GIORGIO COSMACINI
N
ella propria ontogenesi, l’essereuma-no nasce, cresce, si stabilizza, declina e muore. La durata media del suo ciclo vi-tale, dai tempi della preistoria in qua, è grandemente mutata: le speranze di vita alla nascita, cioè l’aspettativa media degli anni da vivere, dalla metà del XIV secolo alla fine del XIX si è raddoppiata, da venti a quarant’anni, per raddoppiarsi ulteriormente, da qua-ranta a ottant’anni, nell’arco del XX secolo fino a oggi. Il grande medico Rudolf Virchow, fondatore della Cellularpathologie (1858), che localizza nelle cellule dell’organismo la sede d’insorgenza del-le malattie, certificò che sono queste a contrastare nell’organismo umano il naturale compimento del suo ciclo vitale. Al primo po-sto c’erano, quando scrive Virchow, quelle malattie che per essere caratterizzate da larga diffusione, ampia contagiosità, vasta mor-bosità ed elevata mortalità meritavano di essere dette epidemie e identificate nella loro natura infettiva.
La natura – “che tutti ci recinge”, come asseriva a fine Ottocen-to il filosofo naturalista AnOttocen-tonio Labriola – ci è madre, ma anche matrigna. A essa appartengono anche i microviventi, come i
ger-mi di malattia ipotizzati dalla teoria di Louis Pasteur e come i ger- mi-crobi della tubercolosi e del colera scoperti dal microscopio di
Ro-bert Koch. Tali microrganismi coabitano con i macroviventi, come
Giorgio Cosmacini è professore di Storia della medicina all’Università Vita-Salute San Raf-faele di Milano.
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l’uomo e gli animali cosiddetti “superiori”, spesso conviventi (sa-profiti) ma talora malviventi (parassiti) o addirittura nemici, “ne-mici invisibili”, portatori di un veleno – in latino virus – ammor-bante e mortale.
“Epidemia” è parola greco-latina, presente in Ippocrate e si-gnificante (con qualche licenza lessicale) malattia incombente
epi dérmon, “sopra il popolo”, popolare, diffusa a larga parte
del-la popodel-lazione; e l’ancor più globalizzante parodel-la pandemia è pre-sente in Platone, da questi però riferita alle esercitazioni militari praticate in massa per una “guerra totale”.
Anche “virus” è parola che è passata dal significato di nocu-mento provocato dal morso di un animale venefico, fosse questo una serpe o un cane rabbioso, al significato di danno inferto agli esseri umani da un’astrale maligna influentia. Questa diventò poi l’“influenza”, non più extraterrestre ma terrestre, apportatrice di un’entità ammorbante – quid morbi – materializzatasi infine, sul fi-nire del XIX secolo, nella sostanza microvivente, “microbiologica”, capace di trasmettere ai macroviventi una malattia virulenta, vira-le, epidemica e contagiosa.
Contagio è anch’essa parola antica. Cicerone, nel De domo sua,
fa menzione del “contagio” scrivendo di “coloro che si contami-narono con la preda” e Tacito negli Annales lega fra loro le parole
contactus e infectus scrivendo dei “molti che erano infetti per una
malattia contagiosa”. Isidoro di Siviglia, nell’opera Etymologiae o
Origines, contenenti tutto quanto lo scibile dell’Alto Medioevo,
scrive del contagium a contingendo, quia quemquem tetigerit
pol-luit: “Contagio da contatto, perché insemenzò chiunque l’avesse
toccato”.
La patologia virale, infettiva e contagiosa, è caratterizzata oggi dal fatto che i suoi agenti sono incapaci di riprodursi autonoma-mente, avendo bisogno di cellule ospitanti da parassitare e sfrut-tare. Spinti da tale necessità, sono agguerriti, combattendo per la propria sopravvivenza. Nella seconda metà del XX secolo, dopo la scoperta del Dna, il microscopio elettronico ha consentito di rico-noscere i virus nella loro concreta identità nucleoproteica, costitui-ta dalla stessa materia di cui è fatcostitui-ta l’informazione genetica. Il che
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ha permesso all’arguzia di un virologo di etichettarli come “cattive notizie imbustate in un involucro nucleoproteico e aventi per de-stinatari gli individui immunologicamente disinformati”.
Prima di passare dal nominalismo delle parole al realismo del-le cose che esse esprimono, c’è da dire di un’altra parola che per lungo tempo, in passato, fu sinonimo di “epidemia”. È il termine
pestilenza, un’“influenza pestifera” il cui prefisso pes,
incorpora-to in peste, viene collegaincorpora-to dai glotincorpora-tologi a una radice verbale an-tichissima, di origine indoeuropea, significante “soffiare”. Un sof-fio esiziale, contrastante il respiro esistenziale e opposto al sofsof-fio divino, creatore e animatore, poteva dare la morte. Tale interpre-tazione – o teoria aerista – incriminante il mal’aere o “malaria” fu per secoli competitiva dell’interpretazione – o teoria
contagioni-sta – incriminante invece il contagio interumano. La “teoria
ae-rista”, nonostante le ripetute esperienze ed evidenze dei contagi e della loro letalità, restò dominante fino agli scritti esplicativi di Girolamo Fracastoro, colui che nel XVI secolo diede al “mal fran-cese” il nome sifilide (1530) e mise a fuoco i problemi nei suoi De
contagione et contagiosis morbis (1526) e De sympathia et antipathia rerum (1546), questi ultimi relativi all’agonismo e antagonismo tra
le “cose del mondo”.
Fra le cose antagoniste dell’uomo ci sono le malattie che, come tutte le cose umane, anch’esse nascono, crescono, si stabilizzano, declinano e muoiono. La storia è densa degli esempi di malattie epidemico-contagiose che, dai tempi di Omero fino ai nostri gior-ni, sono venute, hanno fatto danni talora terribili e poi, com’era-no arrivate, socom’era-no andate via. L’Iliade si apre con la narrazione del-la pestilenza che affligge il campo acheo, dovuta a una colpa grave commessa da Agamennone, che ha scatenato l’ira di Achille coin-volgendo gli dèi nella punizione, inflitta scagliando indiscrimina-tamente dardi a ripetizione sugli uomini dei quali Agamennone è il capo. Il Dio della salute Apollo:
I muli colpiva in principio e i cani veloci, ma poi mirando gli uomini la freccia acuta
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aut aut, 389, 2021, 169-181