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Note sugli altri opuscoli di Francesco Micheli del Padovano

TRATTATI BRE

6. Note sugli altri opuscoli di Francesco Micheli del Padovano

6.1. Tractatus de s. Francisco ad plebem Veronensem

Con questo titolo convenzionale si indica il contenuto del codice A = Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana, Plut. 26.19. Il codice è interamente autografo del Micheli; possiamo considerarlo come il suo strumento di lavoro, che vergò nel corso di lunghi anni, dalla giovinezza agli anni della vecchiaia.

Il titolo complessivo di Tractatus de s. Francisco ad plebem Veronensem con cui sono conosciuti gli scritti del codice laurenziano può trarre facilmente in inganno, perché fa pensare ad un’opera organica. Al contrario si tratta di un insieme molto eterogeneo di scritti vari, materiale utile per la predicazione (sermoni, opuscoli), talvolta abbozzi a cui è mancata una rielaborazione definitiva (per un esame dettagliato del contenuto rimando alla descrizione del codice che è già stata esposta). Non è affatto raro trovare in questo manoscritto interi brani che il Micheli poi inserì nelle sue opere. L’indicazione «ad plebem Veronensem», presente nel titolo convenzionale, può riferirsi solo ai primi due sermoni che si trovano all’inizio del manoscritto, entrambi dedicati alla figura di s. Francesco; qui si lodano l’Ordine serafico e il suo fondatore e vengono difesi il carattere soprannaturale delle stigmate del santo e l’indulgenza della Porziuncola; la fonte principale di cui si è servito il Micheli è il De conformitate vitae beati

Francisci ad vitam Domini Iesu di Bartolomeo Rinonichi da Pisa; nel secondo sermone si

trovano anche tracce della lettura del Codex s. Antonii de Urbe. A questi primi due sermoni ne seguono altri otto, ancora su s. Francesco: sono piuttosto brevi, spesso quasi delle sintesi dei due precedenti.

Il Micheli probabilmente utilizzò alcuni scritti del codice laurenziano per predicare davvero nella città di Verona, e forse anche altrove, in quanto Pratesi osserva che «il riferimento a s. Bartolo nel sesto sermone (f. 107v) dal contesto farebbe apparire che questo fu pronunziato a S. Gimignano, patria di questo santo, dove sono conservate le sue reliquie» (PRATESI, Francesco Micheli, cit., p. 351)

Per parlare di s. Franesco, Micheli utilizza anche altri testi che non nomina mai, come la

Expositio regulae di Angelo Clareno, lo Speculum perfectionis, la Intentio regulae; inoltre

ricorda la «Legenda huius almi confessori Christi Francisci», da identificare con la Legenda

minor di s. Bonaventura, e la Legenda Vetus.

In tutto il codice sono molto citati gli autori che appartennero all’Ordine francescano, come s. Bonaventura da Bagnoregio, Alessandro di Hales, Giovanni Duns Scoto, Francesco Maironi, Niccolò di Lira, Giovanni Pecham, Pietro Quesnel, Riccardo da Mediavilla, Guglielmo Ocham; sono citati inoltre s. Massimo ed Enrico di Gand; tra i giuristi, Micheli ricorre all’auctoritas di Pietro Quesnel, s. Raimondo, papa Innocenzo IV, l’Ostiense e

Guglielmo Durand. Cita anche Dante e Petrarca, «ciò che depone a favore della sua cultura letteraria» (Pratesi, 1954, p. 350).

Micheli rivela anche una buona conoscenza del diritto canonico, secondo quanto testimoniato pure da alcuni dei suoi biografi: al primo sermone su s. Francesco segue una lunga appendice sugli indulti in generale (ff. 21r-47v) e su quelli riguardanti i Frati Minori (ff. 47v-49v); alla fine del secondo sermone si può leggere un’appendice giuridica sulle scomuniche (ff. 70v-73r); alla fine dell’ultimo sermone, dedicato alla povertà di s. Francesco (ff. 136r-147v), vi è un’appendice giuridica sulla dispensa dei voti.

Il codice laurenziano si chiude con una lauda di Feo Belcari, «S’i’ pensassi a’ piaceri del paradiso» (ff. 176v-177r), pubblicata in SETTEMBRINI, Lezioni, cit. sotto, I, pp. 307-308 sulla

base di un incunabolo dell’Università di Napoli (“Federico II”) segnalato da Tommaso Gar; rispetto alla lauda trascritta dal Micheli, quella pubblicata da Settembrini ha una strofa in più (E poi contempla quell’immenso foco …) e presenta come quarta e quinta strofa quelle che in A sono rispettivamente quarta (Che ti varrà richeza, honor o stato …) e terza (Non vedi tu

che’l mondo è pien d’inganni? …). Non è difficile pensare che Micheli conoscesse

direttamente Feo Belcari (1410-1484): vissero a Firenze negli stessi decenni ed entrambi furono molto legati alla famiglia de’ Medici. Inoltre potrebbe non essere un caso che nel codice di Micheli la lauda di Feo sia immediatamente preceduta da una versione in volgare dei Detti di frate Egidio (ff. 174r-176r; si tratta di una scelta dei capitoli 2, 4, 6, 3, 5, 7), perché questi furono una delle fonti per una Vita del beato frate, uno dei primi compagni di s. Francesco d’Assisi, scritta in lingua volgare proprio dal Belcari; inoltre è nota l’attività di traduttore dal latino e volgarizzatore dello stesso Feo (per il Belcari e i suoi scritti rimando a M.MARTI,Belcari, Feo, in Dizionario biografico degli Italiani, 7 (1965), pp. 548-551); la questione della paternità della versione volgare dei Detti (che in PRATESI, Francesco Micheli, cit. sotto, p. 345 venivano attribuiti per pura ipotesi alla penna del Micheli) e quella delle relazioni tra Belcari, Micheli e il manoscritto laurenziano, meritano dunque di essere approfonditi e indagati meglio in futuro.

6.2. Advisamenta pro reformatione facienda Ordinis Minorum.

Unico testimone dell’opuscolo: A = Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana, ms. Plut. 26.19, ff. 154r-169v (il codice è interamente autografo del Micheli). Il testo è edito in PRATESI, Francesco Micheli (continuazione), cit., pp. 109-130.

L’opera contiene il modello di riforma dell’Ordine francescano che Micheli presentò alla Congregazione generale tenuta ad Assisi il 1o novembre 1455. Una riforma sembrava da tempo indispensabile perché l’Ordine serafico si era distaccato sempre di più dall’originario ideale francescano di povertà e semplicità, fino al rilassamento della disciplina, la ricerca ambiziosa di uffici e onori, le discordie tra i religiosi e le violazioni alla regola minoritica.

Inoltre Micheli esamina dodici impedimenti che secondo gli Osservanti sarebbero di ostacolo alla loro unione con i Conventuali; quindi propone le sue idee per la riforma, esponendole in quattro punti principali, riguardanti i tre voti religiosi e le condizioni da far rispettare agli Osservanti riguardo alla visita canonica, l’apertura di nuove case e i limiti delle questue.

Nel 1954 Riccardo Pratesi affermava: «Lo scritto del Micheli è molto importante perché da questo apprendiamo cose finora sconosciute o poco note […]. Di qui apprendiamo che la separazione degli Osservanti dai Conventuali avanti il 1430 non era così profonda come oggi si crede, tanto che essi intervenivano ai Capitoli provinciali o almeno vi erano invitati. Sappiamo che si assegnavano agli Osservanti solo i vicari e i guardiani che essi desideravano, i quali venivano poi pubblicati nella tavola capitolare insieme agli altri ufficiali» (PRATESI, Francesco Micheli, cit., p. 355 ). Inoltre risulta che i fratelli laici erano numerosi tra gli

Osservanti, ma molto pochi tra i Conventuali, i quali versavano in condizioni economiche precarie, tanto che il Micheli afferma che tra essi vi era penuria di cibo, vestiti e mezzi: « Vix enim inter Conventuales unusquisque providere sibi sufficit de vestitu et companatico; immo, ut ipse nunc experior, neque necessarium panem habent fratres …» (f. 157v).

Trasgressioni dei frati e dei loro superiori, fino alla corruzione, alla simonia e alla frequentazione dei monasteri delle monache. Per i colpevoli di tali abusi propone pene come la scomunica, le punizioni corporali e la detenzione.

Se non verrà realizzata alcuna riforma, i Frati minori suoi contemporanei rischiano la perdizione eterna. Ma il Micheli è sicuro proprio di questo, cioè che non vi sarà alcuna riforma, sia perché i superiori sono corrotti, sia perché una simile decadenza era stata già profetizzata da s. Francesco e da altri santi che ne imitarono l’esempio, come Ubertino da Casale. È una visione pessimista, che porta il Micheli a ricordare anche le profezie bibliche di Daniele e di s. Giovanni, nonché le predizioni di Gioacchino da Fiore, dello pseudo s. Metodio e di Merlino.

6.3. Breviloquium de epidemia

Il testo si conserva nei seguenti tre testimoni manoscritti: L = Firenze, Bibl. Nazionale, ms. Landau-Finaly 152, ff. 1r-16v; R1 = Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 723, ff. 47r-68v; Mo = Modena, Bibl. Estense, ms. γ.Z.6.25,

ff. 1r-20r. Inoltre si conosce l’esistenza di un quarto testimone (= D), un tempo conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, ma andato disperso intorno al 1700 (si tratta del codice Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Plut. 73.30. Del volume è rimasta solo la legatura, rivestita di pelle e provvista di catene metalliche). L’opuscolo fu composto nel settembre del 1456 e venne dedicato a Piero de’ Medici detto il Gottoso.

Per il momento non è stata affrontata l’edizione critica del breve trattato, perché di argomento strettamente medico. In esso l’autore espone le cause della peste e i rimedi da adottare contro il morbo.

Sappiamo che l’opuscolo era presente nella biblioteca medicea in ben due copie, come risulta dal catalogo della raccolta: «Francisci cognomento Paduani, theologi praestantissimi,

De Epidemia, litteris antiquis» (ASF Medic. av. Princ., LXXXIV, 426 (olim 291), f. 66v) e

«Breviloquium de epidemia, in membrana» (ASF Medic. av. Princ., LXXXIV, 426 (olim 291), capsa 14, f. 436v, già 11v). Piero de’ Medici scrisse una lettera di ringraziamento al Micheli per la dedica del Breviloquium (il testo della lettera è stato tramandato dai seguenti codici: Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 723, ff. 68v-69r e Modena, Bibl. Estense, γ Z.6.25, ff. 20v-21v).

Nella prefazione del trattato, Micheli ricorda di essersi recato presso la villa medicea di Careggi per far visita a Piero, destinatario dell’opera, ma di non averlo potuto vedere. Dato che in quel periodo era diffuso il timore di una prossima epidemia di peste, il francescano ebbe l’idea di dedicare all’amico un’opera su questo argomento; dalla già menzionata lettera di Piero de’ Medici, datata Ex Caffagiuolo, Kalendis augusti MCCCCLVII, si comprende come sia nato il trattato del Micheli: questi si era recato presso la villa medicea di Careggi per far visita a Piero e discutere con lui della peste che si stava di nuovo diffondendo e dei rimedi da adottare contro l’epidemia, ma non poté vedere l’amico, perché la scortesia di alcune persone non gli aveva consentito il libero accesso. Nella lettera Piero si duole dell’accaduto, di cui era venuto a sapere solo in un secondo tempo, ma vede in quello spiacevole episodio un segno della Provvidenza, che così aveva creato le condizioni per la composizione del

Breviloquium, in quanto Micheli, non avendo incontrato il Medici a Careggi, pensò di fargli

avere per iscritto quanto non aveva potuto comunicargli di persona. Così infatti scrisse Piero al Micheli: «[...] cum priori anno Caregium te conferres, factum est ut, me inscio, quorumdam inhumanitate ab aditu prohiberis [...]. Putabam enim id humano errore perpetratum. At nunc, viso quid operis ex ea inhumanitate sit ortum, non humano eam errori, sed divino id consilio tribuendum censeo [...]. Inde enim ei operi occasio prebita est, ut plurimum lucubrationibus tuis laborique mortales debeant [...]. Nam quid hisce temporibus a te in genus humanum tribui oportunius potuit quam ut sue saluti in hac pestis sevitia consuleres? Est sane opus tum tempori commodatissimum, tum varia ac peracuta multarum rerum doctrina refertissimum.

[...] pre ceteris saluti mee consuluisti [...]». Piero afferma inoltre di aver apprezzato anche il

modo in cui era stata scritta l’opera, «tum verborum contextu, tum dicendi chopia atque ornatu longe elegantissimum». La lettera si può leggere in R. PRATESI, Francesco Micheli del Padovano, di Firenze. Teologo e umanista francescano del secolo XV, in Archivum Franciscanum Historicum, XLVII (1954), pp. 360-361, secondo il codice Riccardiano 723 (ff.

68r-69r), era stata già pubblicata da Giovanni Lami nel suo Catalogus codicum

manuscriptorum qui in bibliotheca Riccardiana Florentiae adservantur, Liburni 1756, p. 282

(PRATESI, Francesco Micheli, cit., p. 360 n. 2 osserva che il Lami «in più punti si permise di

cambiare lievemente il testo»).

Nell’opuscolo, Micheli ricorda che nel 1456, anno in cui stava scrivendo il Breviloquium, si sono verificate le condizioni meteorologiche e climatiche favorevoli all’epidemia, con parametri al di fuori della norma: la primavera era stata umida e all’arrivo del calore estivo si

erano manifestati casi di febbre. L’autore precisa che anche nel corso dell’anno immediatamente precedente avevano avuto luogo fenomeni al di fuori delle medie stagionali: la primavera fu ventosa e alla fine piovosa, l’inverno fu meno freddo del solito, l’estate fu meno calda del normale. Micheli dice di trovarsi in autunno nel momento in cui sta scrivendo, e afferma che questa stagione era stata sino ad allora piovosa, per cui se malauguratamente l’inverno successivo fosse stato molto piovoso e meno freddo della norma, ci sarebbe stato il pericolo di un’epidemia di peste alla fine della stessa stagione. Il Micheli si dimostra convinto che il morbo sia stato inviato dalla divina Provvidenza per punire i peccati umani. La malattia viene provocata dall’aria malsana portata ovunque dal vento, pur rimanendo ancora sconosciuta la sua causa immediata. Seguendo il parere dei medici, l’autore distingue le cause

extrinsece della peste da quelle intrinsece. Le prime devono essre ricercate nella corruzione

degli elementi: la terra si infetta per i fenomeni di putrefazione degli organismi morti, così come l’acqua, soprattutto in stagni e paludi. In questo modo le esalazioni tossiche guastano l’aria, che diventa malsana e viene trasportata ovunque dai venti, così da far ammalare gli uomini. L’aria si può corrompere anche in altri modi, come per le esalazioni provocate dai terremoti o per il calore eccessivo. Infatti quasi tutti i medici ritenevano che l’aria infetta, dovuti a fenomeni collegati a umidità e calore, fosse — rispetto agli influssi celesti — la causa più diretta della peste. Gli astrologi invece vedevano la causa extrinseca dell’epidemia nelle alterazioni provocate dai fenomeni celesti. A questo proposito Micheli ricorda la peste nera di circa un secolo prima: l’epidemia iniziò nel 1345 e durò fino a tutto il 1348, mietendo moltissime vittime. L’autore ricorda che, per discutere sulle cause della peste, Filippo VI di Francia (1328-‘50) aveva fatto arrivare a Parigi numerosi medici e astrologi, che giunsero alla conclusione che il flagello era stato provocato da precedenti eclissi e da alcune congiunzioni planetarie. Infatti il 10 marzo (ma il 20 marzo nel Compendium parigino) del 1345 Saturno, Giove e Marte si erano congiunti nel segno zodiacale dell’Acquario, un fenomeno che avrebbe alterato l’aria, poi trasportata ovunque dai venti. Il primo effetto della congiunzione sarebbe stato meteorologico, con l’aumento dei fulmini che percorsero il cielo dal 6 ottobre 1346 fino al termine del maggio dell’anno successivo.

Come cause intrinsece dell’epidemia, hanno rilevanza soprattutto la costituzione dell’organismo esposto ai rischi del contagio e l’età del soggetto stesso. Sono quattro i fattori che determinano la peste: la forza del morbo, la costituzione fisica di chi è esposto ad esso, il contatto con ciò che è infetto e la durata del contatto stesso. L’autore esamina i segni che indicano l’imminenza dell’epidemia: condizioni meteorologiche che nel corso dell’anno non hanno rispettano la norma, soprattutto per quanto riguarda temperatura e umidità; produzione di cereali e frutti malati e fuori stagione; grande quantità di rane, rettili e altri animali che nascono dalla corruzione degli elementi, perché sono segnali di una preoccupante degenerazione di aria, acqua e terra; terremoti, perché questi sono provocati dai venti racchiusi nelle viscere della terra (così si credeva), che possono avvelenare l’aria, e dunque gli uomini, se provengono da luoghi infetti. Micheli tratta poi dei metodi per prevenire la peste. Solo Dio può assicurare la buona salute e la guarigione, estinguendo la malattia potestative: il

primo rimedio contro la peste è dunque implorare l’aiuto di Dio, senza però trascurare le cure della medicina, che è instrumentum del Signore. Vengono quindi forniti dei suggerimenti riguardo ad attività, diete ed espedienti con cui si può contrastare il morbo. Quindi si prendono in considerazione le cure per chi è stato già contagiato, distinguendo anche in questo caso i comportamenti salutari da quelli che devono essere evitati.

Il breve trattato del Micheli è una compilazione, frutto di materiali raccolti «ex aliorum amplissimo pelago». Tuttavia Riccardo Pratesi ha già riconosciuto come esclusivamente del Micheli le seguenti parti del Breviloquium: l’intero prologo, i brani iniziali sulla Provvidenza divina; il passo sulla legittimità di contrastare la peste, anche se questa fosse stata inviata da Dio per punire i nostri peccati; il riconoscimento dell’onnipotenza divina al di sopra dell’influsso degli astri che causerebbero l’epidemia; i passi su Pietro da Tossignano e su altri medici “moderni”; il brano sui doveri del medico cristiano (PRATESI, Francesco Micheli, cit., p. 359). Inoltre l’autore fa un rapido accenno anche alla propria esperienza personale, quando parla di una sorta di immunità dal morbo. Infatti afferma di sapere per esperienza che i bambini che sono già stati infettati dall’epidemia, una volta guariti non possono più essere vittime del contagium intrinsecum, che si verifica quando il morbo viene trasferito dai genitori alla prole all’atto della concezione o attraverso gli alimenti.

La fonte principale di cui Micheli ha tenuto conto nella stesura della sua compilazione è un breve trattato scritto in Francia circa un secolo prima. Infatti nell’ottobre del 1348 i docenti della facoltà di medicina dell’Università di Parigi presentarono una relazione ufficiale, il

Compendium de epidemia, sulla peste nera che allora stava infuriando e mietendo vittime

ovunque,. L’opera è stata data alle stampe solo nell’Ottocento: integralmente in J.F.C. HECKER, Wissenschaftliche Annalen der gesammten Heilfunde, XXIX, Berlin 1834 e in E. RÉBOUIS, Étude historique et critique sur la peste, Paris 1888, pp. 70-145 (con traduzione francese a fronte); in edizione parziale in J.MICHON, Documents inédits sur la peste de 1348,

Paris 1860, pp. 49-89 e in R.HOENIGER, Der schwarze Tod, Berlin 1882, pp. 152-156.

Riccardo Pratesi non ha potuto consultare nessuna di queste edizioni a stampa e nessun testimone manoscritto dell’opera, ma si è basato sull’analisi del Compendium data alle stampe da Alfred Covillein Écrits contemporains sur la peste de 1348 à 1350, in Histoire littéraire

de la France, XXXVII, Paris 1938, pp. 325-390. Sulla base di questa pubblicazione, Pratesi

ha affermato che Francesco Micheli del Padovano «ha attinto la maggior parte del suo trattato dal sollodato Compendium de epidemia [...] tutti gli autori antichi ivi citati: filosofi, medici ecc. provengono dal Compendium. Anche la disposizione del Breviloquium, pur con alcune variazioni, è visibilmente modellata su quella del Compendium. [...] Inoltre vi sono tra i due trattati palesi e strette dipendenze letterarie, ora lunghe, ora brevi, e non solo nei confronti degli autori citati» (PRATESI, Francesco Micheli, cit., pp. 358-359).

Tuttavia la lettura diretta del Compendium (ho utilizzato l’edizione integrale di Émile Rébouis, basata sul testimone Paris, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 11227, consente di modificare in parte questo giudizio. Infatti Micheli ha tratto sì moltissime informazioni dalla relazione ufficiale del 1348, ma le vere dipendenze testuali sono piuttosto limitate e

interessano il capitolo con cui si apre il Compendium e che reca il titolo De causa universali

et remota (RÉBOUIS, Étude, cit. pp. 76, 78 e 80), in quanto l’autore del Breviloquium ha trascritto direttamente, con alcune modifiche e omissioni, interi passi solo di questa sezione del trattato parigino, talvolta combinandoli tra loro in ordine diverso dal testo originale; spesso lo scritto di Micheli è più sintetico di quello del 1348 e meno dettagliato, ma gli autori citati dal francescano sono molto più numerosi di quelli menzionati nel Compendium.

6.4. De ratione studendi sacrae Scripturae (ancora incerta la paternità di Micheli)

Non se ne conosce alcun testimone manoscritto o comunque circolante sotto il nome del Micheli. Il fatto che non sia ricordato dai biografi tra le opere di frate Francesco ha un’importanza relativa; infatti non si può escludere che la paternità sia da attribuire proprio a questo autore, considerando anche che il breve trattato venne pubblicato dal Siri nel suo plagio del 1660 insieme ad altre opere del solo Micheli e che lo stile di scrittura è simile a quello degli altri Tractatus morales. Dalla pubblicazione del Siri possiamo conoscere il contenuto dell’opera, che insiste sulla rilevanza dello studio della Bibbia, l’autenticità dei libri canonici, il testo ebraico delle sacre Scritture, la versione dei Settanta, le caratteristiche del Vecchio Testamento e soprattutto del Nuovo. Alcuni brani sono dovuti senz’altro ad aggiunte e interpolazioni del Siri, soprattutto sulla Volgata e sull’abuso della Bibbia praticato dai Protestanti.

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