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Stefano Villamena

SOMMARIO: 1. Duplice chiave di lettura (fra le altre possibili) in cui è ascrivibile il contributo. 2. Osservazioni su individuazione e gestione dei beni comuni. 3. Un caso emblematico circa le ricadute pratiche del contributo di cui si dibatte: recente normativa della Regione Emilia-Romagna in tema di “economia solidale”. 4. Considerazioni finali: beni comuni; informazione; abusi; rimedi.

1. Duplice chiave di lettura (fra le altre possibili) in cui è ascrivibile il contributo

Ci sono naturalmente diversi modi per inquadrare il contributo della Prof.sa Simonati. Una prima e forse più immediata chiave di lettura è quella che riguarda l’applicazione degli istituti partecipativi ai beni co- muni in un modo diverso da quello che siamo abituati ad ipotizzare quando utilizziamo tali istituti, ossia non attraverso le forme e le moda- lità indicate dalla legge, ma a prescindere, naturalmente per quanto pos- sibile, da questa.

Infatti, gli istituti partecipativi prescelti sono tutti caratterizzati da una scarsa attenzione normativa. Anzi, in alcuni casi l’attenzione è qua- si nulla, come nel bilancio sociale o come in quello della pianificazione strategica, se si eccettua, in questa seconda ipotesi, il recente accenno contenuto in tema nella c.d. legge Del Rio di riordino delle Province.

In questa scelta può rinvenirsi un tratto originale. Un po’ come se l’Autrice immaginasse un sistema aperto, in cui si utilizzano istituti

soft, o volontaristici, al fine di stimolare lo sviluppo di strumenti parte-

cipativi dal basso, o comunque dotati di una certa flessibilità.

Tuttavia, sul piano sistematico è ipotizzabile anche una seconda chiave di lettura per inquadrare il contributo in esame. Non alternativa,

ma integrativa rispetto alla prima. Mi riferisco all’idea di collocare il contributo della Prof.sa Simonati nell’ambito di quei filoni scientifici che più hanno caratterizzato il tema dei beni comuni: in questo senso,

fra Garret Hardin1 ed Elinor Ostrom2, il contributo in commento po-

trebbe rientrare senz’altro nel secondo filone indicato.

Sono ben note le origini del dibattito in tema alla cui base vi è la consueta (e assai fosca) affermazione di Garret Hardin relativa alla “tragedia dei beni comuni”, fondata sul fatto che la “fruizione” incondi- zionata del bene a causa di comportamenti scriteriati e sregolati (nel senso letterale dei termini, ossia privi di criteri e di regole) da parte dei singoli conduca – inesorabilmente – alla “eliminazione” del bene stes- so.

Ancora emblematica, a tal proposito, la metafora del pascolo aperto e dei pastori che lo sfruttano. Pastori che acquistano ed immettono in momenti diversi un capo di bestiame nel pascolo stesso, massimizzan- do, ad un tempo, il loro profitto e, “tragicamente”, depauperando la ri- sorsa comune costituita dalla distesa erbosa spontanea (il pascolo, ap- punto).

Merito di quest’analisi è stato quello di aver posto l’accento sul pro- blema delle esternalità del fenomeno indicato. Vale a dire sul profilo degli “effetti negativi” delle decisioni di taluni che non ricadono esclu- sivamente su loro stessi, ma che determinano, al contrario, conseguenze dannose ben più ampie su altri soggetti, fino a raggiungere, per questa via, la collettività generale che non ha preso minimamente parte alla decisione.

Da qui si percepisce l’importanza della partecipazione e del giusto procedimento da parte dei soggetti interessati. Profilo che riecheggia per certi versi quello degli interessati che subiscono aliunde un pregiu- dizio di cui parla la nostra legge sul procedimento amministrativo quando accenna alla tutela dell’interesse diffuso e/o collettivo.

Tuttavia, ciò precisato non si condivide la soluzione proposta al problema da parte della dottrina indicata (Hardin). Infatti, se non sba-

1 G. H

ARDIN, The Tragedy of the Commons, in Science, 1968, vol. 162, 3859,

1243 ss.

2 E. O

STROM, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge (UK), 1990.

glio, rispetto alla tutela dei beni comuni, si propendeva per la seguente soluzione: o privatizzare o pubblicizzare. In termini di vero e proprio

aut aut.

Ebbene, non si condivide questa posizione perché – come ha spiega- to successivamente la Ostrom – esistono delle vie intermedie più effi- cienti, che si potrebbe definire più proporzionate al fine da raggiungere, ossia verso il giusto equilibrio fra tutela e sfruttamento dei beni comuni. Soluzioni che in ultima analisi garantiscono più adeguatezza al risulta- to. Ed in fondo tale equilibrio dipende dal fatto che in questa materia non sono ipotizzabili soluzioni valide una volta per tutte. Mentre invece occorre trovare soluzioni adeguate anzitutto a livello metodologico, ossia, prendendo a prestito una nota espressione di Feliciano Benvenuti,

«nel farsi dell’azione»3 o svilupparsi della stessa. Soluzioni cioè che

consentano un adattamento al caso e che permettano una bilanciata progressività al sistema generale.

Del resto, come chiariva la Ostrom, la “tragedia” dei beni comuni ha più probabilità di verificarsi quando «gli utenti del bene comune non si conoscono, non comunicano fra loro e non hanno coscienza degli effetti

delle proprie scelte»4.

2. Osservazioni su individuazione e gestione dei beni comuni

Con questa premessa ho svelato quelli che a mio avviso sono alcuni meriti del contributo di cui si dibatte. A mio parere il contributo della Prof.sa Simonati è sensibilmente influenzato, e positivamente condizio- nato, dall’impostazione della Ostrom. Impostazione, come detto, più matura di quella di Hardin, e non solo perché successiva alla stessa.

In base a questa impostazione (della Ostrom come della Simonati) fra i due estremi ipotizzati, ossia pubblico e privato, esiste un modello intermedio, che si potrebbe definire misto, il quale, pur non discono-

3 F.B

ENVENUTI,Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Rivista tri- mestrale di diritto pubblico, 1952, 121. In realtà si riprende solo parzialmente la celebre

espressione dato che l’originale era «farsi dell’atto».

4 E.O

STROM,J.WALKER,R.GARDNER, Covenants with and without a Sword: Self- governance is Possible, in American Political Science Review, 1992, 2, 404.

scendo il ruolo del pubblico, ammette pur sempre momenti di compar- tecipazione e di influenza sulle scelte finali da parte del privato, spe- cialmente laddove quest’ultimo corrisponda alla comunità di riferimen- to per il tramite di enti esponenziali degli interessi di tale comunità.

Nel contributo gli ambiti principali di questa “(com)partecipazione” sono rappresentati dalle modalità di gestione, dal monitoraggio, nonché dalla verifica dei risultati conseguiti rispetto ai beni comuni oggetto d’interesse.

Mentre i mezzi ipotizzati, anche tenendo conto dei diversi livelli di partecipazione, nonché del diverso grado di penetrazione degli stessi, sono quelli del bilancio sociale, della carta dei servizi e della pianifica- zione strategica.

Sono questi ultimi, caratterizzati in generale da una certa flessibilità e plasmabilità, che dovrebbero garantire (in tema di beni comuni) che le responsabilità non possano essere che comuni fra pubblico e privato.

Nell’ambito di questo metodo partecipativo si accenna poi alla pos- sibilità di una sua utilizzazione per la stessa individuazione dei beni comuni all’interno di determinate collettività di riferimento. Come sap- piamo questo è il tema che più agita i giuristi. Infatti è la stessa nozione di bene comune ad essere in mezzo al guado fra bene privato e bene pubblico, ragion per cui costituisce un tertium genus oppure una cate- goria ascrivibile ad una delle prime due indicate?

Certamente il metodo partecipativo (pubblico-privato) è qui più complesso da utilizzare. Ma l’Autrice, consapevole di questa difficoltà, individua comunque l’esistenza di un principio immanente nel nostro ordinamento nel senso della partecipazione della collettività degli utenti sia alla individuazione che alla gestione dei beni comuni. In ciò vi è il richiamo implicito al principio di sussidiarietà, specie nella sua acce- zione orizzontale. La sensazione che si percepisce è che questa impo- stazione legittimi ulteriormente quella visione di diritto dal basso che orami dovrebbe caratterizzare le democrazie post-moderne, su cui si

segnala un recente contributo di Antonello Ciervo5.

5 A. C

IERVO, Diritto dal basso, in Dig. disc. privat., sez. civile, Aggiornamento

La forza del contributo in esame sta nell’aver indicato un metodo “possibile” – credo non utopistico – per introdurre elementi di parteci- pazione in tema di individuazione e gestione dei beni comuni. Consa- pevole del fatto che una partecipazione troppo spinta ed incisiva su una materia così confusa potrebbe condurre ad un incessante circolo specu- lativo e concettuale in cui non si arriva mai ad una conclusione, neppu- re intermedia.

3. Un caso emblematico circa le ricadute pratiche del contributo di cui si dibatte: recente normativa della Regione Emilia-Romagna in tema di “economia solidale”

Il metodo partecipativo in esame – oltre a collegarsi al tradizionale

processo di crescita descritto da Zimmermann6, che va sotto il nome di

empowerment, nel senso che la partecipazione incrementa la stima del

singolo che appartiene ad un gruppo e lo conduce a superare i suoi limi- ti, ossia se stesso – sembra prendere forma, a livello concreto, laddove dà colore ad alcune recenti norme legislative regionali che, anticipando un compito dello Stato, tentano di definire i beni comuni.

Il richiamo cade in particolare sulla legge della Regione Emilia-Ro- magna n. 19/2014, in tema di «Norme per la promozione e il sostegno dell’economia solidale», il cui art. 3, lett. h) – per la parte che qui più interessa in termini di aderenza all’oggetto del contributo – definisce i «beni comuni» come quei beni (materiali o immateriali) per i quali deve essere garantito «il diritto di accesso e fruibilità da parte della collettivi- tà, tutelati, gestiti attraverso un sistema di relazioni sociali fondate sulla cooperazione e sulla partecipazione attraverso la promozione di una cultura che riconosca la dipendenza reciproca tra beni e comunità».

All’art. 4 della stessa legge citata si aggiunge che, «nel settore dei beni comuni e dei servizi collettivi», la Regione si impegna a promuo- vere ed incentivare il coinvolgimento dei cittadini nella gestione attiva dei beni comuni «attraverso strumenti istituzionali che prevedano la

6 M.A. Z

IMMERMAN, Empowement Theory. Psychological, Organizational and Community Levels of Analysis, in J. RAPPAPORT, E. SEIDMAN (eds.), Handbook of Community Psychology, I, New York, 2000, 43 ss.

partecipazione diretta dei cittadini e che siano deputati a vigilare sul rispetto dei principi e sul perseguimento degli obiettivi enunciati all’art. 1 della presente legge».

Infine, dal momento che in forza di una «clausola valutativa» (pre- vista all’art. 9 della legge menzionata) la Regione s’impegna ad eserci- tare «il controllo sull’attuazione» della legge appena citata, valutandone «i risultati ottenuti», credo che il contributo in esame possa essere uti- lizzato anche allo scopo di misurare l’incidenza (in termini di “risulta- ti”) della normativa indicata.

4. Considerazioni finali: beni comuni; informazione; abusi; rimedi

A mio parere l’esperienza regionale emiliana va nella giusta dire- zione. In effetti, un intervento legislativo sussidiario (stavolta però in senso verticale e ascendente) è necessario per fornire i criteri fonda- mentali in materia. In caso contrario si rischia una disciplina eccessi- vamente localistica e per certi versi anarchica.

Del resto, il settore dei beni comuni impone per definizione una di- sciplina comune, un livello essenziale, altrimenti si corre il pericolo di un’asimmetria non solo disciplinare ma, a livello ancora più elevato, di uno scontro fra “sovranità locali” e “sovranità nazionali”.

Lo “spezzettamento” in tema potrebbe peraltro urtare col principio di eguaglianza sostanziale, nonché col suo precipitato logico costituito dalla garanzia di un livello essenziale uniforme da assicurare su tutto il territorio nazionale in tema di godimento dei diritti fondamentali.

Sul punto, anche riprendendo il c.d. progetto Rodotà, è necessario ipotizzare una sorta di statuto giuridico dei beni comuni dettato con legge. Qualcosa di simile per intendersi a quanto accaduto, dopo quasi centocinquant’anni dalla legge abolitiva del contenzioso amministrati- vo, in tema provvedimento amministrativo, allorché si è stabilito un suo statuto comune con l’approvazione dell’art. 21, l. n. 241/1990, nelle sue varie declinazioni.

Questo contributo ha poi il merito di portare l’attenzione del lettore su un dato, forse il più allarmante degli ultimi tempi, che non si può sottacere. Il fatto che, in generale, aleggi una certa disillusione fra eco-

nomisti, giuristi, filosofi, politologi riguardo al grado di fiducia che può riporsi tanto nel pubblico quanto nel privato nella gestione di profili così sensibili, anche sul piano economico-finanziario, come quelli atti- nenti ai beni comuni.

Si pensi, ad esempio, al problema della risorsa idrica. In astratto è pur vero che la gestione, e non solo la titolarità, del bene-acqua debba essere pubblica. Tuttavia, nella prassi accade che la gestione di questo servizio non convinca, verrebbe da dire che fa acqua da tutte le parti. Ed in alcuni contesti territoriali è fonte – anche qui dentro e fuor di me- tafora – di pratiche clientelari, talvolta corruttive. Ne consegue che la migliore gestione dei beni comuni non può prescindere dalla considera- zione preliminare in ordine agli abusi che caratterizzano la nostra Am- ministrazione nel suo rapporto con i privati.

Non è un caso, del resto, che la normativa sull’anticorruzione, che sovente proprio di questi temi si occupa (si pensi alla disciplina in ma- teria di ambiente ivi contenuta), è forse quella che, dopo il codice del processo amministrativo, più agita l’interesse degli amministrativisti. Per averne conferma basta guardare alle innumerevoli iniziative già svolte, oppure a quelle già programmate nel prossimo futuro. Non è un caso, allora, che questa disciplina, allo stesso modo di quanto auspicato in tema di beni comuni nel contributo della Prof.sa Simonati, non possa prescindere dalla completa informazione preventiva a favore del priva- to.

Merita poi rilevare che, sia in tema di carte dei servizi pubblici, sia in tema di pianificazione strategica, possa essere opportuno valutare l’utilizzo delle c.d. azioni collettive previste dal d.lgs. n. 198/2009 in chiave partecipativa. Non può trascurarsi, infatti, che queste azioni han- no anche uno scopo partecipativo-rimediale. Basti considerare che le stesse sono immaginate soprattutto come strumento per ottenere il mi- glioramento della P.A. in chiave collettiva, potrebbe dirsi comune. A ben vedere ciò può riguardare anche il tema dei beni comuni, nel senso della mancata attuazione di un progetto o di un piano in tema che l’ente locale si era impegnato ad eseguire magari all’esito proprio di un pro- cesso partecipativo.

Sullo sfondo, tutti gli strumenti qui indicati sono mezzi per raggiun- gere un fine. Un fine che del resto non è sempre facilmente identificabi-

le in ragione del nostro assetto pluralistico. Fra gli altri ipotizzabili nel contributo si parla di quello relativo alla «equa ripartizione delle risor-

se»7. In tal senso ci sono diverse previsioni costituzionali che potrebbe-

ro legittimarlo. Però, volendo fare un rapido esempio, anche lo stesso vincolo dell’equilibrio di bilancio recentemente introdotto nella nostra Costituzione potrebbe essere richiamato. E ciò, naturalmente, laddove lo si interpreti in chiave sociale, ossia come strumento per rendere so- stenibili in futuro le spese in tema di beni comuni e non certamente co- me strumento iper-liberistico scatenante depressione sociale.

A questa stregua il già richiamato principio di proporzionalità do- vrebbe condurre ad un equilibrio fra due fasci di esigenze contrapposte: le prime, dei soggetti che attualmente consumano e sfruttano risorse comuni; le seconde, dei soggetti futuri cui va garantito, in senso buono, e non in quello storico in cui nasce il termine, il proprio spazio vitale.

In conclusione credo che la logica mista (pubblico/privato) abbrac- ciata nel contributo in esame possa essere utile a limitare, tracciandoli più chiaramente, gli abusi provenienti in materia di beni comuni dal- l’una e dall’altra sfera, ossia quella pubblica e quella privata, nel senso che la partecipazione è anche funzionale a lasciare traccia delle decisio- ni che si assumono e soprattutto delle relative premesse per giungervi.

7 A.S

IMONATI, Per la gestione “partecipata” dei beni comuni: una procedimenta- lizzazione di seconda generazione?, nel presente volume, 103 ss.

BENI COMUNI E AUTONOMIE NELLA PROSPETTIVA