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Psicologia del pastiche

Nel documento 389/2021 Riflessioni sulla pandemia (pagine 40-43)

La lettura che trabocca in scrittura. Appunti sull’arte del pastiche

1. Psicologia del pastiche

L’arte del pastiche viene spesso considerata come una pratica più o meno segretamente angosciosa. La possibilità stessa di imita-re uno stile, di riprodurimita-re il imita-respiro di una determinata scrittura, sembrerebbe portare con sé una duplice inquietudine, capace di colpire, in un solo gesto, tanto chi imita quanto chi viene imitato. Se una capacità imprescindibile del pasticheur è quella di ripor-tare in superficie i tic stilistici che caratterizzano e puntellano la scrittura dell’autore che si intende imitare, non è difficile com-prendere il fastidio da cui quest’ultimo potrebbe essere colto nel vedere ciò che nel proprio modo di scrivere vi era di più intimo e sostanziale astratto dalla propria opera e dal proprio nome, ripro-posto agli occhi dei lettori nella forma di un duplicato ramingo, che di colpo riveli tutto l’automatismo da cui la presunta sponta-neità della propria scrittura era costantemente attraversata.

Inoltre, poiché ogni forma di automatismo, come scriveva Berg-son, è comica proprio in quanto contraddice il fluire della vita, la sola esistenza del pastiche starebbe lì a denunciare il lato risibile e mortifero dello stile che vi si imita, o quanto meno, la sua inca-pacità di sottomettersi all’infinito variare delle cose e la sua con-seguente necessità di arroccarsi nel chiuso di una forma tanto ri-corrente da confondersi con una formula fissa e stabilita. Anche qualora un’imitazione non derivasse direttamente da un intento parodico o satirico, essa implicherebbe comunque, per sua

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ra, un certo grado di insolenza che predispone al riso, una comi-cità, magari latente, ma potenzialmente beffarda e derisoria: imi-tare significa pur sempre generalizzare,1 far affiorare un tratto ge-nerico, esibire il carattere non unico ma ripetibile di un atteggia-mento o di uno stile.

D’altra parte, questo fastidio, questa specie di ferita narcisistica che sorprende lo scrittore o la scrittrice divenuta oggetto d’imita-zione, non sarebbe che il risvolto speculare dell’angoscia da cui, a sua volta, la scrittrice o lo scrittore che imita è spinto a imitare. Sin-tomo ed effetto di questa angoscia, il pastiche sarebbe innanzitut-to un modo di fare i conti con gli auinnanzitut-tori da cui più si è stati ispira-ti, una maniera di prenderne le distanze dall’interno, ovvero una volontà, se non un’esigenza, di dimostrare a sé stessi e agli altri che lo stile imitato non è che una possibilità tra le tante a disposizio-ne della propria scrittura. Rendendo manifesto e intenzionale l’at-to di imitare, il pastiche sarebbe anzi il processo in virtù del quale chi imita oggettiva e riconosce ciò che imita come altro da sé; nelle tappe che segnano l’apprentissage di uno scrittore, esso costituireb-be, insieme, una fase preliminare in cui ci si libera dei propri mo-delli letterari e un esercizio propedeutico alla creazione di uno stile personale. In fondo, ciò che lo stesso Proust, il pasticheur più ma-niacale del secolo scorso, definiva come la “virtù purgativa, esorciz-zante, del pastiche” non era che questo: una “questione di igiene” finalizzata a “purificarsi dal vizio naturale dell’idolatria e dell’imi-tazione”,2 come a dire che, paradossalmente, si imita soltanto per non avere più modelli da imitare e non permettere che gli autori su cui si è formata la nostra sensibilità rimangano sedimentati a par-lare nella corda più inconscia e remota della nostra voce (“fare un

pastiche volontario per poter dopo di ciò ridiventare noi stessi e non

continuare a fare pastiche involontario per tutta la vita”3).

1. A questo proposito, cfr. G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Seuil, Paris 1982, pp. 80-88. Pur non citandolo direttamente, è evidente che Genette stia riprendendo, in queste pagine, lo stesso concetto di imitazione presente in H. Bergson, Le

rire. Essai sur la signification du comique, Paris 1900.

2. M. Proust, “Lettre à R. Fernandez”, 1919.

3. Id., “A proposito dello ‘stile’ di Flaubert” (1920), trad. di P. Serini, in Saggi, il Sag-giatore, Milano 2015, p. 322 (trad. modificata).

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È mettendo l’accento su affermazioni di questo tipo che mol-ti studiosi del pasmol-tiche, e in parmol-ticolare dei pasmol-tiches prousmol-tiani, hanno interpretato l’impulso imitativo che lo alimenta alla luce di quella peculiare forma di angoscia che, da Bloom in poi, ci siamo abituati a pronunciare come un correlativo più o meno inevitabi-le dell’influenza. “Attraverso i pastiches”, scrive per esempio Jean Milly in un suo studio imprescindibile su Proust, “egli vuole li-berarsi dalle influenze troppo forti, per acquisire la propria indi-pendenza, una piena capacità di creatore originale.”4 E accanto a questa osservazione di Jean Milly si potrebbero menzionare mol-te altre letture critiche che – parlando dei pastiches proustiani nei termini di un’ascesi o di una catarsi, di una fase essenzialmente ne-gativa, di un’anticamera della letteratura in cui si fa mostra della capacità di tenere sotto controllo il proprio canone di riferimen-to, o addirittura di una violenza mediante cui ci si appropria del-la voce che si vorrebbe omaggiare5 – hanno contribuito in vario modo a individuare nell’angoscia e nella rivendicazione implicita di un’originalità a venire l’affetto primario che muove la pratica del pastiche e il senso ultimo della sua funzione.

Non è mia intenzione negare in assoluto che il pastiche possa essere anche questo esercizio preliminare venato di orgoglio e di angoscia; nelle pagine che seguono, vorrei piuttosto portare alcu-ni spunti disseminati in diverse riflessioalcu-ni teoriche sulla scrittura imitativa alle proprie estreme conseguenze e tentare di far emer-gere, nel modo più chiaro possibile, il controcanto pienamente po-sitivo e gioioso del pastiche che il paradigma dell’angoscia dell’in-fluenza rischia di eclissare. Più precisamente, si tratterà di mo-strare come questo modo essenzialmente freudiano di intendere il pastiche, così ridotto a una sorta di complesso edipico che oscil-la tra il parricidio e l’omaggio reverenziale, continui a pensare in

4. J. Milly, “Introduction”, in M. Proust, Les pastiches, a cura di J. Milly, Armand Colin, Paris 1970, p. 37.

5. A questo proposito, cfr. J.F. Austin, Proust, Pastiche, and the Postmodern. Or Why

Style Matters, Bucknell University Press, Lewisburg (Penn.) 2013, a cui questo articolo deve

molto. Cfr. in particolare il capitolo intitolato “Why Proust wrote pastiche (critical views of the last four decades)”, p. 50 sgg., dove Austin riprende e discute le interpretazioni del

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Cambiare l’anima. L’ortopedia morale

del neoliberalismo

EDOARDO GREBLO

Economics are the method. The object is to change the soul.

Margaret Thatcher, intervista al “Sunday Times”, 7 maggio 1988

Nel documento 389/2021 Riflessioni sulla pandemia (pagine 40-43)

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