La Corte d’Appello di Torino, nella sentenza sui riders di Foodora,
aveva ricondotto l’articolo 2, comma 1, ad un “terzo genere” che si col-loca tra subordinazione e collaborazione coordinata e continuativa. Il riferimento, tuttavia, è parso subito più descrittivo che normativo: le collaborazioni organizzate dal committente rientrano nel genere del la-voro autonomo, tanto che la Corte d’Appello afferma espressamente che l’applicazione della norma non comporta la costituzione di un rap-porto di lavoro subordinato e che la collaborazione mantiene la propria
natura autonoma. Il lavoratore etero-organizzato rimane quindi un
la-voratore autonomo, ma «per ogni altro aspetto» la disciplina sarà quella del rapporto di lavoro subordinato. Questa soluzione interpretativa
su-pera la diversa prospettazione, pure inizialmente avanzata in dottrina, secondo cui l’articolo 2, comma 1, comporterebbe una riqualificazione della fattispecie concreta, con assunzione dei tratti e della natura giuri-dica della subordinazione.
La Corte di Cassazione non ritiene di inquadrare la fattispecie in un ge-nere intermedio tra autonomia e subordinazione, «con la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile». In effetti l’impiego del concetto di terzo genere o di “categoria intermedia”, molto in uso nel dibattito internazionale, non ha mai attecchito nella ricostruzione dottrinale italiana; basti pensare al tema della parasubordinazione, che è sempre stata concepita vuoi come categoria meramente processuale, vuoi come sub-categoria del lavoro autonomo. In una logica tipologica e per grandi categorie di inquadramento concettuale, non v’è dubbio che le collaborazioni etero-organizzate di cui all’articolo 2, comma 1, rientrano nell’ampio genus del lavoro indipendente. Tuttavia, quel ge-nus denominato “lavoro autonomo”, già nella sua topografia
codicisti-ca, appare come un universo composito e plurale, in cui le stesse com-ponenti basiche della categoria (assenza di subordinazione, autonomia esecutiva ed organizzativa, assunzione del rischio dell’attività, conti-nuità o meno della prestazione, “dipendenza economica” rispetto al committente) sono modulate e differenziate in ragione di una dispersio-ne tipologica che colloca i relativi rapporti lungo un continuum di
in-tensità crescente (dalla disciplina generale del libro V alle fattispecie tipiche del libro IV c.c. sino a quelle sovra-tipiche dell’articolo 409, n. 3, c.p.c. e dell’articolo 2, comma 1, decreto legislativo n. 81/2015). Nell’ambito di questa ricostruzione plurale del lavoro autonomo resta quindi aperta la possibilità di impiegare, sia pure in una prospettiva teo-rico-scientifica piuttosto che di stretto diritto positivo, la nozione di ca-tegoria “terza” o “intermedia”, per indicare quelle forme di lavoro au-tonomo che risultano più “compromesse” nella loro morfologia, distan-ziandosi dal modello puro del contratto d’opera (articolo 2222 c.c.). È chiaro che le collaborazioni etero-organizzate di cui all’articolo 2, comma 1, rappresentano la forma di lavoro autonomo più prossima alla fattispecie di subordinazione, o, se si preferisce, più “compromessa” ri-spetto agli indici tipici del lavoro autonomo, e ciò sia per la continuità della prestazione, sia, soprattutto, per l’elemento dell’etero-organizzazione delle modalità esecutive della prestazione. In questo senso, ragionare di una categoria “terza” o “intermedia” può avere un’utilità, che non riguarda la selezione della disciplina applicabile. Il
valore di questa definizione è essenzialmente euristico, e consiste nella
prospettazione di ordine sistematico, oggi avvalorata dal dato normati-vo, che il sistema delle tutele del lavoro non appartiene più unicamente al mondo del lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 c.c., e che la subordinazione (intesa come categoria normativa dotata di un suo “va-lore”, di una sua necessaria componente assiologica) non è più la cate-goria esclusiva del diritto del lavoro. Anche il lavoro autonomo, al cui interno si stagliano con maggiore nettezza di un tempo le forme della “dipendenza economica” o dell’assoggettamento a poteri organizzativi del committente che condizionano sensibilmente l’autonomia del pre-statore (magari, come nel caso dei riders, non nella fase “genetica” del
rapporto, ma sicuramente in quella esecutiva, per riprendere un passag-gio della Cassazione), è divenuto un campo elettivo di tutela del lavoro «in tutte le sue forme e applicazioni», come recita l’articolo 35 Cost. In questo senso, parlare di categorie intermedie non significa necessaria-mente negare la perdurante rilevanza giuridica della “grande dicoto-mia” tra autonomia e subordinazione e guardare al definitivo supera-mento del sistema binario su cui il diritto del lavoro si è progressiva-mente assestato, ma sempliceprogressiva-mente riconoscere che, non da oggi ma soprattutto oggi, la complessità delle forme in cui viene dedotta in
ob-bligazione una prestazione di facere rispecchia esigenze di tutela
con-trattuale e sociale che sono ormai diffuse oltre lo stretto perimetro della subordinazione classica, delineata nei suoi tratti tipici dall’articolo 2094 c.c., riguardando figure, appunto, “intermedie”, le quali, pur qualificate come autonome, si approssimano variamente alla dimensione della su-bordinazione, senza confondersi con essa. Così accade per molte fatti-specie che vivono negli ordinamenti di Paesi europei come la Francia, che conosce figure “ibride” assimilate alla subordinazione senza che sia tuttavia sussistente un lien de subordination juridique, o la Spagna,
do-ve è stato coniato il concetto di lavoratore autonomo dipendente ( traba-jador autónomo económicamente dependiente), o il Regno Unito, ove il
legislatore ha introdotto la categoria intermedia dei workers, o la
Ger-mania e l’Austria, che conoscono lavoratori né subordinati né autono-mi, denominati “lavoratori simili ai subordinati” (arbeitnehmeränliche
Personen) (57), o ancora in Svizzera, ove una “terza” categoria di
(57) I lavoratori “simil-dipendenti”, oltre ad essere caratterizzati dall’assunzione vo-lontaria del rischio d’impresa, non sono persönlich abhängig, né weisungsgebunden, id est non si identificano né per la dipendenza personale né per l’assoggettamento alle
tratti di lavoro è stata creata dalla giurisprudenza, che li qualifica come contratti misti (gemischte Verträge) (58).
Tutti questi esempi, ed altri che si potrebbero trarre dall’analisi compa-rata extraeuropea (basti pensare alla categoria intermedia del dependent contractor riconosciuto dalle Corti canadesi in base al criterio della
“dipendenza economica”: si veda infra nota 63), dimostrano che il tema
della categoria “terza” o “intermedia” non può essere liquidato come un falso problema, o un divertissement dottrinale, ma rappresenta un
aspet-to evolutivo dei sistemi di diritaspet-to del lavoro, con cui, bon gré mal gré,
la dottrina e la stessa giurisprudenza dovranno ancora confrontarsi (59).
direttive del datore di lavoro (ed al suo potere disciplinare) bensì per il carattere della “dipendenza economica”, il cui criterio legale di accertamento ruota attorno, in primo luogo, al lavoro «svolto prevalentemente per una persona» (§ 12a TVG).
(58) Sia consentito il rinvio ad A. PERULLI, Subordinate, Autonomous and Economi-cally Dependent Work: A Comparative Analysis of Selected European Countries, in
G. CASALE (ed.), The Employment Relationship: A Comparative Overview, Hart
Pub-lishing, 2011, pp. 137 ss.; si veda anche B. WAAS,G.HERMA VAN VOSS, Restatement of Labour Law in Europe, vol. I, The Concept of Employee, Hart Publishing, 2017,
pp. LXIII ss.
(59) Mi sembra si collochi in una prospettiva simile A. TURSI, La disciplina del lavoro etero-organizzato: tra riqualificazione normativa del lavoro subordinato, tecnica ri-mediale, e nuovo paradigma di protezione sociale, in Lavoro Diritti Europa, 2020, n.
1, p. 16, specie laddove si riferisce ad un sistema del diritto del lavoro «che allarga i suoi spazi, senza pretese di annessione, verso il mondo variegato del lavoro autono-mo», e di una nuova e più vasta area di “protezione del lavoro autonomo”, estesa oltre i confini della “parasubordinazione”. Propenso ad un ragionamento de iure condendo
in cui le categorie intermedie svolgono la funzione euristica di cui al testo, mi sembra
anche M. BIASI, Tra fattispecie ed effetti: il “purposive approach” della Cassazione nel caso Foodora, in Lavoro Diritti Europa, 2020, n. 1, specie nella parte conclusiva
ove si prospetta un approccio selettivo «sulla scia dell’esempio dei workers
britanni-ci», con «espressa posizione circa i diritti – ragionando in primis su quelli, aventi un
addentellato costituzionale, come la retribuzione (art. 36), l’orario, i riposi e le ferie (art. 37), suscettibili di costituire l’oggetto di una posizione giuridica di debito/credito – e non solo sulle caratteristiche dei lavoratori cui riconoscere le guarentigie», oppure, seguendo la via della “neo-polarizzazione”, «la cancellazione dell’art. 2 (e del capo V-bis del) d.lgs. 81/2015, optando per l’introduzione di uno statuto del lavoro
9. La disciplina “ontologicamente incompatibile”: un pertugio