturale e promuovere il benessere

187 J.Y. CHIAO (2010).

psicologico degli individui, nonostante gli ostacoli tecnici che un simile approccio comporta: dare un'adeguata definizione di cultura, identificare compiti

sperimentali adeguati e identificare quali tratti a livello genetico siano rilevanti per questo genere di studi.

Il tema del rapporto tra nature e nurture apre inevitabilmente le porte ad altri connessi e che possono esserne visti come declinazioni particolari. Negli ultimi anni, ad esempio, in ambito neuroscientifico si è fatto spesso riferimento a concetti tipici del canone filosofico occidentale come determinismo e libero arbitrio. Complice il gusto per l'esagerazione di certa parte del giornalismo scientifico, si è diffusa la tendenza a riportare ogni comportamento a una precisa condizione genetica, secondo una visione chiaramente riduzionista definita

neurogenetic determinism189. Con un misto di ironia e preoccupazione, a tal

proposito Rose ha scritto:

Genes, it is said, are responsible for such diverse features of human conduct as sexual orientation; poor behaviour in school; alcoholism; drug addiction; violence; risk taking; criminal, antisocial, and impulsive behaviour; political anti-authoritarianism; religiosity; tendency to midlife divorce; and even compulsive shopping. Major funding programmes are under way, mainly in the United States but also in the United Kingdom and elsewhere in Europe, to identify such genes,

presumably with a view to either screening for and aborting fetuses which show the potential for such undesirable characteristics or generating drugs which will alleviate the condition, turn gays into straights, or radicals into conservatives.190

Il concetto di neuroplasticità è stato proposto come possibile contro-argomento

189 S. ROSE (1995). 190 S. ROSE (1998), p.1707.

all'assunto che libertà e autonomia decisionale siano in realtà illusioni e che il nostro comportamento sia inevitabilmente imposto dal patrimonio genetico191. Va

da sé che ciò implichi una nuova serie di interrogativi più che di risposte certe e definitive: come si può conciliare il numero di basi azotate nel DNA con la variabilità e le possibilità che un cervello malleabile comporta? Quanto dei nostri limiti, delle nostre pulsioni e delle nostre decisioni è , in qualche misura, auto- imposto e quanto si colloca aldilà della nostra capacità d'azione?

Da un punto di vista gnoseologico, la malleabilità cerebrale entra nel merito del dibattito tra posizioni innatiste ed empiriste. Essa è stata proposta in una rivisitazione moderna della teoria kantiana come elemento di congiunzione tra a

priori e a posteriori, in quanto parallelamente fenomeno spontaneo e dipendente

dall'esterno, che determina come vengono elaborati gli stimoli e ,

contemporaneamente, è da essi modellato. Gli esperimenti di Hubel e Wiesel, che, come si è visto, evidenziarono d'un tempo la spontaneità nella formazione di specifiche connessioni neurali e la loro suscettibilità all'azione dell'esperienza, costituiscono un caso d'applicazione assai chiaro.

Un altro tema proposto negli ultimi anni è quello riguardante le implicazioni del concetto di neuroplasticità per quello di coscienza. Riguardo a quest'ultima, in ambito neuroscientifico si è a lungo dibattuto sulla possibilità di individuarne un ipotetico correlato neurale. Tralasciando le difficoltà sia tecniche (quali sono le strutture necessarie e sufficienti per la coscienza?) sia concettuali (cosa si deve intendere, esattamente, per coscienza?) legate a un simile tentativo, è comunque difficile immaginare che la nozione di neuroplasticità possa venire ignorata. È

stato osservato che, in ragione di quanto appreso circa il notevole dinamismo del cervello, ipotizzare una relazione di tipo 1 a 1 tra una specifica area cerebrale e la coscienza potrebbe non essere la migliore impostazione. Se infatti la coscienza è legata a specifiche strutture, cosa succede quando esse cambiano?

For instance, theories of strict identity between consciousness and structure may face the serious dilemma to either accept that, say, the experience of the colour red is fundamentally different in one individual over time due to cortical changes or to abandon the strong identity thesis altogether. 192

Se un correlato neurale della coscienza esiste, esso non è necessariamente stabile, ma soggetto a cambiamento; a mutare è il modo in cui una persona è conscia nel complesso. Ciò sarebbe confermato anche dai casi di recupero funzionale, i quali mostrerebbero come l'esperienza conscia possa essere recuperata

indipendentemente dal danno a specifiche zone cerebrali193. Spingendosi ancora

oltre, Cleeremans ha invocato il concetto di plasticità cerebrale come elemento indispensabile per l'emergere della coscienza:

Learning and plasticity are thus central to consciousness, to the extent that experiences only occur in experiencers that have learned to know they have certain first-order states and that have learned to care more about certain states than about others. This is what I call the “Radical Plasticity Thesis.” 194

192 M. OVERGAAR, M.JENSEN (2012), p. 2. 193 C.D. FRITH (2011).

Di certo, la neuroplasticità impone riflessioni anche nel campo della morale, tanto per gli individui quanto per la società. Seguendo l'esempio di Adina Roskies, che ha separato etica delle neuroscienze e neuroscienze dell'etica195, si può applicare

una simile distinzione anche per quel che concerne la malleabilità cerebrale, immaginando così una neuroplasticità dell'etica e un'etica della neuroplasticità. Nel primo caso, si tratterebbe di capire cosa possa insegnare la neuroplasticità circa la morale, chiarendo in che modo l'esperienza alteri l'operare del cervello alle prese con dilemmi etici; se abbia senso fare riferimento a valori universali, in considerazione del peso esercitato dal contesto culturale; o, ancora, che cosa comporti per la definizione dei valori la nozione di cervello plastico.

Per etica della neuroplasticità, invece, si intenderà la riflessione sul modo in cui

Documenti correlati