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389/2021 Riflessioni sulla pandemia

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Academic year: 2021

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389

marzo 2021

Riflessioni sulla pandemia a cura di Alessandro Dal Lago e Massimo Filippi

Premessa [A.D.L., M.F.] 3

Massimo Filippi Un quasi niente che ci ri/guarda 13 Felice Cimatti Pensare con il virus 32 Claudio Kulesko Lo Zenith del Serpente Cosmico.

Ira tellurica, flagelli e piaghe del Nuovo

Leviatano 56

Antonio Volpe Ormai soltanto un virus ci può

salvare? 73

Alessandro Dal Lago Note sull’età

dell’incertezza 95

Didier Fassin Vite invisibili ai tempi

della pandemia 111

Mariella Pandolfi Homo pandemicus: governare

la precarietà? 127

Serena Giordano Covid in TV. Spot e propaganda

nel lockdown 140

Giorgio Cosmacini Una nota su paure

ed epidemie nella storia 160 INTERVENTI

David Watkins La lettura che trabocca

in scrittura. Appunti sull’arte del pastiche 169 Edoardo Greblo Cambiare l’anima. L’ortopedia

morale del neoliberalismo 182 Pier Aldo Rovatti Risposte a “Delo” POST 200

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Mauro Bertani, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, [email protected]), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Nicola Gaiarin,

Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Francesco Stoppa, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

ISSN: 0005-0601

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, P. Barone, G. Berto, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, F. Polidori, A. Prete, R. Prezzo, G. Scibilia, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: [email protected]

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l.

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Finito di stampare nel febbraio 2021

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aut aut, 389, 2021, 3-12

Premessa

E

ra stata prevista, ma non si sapeva esatta- mente quando e con quale agente pato- geno; è accaduta e sta ancora accadendo.

Stiamo parlando, ovviamente, della pandemia di Covid-19 causata da Sars-CoV-2. Nel momento in cui stiamo scrivendo questa pre- messa (novembre 2020), la situazione è molto fluida e sarà sicura- mente cambiata in maniera significativa quando questo fascicolo di “aut aut” sarà disponibile ai lettori e alle lettrici.

Chi, a partire dalla scorsa primavera, ha seguito le vicende asso- ciate a questa pandemia sa perfettamente quanto le previsioni dei cosiddetti “esperti” (virologi, epidemiologi, infettivologi, esper- ti di terapia intensiva ecc.) si siano modificate, spesso anche nel giro di pochi giorni e in maniera autocontraddittoria. Altrettanto poco elaborata è stata la risposta di alcuni pensatori che è oscilla- ta – e ancora oscilla – tra la descrizione (bulimica e autocentrata) dell’impatto “locale” che la pandemia ha avuto sulle loro esisten- ze e, all’opposto, l’idea secondo cui la pandemia sia un’invenzione che sta consentendo la conduzione di un esperimento di control- lo biopolitico, senza precedenti e su scala planetaria, esperimen- to potenzialmente foriero di distopie politiche se possibile ancora più feroci di quelle che il capitalismo neoliberale sta già esercitan- do da tempo sui dannati della Terra – siano essi umani animaliz- zati o animali non umani.

Poiché non siamo esperti, non intendiamo avventurarci là dove anche gli angeli esitano – o dovrebbero esitare. Ci limiteremo per-

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tanto a indicare alcuni aspetti che ci paiono chiari fin dall’inizio della pandemia e che le sue possibili evoluzioni non saranno vero- similmente in grado di contraddire.

Il primo aspetto è medico ed è – o dovrebbe essere – sotto gli occhi di tutti: ci troviamo nel bel mezzo della seconda ondata di una grave emergenza sanitaria globale che, senza dubbio, avrà no- tevoli ripercussioni esistenziali, economiche e sociali. A questo si aggiunga che, nonostante tutte le conoscenze acquisite nel corso della prima ondata, anche questa volta ci siamo fatti trovare im- preparati ad affrontare la crisi. Sia psicologicamente – dopo mil- lenni di incontrastato antropocentrismo violento non è facile “sco- prire” e accettare di essere corpi vulnerabili e mortali, esattamente come è il caso di tutti i viventi con i quali siamo, che ci piaccia o meno, inestricabilmente connessi –, sia istituzionalmente e opera- tivamente, aspetto questo in qualche modo decisamente più grave.

L’atmosfera attuale è ben rappresentata dal fatto che ancora in molti non hanno compreso – o fanno finta di non comprende- re – che la pandemia da Sars-CoV-2 è tutt’altro che una “banale influenza”: secondo i dati della Johns Hopkins University, a oggi (16 novembre 2020) oltre 54 milioni di persone sono state infetta- te dal virus e oltre 1,3 milioni sono i morti. Se non bastasse, ricor- diamo che le “banali” influenze stagionali uccidono anch’esse cir- ca 250.000 persone ogni anno, con picchi che hanno raggiunto i 50 milioni di morti nel caso dell’influenza spagnola del 1918-1920 e di 2 milioni di morti nel caso dell’influenza asiatica del 1957- 1960. Pertanto, anche se la pandemia di Covid-19 fosse solo un’al- tra influenza – qualunque cosa questo possa significare – varrebbe comunque la pena di non sottovalutarla. Purtroppo però il maca- bro conteggio non si ferma qui: la riorganizzazione dei pronto soc- corsi, degli ospedali e degli ambulatori per far fronte all’emergen- za ha certamente comportato, almeno nel corso della prima onda- ta, quantomeno un ritardo nell’erogazione di prestazioni che pos- sono aver inciso negativamente, seppure in maniera difficilmente quantificabile, sull’attesa e sulla qualità di molte vite (pensiamo solo ai pazienti oncologici o chirurgici e alle visite di prevenzione di patologie gravi e potenzialmente letali).

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Il secondo aspetto è biologico. Per quanto attiene la vicenda in questione, una volta che Sars-CoV-2 ha “aggredito” Homo sapiens, si è poi mostrato capace di trasmettersi con una certa facilità da una persona a un’altra e di poter causare, pur nella variabilità delle sue manifestazioni, una malattia di notevole gravità, tanto da poter essere mortale o da poter imporre la necessità di ricoveri pluriset- timanali in terapia intensiva con postumi fisici e mentali tutt’altro che trascurabili in molti casi.

Diversi sono i fattori biologici che possono determinare, inte- ragendo tra loro e con l’ospite, l’estensione e l’intensità di un’epi- demia e delle sue manifestazioni cliniche. Tra questi certamente l’infettività, ossia la capacità dell’agente patogeno di “colonizzare”

altri organismi, indipendentemente dal fatto che possa provoca- re o meno una malattia, la trasmissibilità, ossia la capacità del mi- crorganismo di contagiare, di passare da un individuo infetto ad altri con cui non è ancora entrato in contatto, la patogenicità, ossia la potenzialità di un agente infettivo di provocare danni negli or- ganismi ospiti, e la virulenza, ossia il parametro che quantifica la gravità dei danni provocati dall’infezione. A questi si devono poi aggiungere altri fattori, per esempio la capacità e la frequenza di mutazioni geniche dell’agente patogeno, la durata dell’incubazio- ne, la frequenza dei portatori sani, l’esistenza di serbatoi di incu- bazione (una o più specie in cui il patogeno è endemico ma non produce malattia e quindi può sopravvivere indisturbato), la via di trasmissione, la risposta immunologica dell’ospite (scarsa o ec- cessiva)… Per capirci, un agente infettivo, molto mutageno (come i virus a Rna), altamente trasmissibile (come l’influenza) e virulento (come Ebola), che si trasmettesse per via aerea e con una discreta frequenza di portatori sani (come Sars), che si potesse avvalere di serbatoi di incubazione (come il virus Nipah) e caratterizzato da un lungo periodo di incubazione (come Hiv), farebbe ben presto impallidire la peste nera.

Stiamo parlando di un incubo degno di romanzi di fantascien- za di serie B? Forse sì, o almeno lo speriamo. E l’incertezza di que- sta risposta è dovuta al fatto che un punto che, a nostro avviso, non è stato ancora considerato con l’attenzione che meriterebbe è

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che Covid-19 è una zoonosi: Sars-CoV-2, in un certo momento del- la sua storia naturale, è stato in grado di passare, compiendo l’or- mai ben noto “salto di specie” o spillover da una specie a un’altra – che poi, per noi, questo significhi, sempre e comunque, dall’ani- male all’uomo è ancora una volta il segno dell’inveterato antropo- centrismo dei nostri paradigmi culturali.

Le zoonosi sono parte integrante della storia dell’umanità, al- meno negli ultimi 8-10.000 anni, a partire dalla rivoluzione agri- cola e dall’addomesticamento degli animali. La maggior parte del- le malattie infettive passate e attuali sono arrivate fino a noi grazie alla vicinanza tra la nostra specie e le altre. Vicinanza che è sì biolo- gica – un virus (ma non solo) è più probabile che infetti organismi filogeneticamente apparentati –, ma che è anche più-che-biologica – l’attuale vicinanza tra umani e altri animali è il risultato di una violenza strutturale, di una guerra organizzata e spietata contro i viventi non umani, i loro habitat e l’intero pianeta. Non dimenti- chiamoci, infatti, che i cosiddetti “animali selvatici” e i cosiddetti

“animali da reddito” possono rappresentare sia il serbatoio di in- cubazione sia il trampolino di lancio per il passaggio dell’infezio- ne agli umani.

Ecco che così siamo arrivati al terzo aspetto legato alla diffusio- ne planetaria di Sars-CoV-2: quello sociale e politico. Se è ovvio, in- fatti, che non ci possono essere infezioni senza i rispettivi patogeni e i rispettivi ospiti, è altrettanto certo che le attuali pandemie – e, in misura quantitativamente inferiore, anche quelle del passato – sono un fenomeno natural-culturale, per usare un’efficace termine “im- plosivo” coniato da Donna Haraway. La rapida diffusione dell’at- tuale virus killer, infatti, è ascrivibile non solo alla sua biologia (tra- smissibilità, patogenicità, virulenza ecc.) e alla sua interazione con le nostre vie aeree, ma anche ad aspetti sociali e politici, quali an- tropizzazione, devastazione ambientale, globalizzazione, aspetti as- sociati all’incedere sempre più violento e nefasto – virulento, ver- rebbe da dire – dell’ideologia e delle prassi capitaliste. Come non riconoscere che la diffusione di Sars-CoV-2 deve molto – per usare un eufemismo – all’effetto moltiplicativo di diversi eventi che poco hanno a che fare con la sua e la nostra biologia? All’effetto combi-

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nato e iperbolico causato dalla distruzione degli habitat degli “ani- mali selvatici”, dalla creazione di megalopoli ad alta densità demo- grafica, alla vicinanza tra queste megalopoli e quelle che un tempo erano foreste inaccessibili e, quindi, a patogeni per noi “alieni”, alla velocità senza precedenti dei mezzi di trasporto e degli scambi tra continenti? Al che va aggiunto il trattamento infernale e inimma- ginabile di decine di miliardi di animali negli allevamenti intensi- vi, enormi e ubiquitari serbatoi di infezione in cui agenti patogeni potenzialmente letali possono proliferare, mutarsi e diffondere…

Come insegna Derrida, la guerra di specie si associa allo sterminio per moltiplicazione.

Quanto detto ci permette di spiegare il senso della frase con cui abbiamo iniziato questa premessa. Gli elementi per un disa- stro planetario erano già tutti lì – senza bisogno di grandi trame occulte, con buona pace dei complottisti – e una pandemia prima o poi non poteva che verificarsi, restavano indefiniti soltanto qua- le patogeno e quando.

Ora, purtroppo, chi e quando li conosciamo. Ma il punto più rilevante non è tanto questo. È che, data la situazione dell’umani- tà, il rischio di una nuova pandemia ancora peggiore dell’attuale è tutt’altro che trascurabile. Pertanto, è quanto mai urgente e ne- cessario sviluppare strategie capaci di disinnescare la miccia di ciò che gli scienziati chiamano eloquentemente The Next Big One – ossia, di quello che poche righe (o anni) fa ci sembrava (ci sa- rebbe sembrato) un prodotto della fertile fantasia di un narratore di fantascienza di serie B.

Le soluzioni di natura tecnico-emergenziale restano ovviamen- te fondamentali, ma non è neppure pensabile limitarsi a rincorre- re il ripetersi delle epidemie o pandemie semplicemente passando da un farmaco all’altro o da un vaccino all’altro – condizione que- sta che, tra l’altro, richiederebbe continui e ulteriori sacrifici ani- mali. Per questo, oggi più che mai, c’è bisogno di una nuova visio- ne che modifichi radicalmente le nostre modalità di produzione e distribuzione delle merci e di che cosa intendiamo per “merce”.

C’è, insomma, bisogno di cambiare il nostro modo di rapportarci con il pianeta e con le infinite altre creature con le quali coabitia-

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mo, creature degne quanto noi di vivere e di vivere bene. E per far questo – è utile ribadirlo – non ci resta molto tempo.

Era forse prevedibile, ma è stato del tutto imprevista. Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, la pandemia di Covid-19 ha investi- to il mondo, con la parziale eccezione del continente africano – a onta delle grida paranoiche e razziste sulle malattie che sarebbe- ro importate dai migranti. Fin dal primo momento, è stato chiaro che qualcosa di irreversibile, o comunque gravido di conseguenze per un mondo stanco, inquinato e conflittuale, stava avvenendo.

Ideologie che sembravano travolgenti, dogmi economici, luoghi comuni planetari sono stati improvvisamente messi in discussio- ne e in alcuni casi travolti. È probabile che Donald Trump debba alla sottovalutazione della pandemia la sconfitta elettorale del no- vembre 2020. Il lavoro telematico sta sostituendo quello faccia a faccia, negli uffici pubblici e privati. L’educazione pubblica, che da secoli si basava sulla parola e sullo sguardo vigile di maestri, istitutori e professori, è rimpiazzata da lezioni a distanza. Mentre interi settori economici sono in crisi o falliscono, la distribuzione di beni e servizi via Internet prospera globalmente. Figure sociali che pensavamo di nicchia, oltre che malpagate, come i rider, po- polano strade su cui si affacciano sempre meno bar e ristoranti.

Non si sa più se l’aria delle città renda liberi, ma sicuramente è meno inquinata di prima.

La dottrina dell’austerità finanziaria, che ha dominato l’Euro- pa dall’istituzione dell’euro, è stata accantonata per il momento. Il deficit non è più, sembrerebbe, un indicatore della scellerataggi- ne economica di alcuni Stati e il debito pubblico una zavorra leta- le. Per arginare la pandemia o mantenere un minimo di vita eco- nomica, gli Stati spendono più di quanto abbiano in cassa, il che è stupefacente se si pensa che la Grecia, un paese di pochi milio- ni di abitanti, è stato condannato anni fa, letteralmente, alla fame per rimborsare i prestiti a cui gli “investitori”, cioè una decina di banche globali, l’avevano costretta. Ma questi sono solo gli effetti immediati della reazione alla pandemia. È possibile individuarne alcuni, prevedibilmente, più duraturi nel tempo?

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La prima considerazione che viene spontanea è il conflitto evi- dente tra economia, o sistema della vita sociale, e vita individuale.

Poiché il virus Sars-CoV-2 si trasmette nell’aria, diversamente da quelli veicolati dal sangue o altri fluidi biologici, la prima forma evidente di protezione è l’interruzione o la sospensione dei con- tatti interpersonali. Ma nessuna società potrebbe sopravvivere più di qualche settimana senza contatti diretti tra le persone. L’eco- nomia, che non è altro, in essenza e in origine, che la dimensione utilitaristica delle relazioni faccia-a-faccia (nella forma del merca- to, della produzione, dei luoghi di scambio denaro-servizi come nel commercio) morirebbe rapidamente se i contatti interperso- nali fossero ridotti sotto una certa soglia. È vero che le transazio- ni bancarie e i mercati di denaro e merci possono trasferirsi dagli spazi micro-sociali agli ambienti virtuali. Ma quelli che alimenta- no lo scambio sono pur sempre luoghi reali in cui i beni vengo- no materialmente prodotti – assemblati e confezionati, dopo che le materie prime di cui sono fatti sono state estratte dalla terra o realizzate in laboratorio, trasformate e spedite in giro per il mon- do. Prima dei realisti filosofici, queste banali verità erano ben note agli economisti, Marx compreso. Ora, la rarefazione o la sospen- sione delle relazioni faccia-a-faccia, o della semplice compresenza, in cui tali attività sono realizzate, è un’evidente minaccia all’eco- nomia. Il lavoro, fondamento di ogni scambio, è sempre comune, se non comunitario, in qualche forma, almeno all’origine. Renden- dolo impossibile o comunque riducendolo sotto un certo limite, la mega-macchina mondiale si fermerebbe.

C’è chi sogna qualcosa del genere, ma tra i fan della decresci- ta, felice o infelice che sia, non si annoverano di certo i governi. Si capisce allora come qualsiasi potere statale sia posto di fronte al dilemma se salvare più vite, oggi, limitando le interazioni faccia- a- faccia nelle fabbriche o nei luoghi di scambio, divertimento o tem- po libero, oppure sacrificarne una certa quota in nome del funzio- namento necessario della macchina che fa vivere le società. Que- sta è la scelta politica sottintesa da qualsiasi grafico sull’evoluzione del contagio e soprattutto dalle curve che esprimono l’andamen- to della mortalità da pandemia di Covid-19. Nessun governo, ov-

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viamente, può dirlo in questi termini ai governati. Ma non c’è sta- to momento, dall’inizio della pandemia, tra dicembre 2019 e feb- braio 2020, sino a oggi, in cui il dilemma non fosse presente nel- le decisioni politiche. In questo senso, il virus vagante e mutante chiamato Sars-CoV-2 è un formidabile rivelatore della natura bio- politica di ogni attività di governo. In quanto preposto al metabo- lismo della vita sociale, qualsiasi governo è per natura biopolitico.

Il concetto è stato escogitato da Foucault più di trent’anni fa, ma qualsiasi forma di potere è stata, da sempre, biopolitica, attraver- so la guerra e l’attività economica, i principali fattori di gestione delle popolazioni.

Pertanto, il tanatopotere non è che un aspetto del biopotere. Si tratta, in determinati momenti critici, di scegliere chi far morire, perché la sopravvivenza di tutti costerebbe troppo all’economia. Il termine triage non è altro che la cernita di chi vale la pena far vi- vere o morire negli ospedali o nelle residenze per anziani – poiché l’allestimento di reparti di terapia intensiva, il personale, le medi- cine e gli altri servizi necessari costano. Tutto si tiene, in una so- cietà complessa terrorizzata dalla povertà e dal declino. Le tasse di alcuni fanno vivere gli altri, e quindi – oltre al consueto conflit- to ideologico e politico tra classi e ceti – ecco lo scontro sulla di- stribuzione sociale della vita e della morte. Il virus porta alla luce la relazione atroce, e per questo per lo più taciuta, tra ricchezza di alcuni e vita degli altri. Sopravvivere in condizioni di pandemia affossa le economie – ed ecco quindi che il governo di qualsia- si società dovrà fare delle scelte, come ha sempre fatto. Se i ricchi governano senza freni, moriranno i poveri, come è successo sotto Trump o Bolsonaro. Se in qualche misura la loro cupidigia è fre- nata, i ricchi dovranno contribuire alla sopravvivenza dei poveri.

Come la vista degli homeless morti di freddo o di stenti nelle gran- di città occidentali avrebbe dovuto suggerire da sempre, alla fine della scala sociale non c’è solo la povertà estrema, ma la morte.

Lotta per la vita, dunque, ma in un senso totalmente diverso da quello che poteva accendere la fantasia di uno scrittore come Jack London, curiosa figura di socialista nutrito di cultura darwi- nista. Ora, se è vero che il potere dei governi durante la pandemia

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è soprattutto un tanatopotere, qualcosa che finora si era conosciu- to solo in tempo di guerra, le accuse di dittatura velata ai governi che sembrano accomunare negazionisti, leader delle destre mon- diali e alcuni filosofi non colgono esattamente il punto, anche se qua e là i loro argomenti sono plausibili. I governi di una società liberale, legittimati da quella forma di sondaggio d’opinione pe- riodico e ufficiale chiamato elezioni, non possono rivelare i termi- ni reali del dilemma: sacrificare alcuni oggi per far vivere decen- temente gli altri domani, oppure tentare di bloccare la pandemia con il rischio che il declino economico, a lungo andare, comporti la morte sociale. Né possono obbligare i governati, oltre una certa soglia, a comportarsi in modo austero, asociale e anti-economico.

Le prescrizioni di legge che mirano al contenimento della pande- mia, contraddittorie, estemporanee e intermittenti, dovranno es- sere integrate pertanto dalla persuasione, o meglio, dalla retorica governativa della responsabilità personale, del contegno presso di sé o in presenza degli altri, dell’obbedienza interiore al comando.

Uno stile pedagogico e pastorale che, se il virus non si decidesse a scomparire o mettersi in sonno, potrebbe, alla lunga, minacciare la legittimità di qualsiasi governo agli occhi dei governati. Perché questi, privati da tanto tempo di un’autentica partecipazione alla vita pubblica, non tollererebbero la perdita della libertà in quel- la privata.

Questo numero è un primo tentativo di discutere le diverse di- mensioni della pandemia a cui abbiamo accennato nelle pagine precedenti. Nei mesi immediatamente successivi al dilagare della pandemia, soprattutto dopo il primo lockdown, edicole e libre- rie sono state inondate da libriccini, saggi e pamphlet che cerca- vano di fare il punto su qualcosa di inaudito e che ha cambiato le prospettive della vita sulla terra per gran parte dell’umanità. Ora,

“aut aut” ha preferito entrare nella discussione in seconda battu- ta, per così dire, aspettando che la situazione si definisse. Quel- lo che possiamo affermare nel momento in cui chiudiamo questo fascicolo è che dovremo convivere con il virus ancora per molto tempo e forse nel lungo periodo (per ragioni che abbiamo cerca-

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to di chiarire nelle pagine di questa premessa). Di conseguenza, abbiamo preferito che qui, su una pandemia di cui al momento non si conoscono tempi e modalità di estinzione, si esprimessero voci plurali e problematiche.

In una prima parte abbiamo raccolto voci di studiosi di filoso- fia che riflettono sul rapporto tra pandemia e pensiero, con parti- colare riferimento all’antropocentrismo, in una fase storica in cui il dominio umano sulla natura si rivela nella sua trionfale distrut- tività (Filippi), alle nuove forme di potere cosmico (Kulesko) e alle sfide che il virus pone al pensiero (Cimatti, Volpe). Nella secon- da abbiamo chiamato sociologi e antropologi a riflettere sulle di- mensioni sociali e culturali del virus: il diffondersi dell’incertez- za (Dal Lago), il ruolo del virus come rivelatore dei meccanismi di potere del mondo globalizzato (Fassin), l’idea di fine del mon- do che sembra governare la cultura del capitalismo contempora- neo (Pandolfi) e l’iconografia del virus (Giordano). Infine, pub- blichiamo la nota di un insigne storico della medicina, Giorgio Cosmacini, che fa chiarezza lessicale e concettuale sull’idea di pandemia in medicina e nell’opinione pubblica. Su una realtà vi- rale che ci accompagnerà probabilmente a lungo non mancheran- no, anche su questa rivista, altre voci e altre diagnosi.

Milano-Palermo, novembre 2020

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Un quasi niente che ci ri/guarda

MASSIMO FILIPPI

La vita non ha bisogno di noi per viversi.

R. Ducharme, Inghiottita1

Ci sono decisamente troppe fini del mondo per stare al passo con tutte.

C. Miéville, La fine di tutte le cose2

1. Questo è il modo in cui finisce il mondo / Non con un’esplosione ma con un gemito3

L’emergenza sanitaria globale scatenata da Sars-CoV-2, in cui an- cora viviamo-moriamo e che ancora non sappiamo come evol- verà, è un iperoggetto che ci mette di fronte a un’ulteriore possibi- le fine del mondo o, che è lo stesso, a un’ulteriore fine della storia.

Se accettiamo la definizione che ne dà Timothy Morton, l’in- ventore del termine, un iperoggetto è, tra le altre cose, viscoso, non-locale e dotato della capacità di esercitare effetti devastanti sulla realtà. Un iperoggetto ingloba dentro di sé un’innumerevole quantità di oggetti – tra cui gli umani – in un modo che ne rende impossibile la fuoriuscita, ricopre tutta o gran parte della Terra e ha la capacità di scardinare lo spaziotempo degli oggetti che si tro- vano invischiati in “un luogo di vita e di morte, di morte-nella-vita e di vita-nella-morte, un luogo di morti viventi e zombie, di viroidi, Dna di scarto, fantasmi, silicati, cianuro, radiazioni, forze demo- niache e inquinamento”.4 L’iperoggetto, insomma, è “la verità del- lo straniero estraneo”5 che, sguardo senza sguardo, ci ri/guarda.

Difficile, quindi, non pensare alla pandemia da Sars-CoV-2 come a un iperoggetto: il virus ha ricoperto l’intero pianeta con una sorta di pellicola letteralmente in grado di togliere il respiro,

Massimo Filippi è professore di Neurologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

1. R. Ducharme, Inghiottita (1966), La Nuova Frontiera, Roma 2018, p. 102.

2. C. Miéville, La fine di tutte le cose (2010), Fanucci, Roma 2019, p. 361.

3. “This is the way the world ends / Not with a bang but a whimper”, T.S. Eliot, The Hollow Men, 1925.

4. T. Morton, Iperoggetti (2013), Nero, Roma 2018, p. 63.

5. Ivi, p. 17.

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sembra impossibile smarcarsene grazie alla frequenza dei porta- tori asintomatici e al periodo di latenza tra il momento dell’infe- zione e l’eventuale comparsa dei sintomi e, infine, non vi è dubbio che, incrociando biologia, fantasmi, forze materiali (più o meno demoniache) e inquinamento, questo virus (come è stato il caso di altri agenti infettivi del passato) abbia prodotto un nonluogo,6 in cui il confine tra vita e morte è sempre più poroso e indefini- bile,7 non fosse altro perché la pandemia ha messo sotto gli oc- chi di tutti le sale dei reparti di rianimazione, ossia quei nonluo- ghi dove la tecnologia biomedica ha dissociato l’essere in vita o in morte dal funzionamento o dall’arresto dell’attività cerebrale, car- diaca e respiratoria.

La pandemia da Sars-CoV-2 non è, chiaramente, l’unico iperog- getto con cui abbiamo a che fare. La radioattività e il riscaldamen- to globale sono altri due iperoggetti che inglobano la nostra quo- tidianità e che, come il virus, accennano, preludono, annunciano, mostrano il rischio o denunciano l’inevitabilità – a seconda delle diverse ideologie e dei differenti stati d’animo – della fine del mon- do/storia. Non a caso, Bill Gates, uno dei sacerdoti più accreditati e astuti della religione oggi dominante – il capitalismo8 –, non ha esitato ad accostare, già nel 2015, guerre nucleari e pandemie vira- li, per sostenere che dovremmo ri/guardarci più da queste che da

6. Secondo Augé, un nonluogo è uno “spazio” in cui si entra grazie a un codice e in cui si è perennemente sostituibili. Nella pandemia di Covid-19 si entra in quanto portatori del codice genetico della specie Homo sapiens e, come è fin troppo tristemente noto, tutti pos- sono facilmente sostituire tutti nelle code per eseguire i test diagnostici, nelle corsie dei re- parti di rianimazione o nei forni crematori. Già oggi, e probabilmente ancor di più in un prossimo futuro, altri codici associati alla diffusione del virus (per esempio, negatività al tampone nasofaringeo, presenza di anticorpi nel siero ed effettuazione della vaccinazione anti-Sars-CoV-2) regoleranno l’entrata/uscita dai nonluoghi classici (come alberghi e mez- zi di trasporto). Cfr. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmoder- nità (1992), Elèuthera, Milano 1993.

7. Va ricordato, tuttavia, che la labilità del confine vita/morte era evidente, tra gli altri, a Derrida ben prima che le pandemie umane attirassero l’attenzione generale. Cfr. J. Der- rida, La vie la mort. Séminaire (1975-1976), Seuil, Paris 2019. Del resto, i virus si collocano proprio al confine tra ciò che chiamiamo “vivente” e “non vivente”.

8. Che il capitalismo abbia la struttura di una religione, seppur sui generis, è stato mo- strato con acume, alla metà del 1921, da Walter Benjamin, nel frammento Capitalismo come religione (1985), il melangolo, Genova 2013.

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quelle.9 In fondo, la principale differenza tra i tre iper oggetti necro- planetari citati è solo la velocità con cui porterebbero il mondo alla sua fine: la bomba atomica in tempi brevissimi, il riscaldamento globale nel corso di diversi decenni e le pandemie a venire – l’at- tuale non sembra, almeno per il momento, capace di tanto – vero- similmente in un lasso di tempo intermedio tra questi due, lasso di tempo che potrà variare a seconda delle caratteristiche biologiche dell’agente infettivo implicato e dell’ambiente planetario in cui si troverà a muoversi. La pandemia in corso, come quelle del recente passato e quelle a venire, è perciò un iperoggetto potenzialmente in grado di causare una fine del mondo rallentata rispetto a quelle

“classiche” associate all’ira di un qualche dio, alla vendetta di una più o meno fantomatica Natura o al lancio di testate nucleari.

2. Sui muri pallidi della città scorre catarro / […] di che abbiamo paura, allora, di chi?10

Se la pandemia da Sars-CoV-2 è un iperoggetto il problema non è solo capire come uscirne, ma soprattutto comprendere come ci siamo finiti dentro. Il che, tra l’altro, almeno a livello teorico, nel caso in cui le pandemie attuali e a venire si rivelassero iperog- getti “difettosi” – da cui, quindi, sarebbe possibile liberarsi –, ci potrebbe aiutare a trovare una soluzione più definitiva di quella che prevede di rincorrere il ripetersi delle epidemie/pandemie passando da un farmaco all’altro o da vaccino all’altro. Per que- sto abbiamo bisogno, più che di tecnici autoproclamatisi esper- ti di qualcosa che non sono stati in grado di predire fino all’altro ieri, di una visione politica all’altezza della situazione, una visio- ne che si smarchi dagli estremi che hanno caratterizzato la rifles- sione critica di questi mesi (almeno in Italia, uno dei primi paesi a essere pesantemente colpito, almeno in alcune sue regioni, da Sars-CoV-2): da un lato la narrazione diaristica di storielle edipi- che e dall’altro quella metafisica che, dopo aver definito l’emer-

9. Cfr. www.ted.com/talks/bill_gates_the_next_outbreak_we_re_not_ready/tran- script? language=it

10. I. Ferrari, Nella conta dei fantasmi, 1999.

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32 aut aut, 389, 2021, 32-55

Pensare con il virus

FELICE CIMATTI

La peste ritornerà.1

1.

È sempre più vero quello che Foucault scriveva nel 1970 – recensendo Differenza e ripetizione e Logica del senso – che “un jour peut-être le siècle sera deleuzien”.2 Una frase usurata dalle mille ripetizioni, eppure è difficile non pensare al nostro tempo, il tempo del virus Sars-CoV-2, come al secolo che avvera lo strano pronostico, auspicio o addirittura timore, di Foucault. Si tratta di capire, allora, in che senso il virus può essere inteso sia come l’og- getto del pensiero sia, e forse soprattutto, come modello del pen- siero a venire. In effetti in questione non è tanto che cos’è il virus, bensì il virus come un potentissimo diluente che dissolve le cate- gorie con cui finora abbiamo pensato il nostro mondo. In realtà già sapevamo che quello che il virus sta sfasciando era sul punto di venire giù; è che il virus ha reso questo processo affatto evidente.

Partiamo, come vuole la moda, proprio dall’ontologia del virus.

Che cos’è un virus? Secondo il biologo molecolare Luis Villareal, essenzialmente (ma è proprio l’idea stessa di una ricerca di una

“essenza” che il virus mette in crisi) un virus “è composto da aci- di nucleici (Dna o Rna) racchiusi in un involucro proteico”3 det-

Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all’Uni- versità della Calabria.

1. M. Serres, Lucrezio e l’origine della fisica (1977), Sellerio, Palermo 1980, p. 138.

2. M. Foucault, Theatrum philosophicum, “Critique”, 282, 1970, p. 885; poi in Dits et écrits 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 944.

3. L. Villareal, I virus sono vivi?, “Virus. I quaderni de Le Scienze”, 8, marzo 2020, pp. 3-9 e 4.

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to “capside”. Questo è sufficiente per definire il virus una cellula?

No, perché una cellula è la minima unità vivente, mentre del vi- rus non si può dire che sia vivo nello stesso senso in cui, appunto, è viva una cellula. In effetti “un virus sembra più simile a un com- plesso di molecole chimiche che a un organismo vivente”.4 Ma che cos’è, allora, un virus? Per provare a rispondere a questa domanda è meglio chiedersi che cosa fa un virus, piuttosto di che cosa sia:

“Quando entra in una cellula (che dopo l’infezione viene chiama- ta ospite) il virus è tutt’altro che inattivo. Si libera dell’involucro, libera i propri geni e induce l’apparato di replicazione della cellu- la a riprodurre il Dna o l’Rna estraneo (cioè il suo), e a fabbricare altre copie delle proteine virali sulla base delle istruzioni contenu- te nel proprio genoma. Poi le nuove particelle virali si assemblano e […] [così] si formano nuovi virus che possono, a loro volta, in- fettare altre cellule”.5

Il virus, allora, è del materiale genetico che sfrutta il macchina- rio cellulare di un’altra cellula (la cellula ospite, o secondo un’al- tra formulazione la cellula infettata) per produrre delle copie di sé stesso. In questo senso il virus non è tanto l’agente del conta- gio – come se si potesse distinguere il virus dai suoi effetti – ben- sì non è che lo stesso processo contagioso. Fra l’altro – ecco un al- tro pensiero con il virus (per quanto sia un pensiero antichissimo benché sempre di nuovo rimosso) – quello che per la cellula ospi- te è un contagio (e spesso anche la morte) coincide letteralmente con la (strana) vita del virus. Cioè il virus non esiste se non conta- gia. Il virus è un puro movimento virale. La vita del virus è il con- tagio. Detto altrimenti, il concetto di “contagio” è più un concetto politico-sanitario che biologico, dal momento che il virus “vive”

solo contagiando.

Il virus, allora, ci costringe a pensare a un mondo che non è co- stituito di cose isolate che poi fanno o subiscono delle azioni di al- tre entità. Il virus è il prototipo di un mondo in cui la distinzione fra soggetto e oggetto, fra chi fa e chi subisce, non è più applica-

4. Ivi, p. 5.

5. Ibidem.

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bile. Infatti il virus è una cosa – cioè secondo la nostra metafisica un oggetto – che tuttavia fa qualcosa a un “soggetto” (la cellula vi- vente): il virus quindi contemporaneamente è anche un soggetto.

Ma come abbiamo visto il virus, propriamente, non è qualcuno o qualcosa che compie una certa azione, dal momento che il virus coincide con il processo dell’infezione. Se non infetta il virus pro- priamente non è né nel mondo dei vivi né in quello dei morti,6 né in quello degli agenti né in quello dei pazienti. Il virus è puramen- te transitivo, ma di una pura transitività che non parte da nessun luogo né arriva in qualche luogo. Il virus, quindi, sta lì a mettere in crisi le nostre distinzioni e la nostra ontologia.7 Ecco perché il virus rende il tempo che viviamo, come annunciava mezzo seco- lo fa Foucault, un tempo deleuziano (e per la verità anche guatta- riano). Un tempo di transiti e di incontri, un tempo di cui il virus rappresenta il caso esemplare, puro tra:

Le partecipazioni, le nozze contro natura sono la vera natura che attraversa i regni. La propagazione per epidemia, per contagio, non ha nulla a che vedere con la filiazione per eredità, anche se i due temi si confondono e hanno bisogno l’uno dell’altro. Il vampiro non figlia, contagia. La differenza consiste nel fatto che il contagio, l’epidemia mettono in gioco termini completamente eterogenei: per esempio, un uomo, un animale e un batterio, un virus, una molecola, un microrganismo. O, come per il tartufo, un albero, una mosca, un maiale. Combinazioni che non sono né genetiche né strutturali, interregni, partecipazioni contro na- tura, ma la Natura procede solo così, contro sé stessa.8

Ma il virus, obietterà qualcuno, è un caso particolare, è l’ecce- zione non la regola. In realtà il virus ha un ruolo fondamentale

6. M.H.V. van Regenmortel, The Metaphor That Viruses Are Living Is Alive and Well, but It Is No More Than a Metaphor, “Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences”, 59, 2016, pp. 117-124.

7. Id., Viruses Are Real, Virus Species Are Man-made, Taxonomic Constructions, “Ar- chives of Virology”, 148, 2003, pp. 2481-2488.

8. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), a cura di P. Vignola, Orthotes, Salerno 2017, p. 343.

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Lo Zenith del Serpente Cosmico.

Ira tellurica, flagelli e piaghe del Nuovo Leviatano

CLAUDIO KULESKO

Questo serpente crebbe così tanto che ora giace in mezzo al mare, avvolge tutte le terre e morde la sua stessa coda.

Snorri Sturluson, Edda in prosa

Atto I. Risveglio

Verso la metà dell’anno 1651, al termine della guerra civile ingle- se e a ridosso dei trattati di Westfalia (1648-1641), all’alba del- la forma-Stato europea, fa la sua comparsa la prima edizione in lingua inglese del Leviatano (Leviathan, or The Matter, Form and Power of a Common-wealth Ecclesiastical and Civil), del filosofo e matematico inglese Thomas Hobbes – fuggito a Parigi nel 1640 per timore di persecuzioni da parte di rivoluzionari repubblica- ni e antimonarchici, e ora di ritorno, proprio in virtù della prote- zione e del supporto delle stesse istituzioni repubblicane. Come è ben noto, l’opera di Hobbes sancì un vero e proprio balzo teo- retico, operando, se non un passaggio di paradigma a tutti gli ef- fetti, quantomeno uno “strappo” nei confronti di gran parte delle precedenti dottrine politiche. Non si esagererà, forse, affermando che, nel faticoso tragitto che conduce dagli Elementi di legge natu- rale e politica (1640) al Leviatano, passando per il De cive (1642), si assiste al dispiegarsi della stessa modernità occidentale – un processo che giustifica ampiamente i timori del filosofo, tanto al momento della fuga parigina, in qualità di monarchico antirivolu- zionario, quanto al momento del rientro in patria, in quanto ma- terialista laico e agnostico.

L’idea fondamentale di Hobbes, attraversata da queste e mil- le altre contraddizioni, è una fiammata che incenerisce centinaia, anzi, migliaia di anni di pensiero politico – convogliando nella sua

Claudio Kulesko è uno studioso di filosofia.

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parabola distruttiva la scintilla di innumerevoli pensatori materia- listi di ogni epoca e luogo: non vi è alcun ordine naturale o, me- glio, l’ordine naturale non corrisponde ad altro che al disordine e al dissidio, motivo per cui ogni istituzione contingente richiede necessariamente di essere creata, forgiata, costruita, attraverso un atto di forza, capace di imporsi sovranamente sugli interessi par- ticolari degli esseri umani. Il Leviatano è questo “Dio Mortale”, il sostituto, per così dire, di Dio in terra: una macchina composita (il Commonwealth o, più semplicemente, lo Stato, nella traduzione italiana), infusa del e tenuta assieme dal potere sovrano di un sin- golo individuo – o, diremmo oggi, di una singola “persona”, tanto fisica quanto giuridica, tanto individuale quanto collettiva.

Non stupisce, pertanto, che la tortuosa vicenda politica e bio- grafica del filosofo sia stata segnata dai vortici della guerra civile, dal pugno di ferro dell’assolutismo, dalle decapitazioni nelle piaz- ze, dalle nubi di polvere da sparo all’orizzonte, dal New Model Army, dal carisma di Cromwell e dai suoi battaglioni di monocro- matici e disciplinati puritani, dalle rivolte dei diggers e dall’indi- gnazione dei levellers. Se vi è qualcosa che, più di ogni altra, ha contribuito alla stesura della magnum opus di Hobbes, non può non trattarsi che del caos che trascinò nelle sue spire l’Inghilter- ra del XVII secolo, divorando l’antico ordine sociale e paventando l’asce sa di un nuovo ordine.

Lasciandoci alle spalle il sipario delle introduzioni, degli inci- pit e delle contestualizzazioni, ciò che resta è il solitario cammino della rovina – l’oscuro sentiero dei cicli di ripetizione e ripresen- tazione che si inoltra tra i meandri del collasso imminente e delle micro-apocalissi che sfrangiano l’ordine del cosmo. Benché non sia immediata, l’affinità speculativa che lega il destino di Hobbes ai nostri stessi destini è ben salda, fondata com’è sull’urgenza di mettere in movimento il pensiero, l’analisi e l’immaginazione per trovare una via d’uscita da una situazione di crisi apparentemen- te senza fine e senza alcuno spiraglio per la speranza. Da un lato, la guerra civile inglese, dall’altro il riscaldamento globale, la ca- tastrofe ecologica, la propagazione senza freni dell’attuale epide- mia e di nuove, future epidemie. L’Antropocene emergente, nella

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sua imperiosa e distruttiva avanzata alla conquista della superfi- cie terrestre.

A essere mutato dal XVII secolo a oggi, tuttavia, non è tanto l’or- dine formale del problema – l’imposizione della pace attraverso l’impiego della violenza, della coercizione e del consenso, la fon- dazione e la legittimazione della sovranità, la creazione di un ap- parato di controllo securitario capillare – quanto la sua scala e le sue modalità: non l’Inghilterra, ma l’intero pianeta; non una que- stione di sovranità nazionale, ma di sovranità planetaria; non mero impiego della forza bruta, ma un dispiegamento di mezzi e forze senza alcuna restrizione (Unrestricted Warfare). Non stupirà il fat- to che questo stesso testo si presenti, per buona parte, come una rassegna, una raccolta di scoli e commenti a numerosi tentativi di recupero e rilettura – tanto critici quanto rimanipolativi – del pen- siero hobbesiano.

Con il loro libro Il nuovo Leviatano – uno dei più notevoli tentativi recenti di recuperare in chiave descrittiva il pensiero di Hobbes – Geoff Mann e Joel Wainwright hanno posto le basi per una riattualizzazione politico-filosofica delle categorie hob- besiane alla luce del riscaldamento globale. Scrivono i due auto- ri: “Riteniamo che l’urgenza di difendere i rapporti sociali capi- talistici spingerà il mondo verso […] progetti di adattamento che consentano alle élite capitaliste di stabilizzare la propria posizio- ne nelle crisi planetarie […] una sovranità planetaria, connota- ta da un’eccezione proclamata in nome della salvaguardia della vita sulla Terra”.1 E ancora, più avanti: “Come nel caso di alcune guerre civili, il cambiamento climatico comporta problemi poli- tici per i quali l’ordine corrente non ha risposta. Come Hobbes, stiamo vivendo un periodo in cui la concezione immanente ed egemonica del mondo richiede e prevede l’emergere di un nuovo tipo di sovrano, un nuovo ordine che però ancora non può esse- re realizzato”.2

1. G. Mann, J. Wainwright, Climate Leviathan. A Political Theory of our Planetary Fu- ture, Verso, London-New York 2018; trad. Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico, Treccani, Roma 2019 (versione Kindle), p. 421.

2. Ivi, p. 618.

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aut aut, 389, 2021, 73-94

Ormai soltanto un virus ci può salvare?

ANTONIO VOLPE

[…] labirinto senza filo (Arianna s’è impiccata).

Gilles Deleuze

Escatologie in stato di eccezione

Che la pandemia virale in corso abbia rivelato, piuttosto che qual- che verità, la stessa millenaria attitudine alla rivelazione non solo della filosofia, ma di un’intera tradizione profondamente radica- ta in tutte le articolazioni sociali di ciò che denominiamo uma- nità – ossia l’Occidente divenuto mondo –, non è forse un fat- to irrelato con la liquidazione di ciò che è stato chiamato critica dell’onto- teologia e della teleologia storica a essa immanente. Tale evacuazione sembra aver legittimato la resurrezione di ogni tipo di storicismi, anche e soprattutto in forma occulta, incognita, o almeno non tematizzata. Non si comprenderebbe però il caratte- re di tale processione di spiriti o cadaveri senza definirne alcune proprietà: proprio in quanto spirito, la storia in questione è asso- lutamente umana; essendo storia, essa non può mancare, per lo più, anche quando sotto spoglie contrarie, di configurarsi come un’escatologia; l’escatologia, infine è sempre un’apocalittica, per il cui il telos in cui si rivela il senso della storia, e quindi dell’uma- no, deve passare per una qualche catastrofe o rovina – secondo il modello per cui la salvezza deve dispiegare la totalità della sua antitesi per realizzarsi.

Non poteva darsi scenario migliore di un’epidemia globale – già vissuta mille volte nella tradizione apocalittica e post-apocalittica di cinema e letteratura – per offrire suolo fertile alla proliferazio- ne di questo sogno – sempre meno – proibito di un Occidente fat-

Antonio Volpe è uno studioso di filosofia.

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tosi globale. Non servirebbe neppure sfogliare i testi prodotti per l’occasione dai filosofi1 per pesare la portata di questa evidenza, rivolgendosi piuttosto alle parole d’ordine di un dibattito politico pur sparso e frammentato. Se il refrain martellante del ritorno alla normalità ha ritratto la figura di una storia intesa come continuum progressivo e cumulativo, i cui sbandamenti sono gli orridi – e le prove – da attraversare per ricavarne un surplus di sapere e civiltà, la risposta secondo cui “la normalità era il problema” non suona per caso equivoca. Benché con quello slogan si volesse intendere che la normalità è il problema sempre, lanciata dal cratere di even- to disastroso essa non smette di richiamare il complesso escatolo- gico-apocalittico per cui è dal fondo della rovina che si può rive- lare una qualche verità, o produrla, attraverso un rovesciamento, laddove la figura dell’éskhaton si confonde con quella dello stato di eccezione politico, dichiarato o non dichiarato, di diritto o di fatto, secondo la logica di una teologia politica,2 che dovrebbe fare da trampolino di un assalto al cielo.

In questo senso andrebbero presi sul serio sia il giovane Jacob Taubes di Escatologia occidentale, che scorge, prima di tanti altri, nell’apocalittica – e non nel “messianico” – un tratto comune dei monoteismi (attraverso il condensatore gnostico), pensiero filoso- fico e movimenti rivoluzionari, sia un pensatore tragico per eccel- lenza come Sergio Givone in cui catastrophé tragica e apocalissi

1. Soltanto un esempio: Žižek inizia il suo Virus: Catastrofe e solidarietà (raccolta di ar- ticoli prodotti durante il primo picco pandemico e subito pubblicata in versione digitale) dubitando che l’epidemia sia di qualche interesse per il pensiero, per poi lanciarsi, di ca- pitolo in capitolo, in una sorta di test della tenuta dell’umanità, in un registro del meglio e del peggio, degli avanzamenti e delle sconfitte dell’umano a contatto con la condizione- limite dell’infezione globale.

2. Dacché lo stato di eccezione tende a diventare persistente e ubiquo. Già prima di questo noto motivo agambeniano, non bisogna dimenticare che in Schmitt lo stato di ec- cezione appare come un enigma tolto (senza essere risolto) solo dalla decisione sovra- na: “Non si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’e- mergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati”, C. Schmitt, “Teologia politica” (1922), in Le categorie del “politico”, trad. di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 2013, p. 34. “[Il sovrano] decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo d’emergenza, quanto sul fatto di ciò che si debba fare per superarlo”, ibidem.

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cristiana scorrerebbero lungo lo stesso asse, a un tempo escatologi- co e mitopoietico.3 Da “la saggezza attraverso il dolore”4 di Eschi- lo fino al “non siamo mai stati così liberi come sotto l’occupazio- ne tedesca”5 di Sartre, passando per l’hölderliniano “dove però è il pericolo / cresce anche ciò che salva”,6 che negli anni trenta e quaranta diventa la parola d’ordine dell’escatologia dell’essere di Heidegger, l’Occidente intero pare attratto dal risucchio della ro- vina come la falena dalla luce di una rivelazione che per dispie- garsi debba incenerirla. Nella prefazione alla Fenomenologia dello

3. Proprio qualche anno fa Givone ha scritto un libro intitolato Metafisica della peste, in cui la malattia, letta attraverso celebri opere letterarie, viene intesa come lo scatenamen- to della libertà (umana e divina), e al tempo stesso come la possibilità del male che essa pone. L’eredità schellingiana è qui evidente, sia per quanto riguarda la tematica ontologica che per quella “mitologica” e mitopoietica.

4. Eschilo, Agamennone, vv. 176-177.

5. J.-P. Sartre, “La repubblica del silenzio” (1944), in Parigi occupata, trad. di D. Napo- li, il Melangolo, Genova 2020, p. 23 (pubblicato per la prima volta sul primo numero non clandestino di “Lettres Français”). Il seguito precisa in modo esemplare la dialettica, nei suoi termini sartriani, fra catastrofe e rivelazione: “Le circostanze spesso atroci della no- stra lotta ci rendevano finalmente in grado di vivere, senza trucchi e senza veli, questa si- tuazione straziante, insostenibile che chiamiamo la condizione umana. L’esilio, la prigionia, ma soprattutto la morte, che in epoche più fortunate riusciamo abilmente a dissimulare, erano diventati gli oggetti perpetui delle nostre preoccupazioni perché avevamo imparato che non si trattava di accidenti evitabili o di minacce costanti ma esterne: ci giocavamo la nostra partita, erano il nostro destino, la fonte profonda della nostra realtà di esseri uma- ni. Ogni istante vivevamo in tutta la sua pienezza il senso di questa semplice frase banale:

‘Tutti gli uomini sono mortali’. La scelta che ciascuno faceva per sé era autentica perché si compiva di fronte alla morte e avrebbe potuto sempre esprimersi nella forma: ‘Piutto- sto la morte che’ […]. Proprio la crudeltà del nemico ci spingeva all’estremo della nostra condizione di uomini, costringendoci a porci quelle domande che generalmente eludiamo in tempo di pace: tutti quelli che erano a conoscenza di qualche dettaglio sulla Resistenza – e a quale francese non è capitato almeno una volta – si domandavano con angoscia: ‘Se sarò torturato, resisterò?’. Sta in questi termini la questione della libertà, è il momento in cui siamo portati ai limiti della conoscenza più profonda che possiamo avere di noi stessi.

Il segreto di un uomo, infatti, non è il suo complesso di Edipo o di inferiorità, ma il confi- ne stesso della sua libertà, il suo potere di resistenza ai supplizi e alla morte […]. Erano soli e nudi davanti ai loro boia […]. E tuttavia […], nel più profondo della solitudine, difen- devano gli altri, tutti gli altri, tutti i compagni di resistenza. Una sola parola era sufficien- te per provocare dieci, cento arresti. E questa responsabilità totale nella solitudine totale che cos’è se non il disvelamento della nostra libertà? […] Così, nell’ombra e nel sangue, si è costituita la più forte delle Repubbliche. Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tut- ti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più tota- le il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti”, ivi, pp. 23-25.

6. F. Hölderlin, Patmo. Le liriche (1909), trad. di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 667 (trad. modificata).

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Note sull’età dell’incertezza

ALESSANDRO DAL LAGO

Una bettola a New York Siedo in una bettola

Della 52sima strada Incerto e timoroso

Mentre svaniscono le astute speranze Di un decennio meschino e disonesto:

Ondate di rabbia e paura

Si diffondono sulle terre luminose E oscurate della terra,

Ossessionando le nostre vite private;

L’indicibile odore della morte Offende la notte di settembre.1

Così scriveva W.H. Auden allo scoppio della Seconda guerra mon- diale. Ma l’umore non è migliore alla fine del conflitto. Una sera, quattro personaggi si ritrovano in un bar di Manhattan: Quant, un pensionato frequentatore di biblioteche, Malin, ufficiale dell’avia- zione canadese, Emble, una giovane recluta di marina originaria del Midwest, e Rosetta, profuga ebrea che si è rifatta una vita a New York lavorando in una ditta di import-export. I quattro riflet-

1. “I sit in one of the dives / On Fifty-second Street / Uncertain and afraid / As the clever hopes expire / Of a low dishonest decade: / Waves of anger and fear / Circulate over the bright / And darkened lands of the earth, / Obsessing our private lives; / The un- mentionable odour of death / Offends the September night” (W.H. Auden, “September 1, 1939”, in Selected Poems. Expanded Edition, a cura di W. Mendelson, Vintage Books, New York 2007, p. 95).

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tono tra sé e sé, ascoltano distrattamente i comunicati radiofonici sulla guerra, entrano in contatto gli uni con gli altri, discutono del- le sette età dell’uomo (l’ovvio riferimento è allo sconsolato mono- logo di Jacques da Come vi piace di Shakespeare),2 ripercorrono la storia dell’umanità e le proprie vite, cercano di decifrare il futuro e in ultimo si trasferiscono a casa di Rosetta per finire la serata con qualche bicchierino. Tra la donna e il marinaio nasce una forte at- trazione. Dopo bevute ed equivoci, Quant e Malin si congedano.

Rosetta li accompagna in strada e corre felice al suo appartamento.

Il marinaio è svenuto sul letto, ubriaco. La donna, profondamente umiliata, riflette sul destino del suo popolo e recita lo Shemà Israel:

“Ascolta Israele, il signore nostro Dio, il Signore è Uno”.

Parlo di L’età dell’ansia, un’“egloga barocca” in tetrametri allit- terativi, al modo dell’antica epica anglosassone, in cui W.H. Auden condensa i motivi salienti della sua poesia, sospesa tra disperazio- ne e speranza, storia e teologia, visioni dell’apocalisse ed esposi- zione problematica al futuro. Un testo complesso e talvolta oscu- ro, forse non del tutto riuscito per eccesso di didascalismo, ma il cui titolo fa da epigrafe proverbiale al secondo dopoguerra. Pub- blicato nel 1947, è la summa di trent’anni di guerre, genocidi, fal- limenti e illusioni. I quattro personaggi sono, ovviamente, imma- gini che il poeta ha di sé stesso: il sapere vano (Quant), il pensiero razionale (Malin, il “maligno”), il sentimento (Rosetta), l’abban- dono ai sensi (Emble). È a Rosetta che Auden affida la profezia di un futuro post-bellico:

Età inodori, un mondo ordinato

Di piaceri pianificati e controlli di passaporti, Sorveglianza, tranquillanti, analcolici,

Spese previste, un pianeta morale Addomesticato dal terrore. […]

Molti sono periti, e più periranno.3

2. W. Shakespeare, As you like, atto II, scena III.

3. W.H. Auden, The Age of Anxiety, Faber & Faber, London 1947; trad. di L. Dessì e A. Rinaldi, L’età dell’ansia, Mondadori, Milano 1966, p. 53.

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Rosetta ha in mente lo stalinismo, ma è singolare quanto la sua vi- sione di un mondo sprofondato nel conformismo e “addomesti- cato dal terrore” corrisponda alla diagnosi della Dialettica del l’Il- luminismo di Adorno e Horkheimer, pubblicata lo stesso anno di L’età dell’ansia, o a La folla solitaria di David Riesman, che sa- rebbe apparsa nel 1950, ma descriveva senza alcun ottimismo la società americana del dopoguerra.4 Non c’era molto da celebra- re nel 1947, se non l’eliminazione, costata decine di milioni di morti, del più orribile e mortifero regime della storia. Alla spe- ranza della ricostruzione per i sopravvissuti corrispondeva, tra intellettuali, poeti e filosofi, un senso di disperazione di cui noi oggi – almeno sino allo scoppio della pandemia da Covid-19 – ci rendiamo difficilmente conto, ma che Iosif Brodskij ha colto per- fettamente in Auden, con cui sentiva una profonda affinità.5 La disperazione di Auden era quella di un’umanità in balìa di for- ze troppo potenti per essere comprese. La scelta di ambientare L’età dell’ansia in un bar e poi nell’appartamento di una donna di trentacinque anni, che cerca invano di sfuggire alla solitudine truccandosi e vestendosi con cura, rimanda ai dipinti di Edward Hopper (Nighthawks o i ritratti di giovani donne su letti sfatti che fissano il vuoto al di là delle finestre). I bar sono l’ultimo ri- fugio o il vestibolo dell’inferno per donne e uomini senza quali- tà, oggi travolti dalla guerra e domani dall’incertezza del futuro.

E. Hopper, Nighthawks, 1942, The Art Institute of Chicago (particolare).

4. D. Riesman et al., La folla solitaria (1950), il Mulino, Bologna 2009.

5. I. Brodskij, “Per compiacere un’ombra” (1986), in Fuga da Bisanzio, Adelphi, Mi- lano 1987.

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aut aut, 389, 2021, 111-126

Vite invisibili ai tempi della pandemia

DIDIER FASSIN

C’

è una forma particolare di disugua- glianza delle vite che risiede nella loro invisibilità o, più esattamente, nell’in- visibilità della disuguaglianza di cui sono espressione. Questa di- suguaglianza ha molto a che fare con l’indifferenza che la società manifesta nei loro confronti. Non soltanto le disparità esistono, ma sono ignorate o negate. Le donne e gli uomini che ne sono vitti- me sono quindi doppiamente colpiti, sia perché soffrono per que- sta situazione, sia perché la loro sofferenza non è riconosciuta. La pandemia dovuta all’infezione da coronavirus ha sollevato un velo su questa invisibilità, rivelando non solo quali vite ma anche qua- li forme di vita tendono a sparire dal nostro campo visivo. È quin- di a questo doppio livello che vorrei riflettere, da una parte, in- torno alle vite coinvolte o minacciate, in particolare quelle dei pri- gionieri, degli esiliati, delle vittime della crisi nel lungo periodo, e dall’altra, intorno alle forme di vita che non si riducono al solo fatto di essere viventi. Ma, a questo scopo, è necessario che parta da ciò che, più in generale, ha significato la risposta della società all’insorgere della crisi sanitaria.

Quando diciamo che la pandemia ha causato una crisi senza pre- cedenti, non intendiamo affermare che essa sia la peggiore malat-

Didier Fassin, sociologo, antropologo e medico, insegna presso l’Institute for Advanced Study di Princeton e al Collège de France di Parigi.

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tia dell’era moderna, perché il morbillo è molto più contagioso, l’Aids più grave, e anche certi episodi di influenza hanno cono- sciuto una diffusione planetaria. Ciò che intendiamo sostenere è che la reazione alla pandemia, cioè il lockdown adottato in diver- si continenti con il divieto di uscire di casa, l’interruzione delle attività, la chiusura dei confini, non ha precedenti su una scala così grande. Naturalmente, dovremmo tener conto delle diverse modalità: autoritarie in Cina, limitate in Corea del Sud, drastiche in Australia, contraddittorie in Inghilterra, contenute in Germa- nia, quasi assenti in Svezia, rimandate e rigorose in Italia, inco- erenti ed eterogenee negli Stati Uniti, paternalistiche e repressi- ve in Francia. Al di là di queste differenze di stile, però, in gran parte del mondo i governi hanno deciso di sospendere, almeno in qualche misura, molte delle attività commerciali e di insegna- mento e le manifestazioni pubbliche: le misure più rigide sono state spesso adottate in paesi largamente impreparati e incapaci di reagire. Per esempio, in Francia, che all’inizio dell’epidemia non era dotata né di mascherine, né di test, dove i lavoratori di prima e seconda linea non avevano protezioni, dove i casi di in- fezione non erano rigorosamente isolati e dove non ci si curava delle persone con cui erano entrati in contatto, un lockdown ge- neralizzato è stato rigidamente applicato con sanzioni severe in caso di inosservanza e persino con l’incarcerazione in caso di re- cidiva. La polizia sanitaria ha sostituito l’assenza di una strategia di sanità pubblica.

Le principali conseguenze del lockdown sono state due. In pri- mo luogo, una parziale sospensione delle libertà pubbliche e dei diritti fondamentali: libertà di movimento, di riunione, di prote- sta e talvolta di espressione, diritto all’istruzione, al lavoro, alla vita privata, alla protezione dei profughi, all’intimità con i pro- pri cari alla fine della vita e alla dignità nell’onorare i defunti. In secondo luogo, una temporanea interruzione delle attività eco- nomiche, con prevedibili effetti deleteri: recessione, aumento del debito pubblico, fallimento di molte aziende, aumento della di- soccupazione e sottoccupazione, interruzione delle assicurazioni sanitarie e della protezione sociale, impoverimento di gran parte

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delle categorie già vulnerabili e con problemi di sostentamento.

Insomma, sacrifici notevoli per una nazione. Questi sacrifici han- no solo una raison d’être: la riduzione della mortalità da corona- virus. In altre parole, questo era considerato il prezzo da pagare per salvare delle vite, soprattutto le vite della popolazione anzia- na, poiché quattro quinti dei decessi sono avvenuti dopo i 65 anni e tre quinti dopo i 75 anni (per valutare questi dati bisogna nota- re che, a queste età, Covid-19 rappresenta meno del 10 per cento delle cause di morte).

Nei fatti, le cose sono più complesse, e sarebbe sbagliato pensa- re che i governi abbiano pianificato queste misure soprattutto per proteggere la vita degli anziani, quando molti di loro, tra cui quel- li di Stati Uniti e Francia, hanno fatto ben poco per risparmiare le vite di chi era ospitato in residenze assistenziali. La concentrazio- ne delle persone in queste istituzioni ha avuto spesso conseguen- ze tragiche, perché l’assistenza medica era scarsa e veniva negato il trasferimento dei malati negli ospedali, dato che i reparti di terapia intensiva sarebbero stati rapidamente saturati da pazienti con scar- se possibilità di sopravvivenza. Il risultato di questa linea di con- dotta è che gli anziani hanno ricevuto cure minime nei luoghi in cui erano ricoverati. C’è stato un grande dibattito sulla scelta dei pazienti da curare a detrimento degli anziani, in Italia e altrove. La selezione dei pazienti da trattare e quelli da escludere avveniva più frequentemente prima dell’ospedalizzazione e non negli ospedali.

Questa scelta tragica, per usare l’espressione di Guido Calabresi e Philip Bobbit, aveva luogo nelle residenze per anziani, e ciò la ren- deva meno visibile. Il culmine dell’abbandono consisteva nel non contare più i morti: per diverse settimane le statistiche dei deces- si diffuse dai media non ne hanno tenuto conto. Quando le morti delle persone non sono contate è segno che le loro vite non contano molto. Negli Stati Uniti, quando alla fine sono state rese disponibi- li le statistiche, è risultato che il 40 per cento delle morti per coro- navirus erano avvenute nelle residenze per anziani, dove il tasso di mortalità era del 16 per cento, rispetto al 3 per cento della popola- zione complessiva. In Francia il numero delle persone morte nelle residenze assistite era ancora sconosciuto a fine settembre.

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aut aut, 389, 2021, 127-139

Homo pandemicus: governare la precarietà?

MARIELLA PANDOLFI

Può finire il mondo?

Si è abolito l’amore in nome della salute poi si abolirà la salute.

Si è abolita la libertà in nome della medicina poi si abolirà la medicina.

Si è abolito Dio in nome della ragione poi si abolirà la ragione.

Si è abolito l’uomo in nome della vita poi si abolirà la vita.

Si è abolita la verità in nome dell’informazione ma non si abolirà l’informazione.

Si è abolita la costituzione in nome dell’emergenza ma non si abolirà l’emergenza.

Mariella Pandolfi è professore emerito di Antropologia all’Università di Montréal.

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