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Eugenio Caliceti

SOMMARIO: 1. Il dibattito sulla nozione di bene comune alla luce della na-

tura della crisi: nota introduttiva. 2. La nozione di bene comune: riflessioni sulla classificazione dei beni e sulle relative forme proprietarie. 3. Le espres- sioni fenomeniche dell’appropriazione collettiva e il loro riconoscimento giu- ridico. 3.1. Sui criteri di appartenenza al gruppo. 3.2. Sulla natura divisa o piena del dominio esercitato sul bene comune. 3.3. Sul soggetto riconosciuto dall’ordinamento quale titolare dei poteri di gestione sul bene comune. 3.4. Sul modello istituzionale individuato per il concreto esercizio dei poteri di gestione sui beni comuni in proprietà del gruppo. 3.5. Sulle finalità perseguite dalla conformazione pubblica dei poteri proprietari e sugli obiettivi che orien- tano la gestione del bene comune. 4. Note conclusive: sui modelli dominicali socialmente funzionali per un diritto dei (e ai) beni comuni.

1. Il dibattito sulla nozione di bene comune alla luce della natura della crisi: nota introduttiva

In molti dei contributi che hanno animato il dibattito sui beni comu- ni si può rilevare un approccio di natura descrittiva, che lascia in secon- do piano il criterio generale assunto per operare una discriminazione tra

i beni1. Pare che in tale approccio si riproduca quello adottato dal legi-

slatore nel codice civile – e così fortemente criticato – allorquando si stilò l’elenco delle categorie di beni ricondotte ora al demanio, ora al patrimonio indisponibile. Tale esito è certamente dovuto al fatto che il

1 Si veda F.C

ORTESE, Che cosa sono i beni comuni?, nel presente volume, 37 ss.

Oltre a quelli ivi citati, è possibile menzionare anche gli areali agro-naturali (E. BOSCO- LO, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in Urbanistica e appalti, 2014, 2, 129 ss.). Differentemente si veda una ricostruzione sistematica che

contempla la nozione di bene comune in L.FERRAJOLI, Principia iuris, I, Roma-Bari,

medesimo dibattito, anche fortunatamente, è stato caratterizzato da una forte interdisciplinarità scientifica, raccogliendo un interesse trasversale a molti settori della società civile. Si può correttamente parlare di una profonda contaminazione tra differenti punti di vista, che pur arric- chendo il dibattito su cosa siano i beni comuni e sul perché essi esistono o debbano esistere, ha al contempo impedito una razionalizzazione de- gli spunti emersi.

Sotto un profilo giuridico due sono i punti fermi da cui partire: la definizione contenuta nel disegno di legge delega frutto dei lavori della Commissione Rodotà e le pronunce gemelle con cui la Cassazione ha elaborato la nozione di bene comune.

Secondo il primo documento i beni comuni sono costituiti da quelle «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fonda- mentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a bene- ficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garanti- ta la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati

dalla legge»2.

Secondo la Cassazione, invece, un bene si può qualificare come co- mune laddove, «indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale». In tal sen- so esso si colloca «al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica», ed è comune in quanto, «pre- scindendo dal titolo di proprietà, [è] strumentalmente collegato alla rea-

lizzazione degli interessi di tutti i cittadini»3.

Quello che ritengo importante sottolineare delle due brevi citazioni,

ponendo in secondo piano ulteriori profili critici4, è rappresentato dal-

2 Art. 2, n. 3, lett. c), Disegno di legge delega recante: «Delega al Governo per la

modifica del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre norme collegate».

3 Cass. civ., ss.uu., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Giornale dir. amm., 2011, 11,

1170 ss., con nota di F. CORTESE.

4 Una prima critica che può essere sollevata con riferimento a entrambe le defini-

l’approccio ivi assunto, e che può essere qualificato come meta-proprie-

tario5: la nozione di bene comune va al di là della proprietà. Non si par-

di quei beni che dovrebbero essere qualificati come comuni. Non ritengo che tale ap- proccio possa essere condiviso, seppur in esso trovi eco la classificazione tassonomica elaborata dalle scienze economiche per discriminare i beni. Non tutti i beni che sono funzionali all’esercizio di diritti fondamentali dovrebbero essere qualificati come co- muni. Vi sono contesti sociali ed economici nei quali il pieno sviluppo della personalità può essere garantito sottoponendo quei medesimi beni ad un regime privatistico. Il confine che individua la zona nella quale si configura possibile, in un dato ordinamento, appropriarsi in termini esclusivi di un bene, anche utilizzandolo in una logica economi- ca per offrire o erogare utilità o servizi necessari all’esercizio di diritti fondamentali, è determinato da condizioni estranee alla natura del bene: una fra tutte il potere di acqui- sto connesso alla commisurazione della retribuzione del lavoro, nonché la capacità di spesa pubblica attraverso la quale garantire, se non diritti, ragionevoli opportunità di accedere all’esercizio di diritti garantiti. Non è un caso che l’esigenza di affermare la nozione di bene comune sia stata avvertita in un periodo nel quale tanto il primo, quan- to la seconda, si sono drasticamente ridotti, e che è seguito a quello nel quale i medesi- mi diritti sono stati garantiti come mai in passato e ad un livello forse irripetibile, nel prossimo futuro, pur nell’assenza di beni comuni giuridicamente riconosciuti. Lungi dal dipendere esclusivamente da una qualità ontologicamente legata alla natura dei beni (valutazione quindi riconducibile ad una discrezionalità tecnica), la qualificazione di un bene come comune dipende dal fatto che una data collettività, attraverso procedimenti pubblici deliberativi previsti per legge, li riconosce dichiarativamente come necessari al libero esplicarsi della personalità. La decisione è politica e deve essere garantita, attra- verso una specifica procedimentalizzazione, ad ogni singola comunità, alla luce della percezione che essa ha del contesto sociale, economico, territoriale nel quale è inserita.

5 Tanto nelle pronunce della Cassazione, quanto nel documento elaborato dalla

Commissione Rodotà pare che si ritenga irrilevante la titolarità, in capo a soggetto pub- blico o privato, del diritto di proprietà ai fini della qualificazione di un bene quale co- mune. Un bene comune può esser tanto pubblico quanto privato. Tale nozione quindi prescinde dall’appartenenza e prevede uno statuto che, senza prendere in considerazio- ne la natura del soggetto proprietario, traspone nel mondo del diritto la speciale natura che il bene stesso possiede nel garantire utilità funzionali all’esercizio di diritti fonda- mentali. Un’analisi di tali documenti che volesse evidenziare quali profili di innovativi- tà vi siano contenuti dovrebbe rilevare come, in definitiva, essi abbiano dato un nuovo nome a fenomeni già conosciuti e consolidati nella tradizione giuridica democratico- sociale, etichettando come beni comuni quei beni di interesse pubblico che, per la loro natura, vengono assoggettati, alla luce del principio della funzione sociale della proprie- tà, a una disciplina conformativa. Non vi è possibilità, nell’opinione di chi scrive, di individuare altri spunti di innovatività, se non riportare in auge il principio della funzio-

la di appartenenza ma di fruizione e di funzionalizzazione del bene ri- spetto a interessi generali. Il tema, quindi, è quello riferibile all’accesso e alla regolazione conformativa dei poteri proprietari pubblici e privati.

Ogni concetto deve essere letto alla luce di un profilo funzionale, che può differire a seconda del contesto in cui esso viene ad operare. Lo scenario nel quale il concetto di bene comune emerge è caratterizzato da una situazione di crisi che può essere pensata quale espressione qua- litativa di fenomeni di differente natura.

Da un lato essa può essere interpretata come un rivolgimento sub- paradigmatico, ossia come una situazione nella quale una rottura viene superata attraverso una riarticolazione, in forme differenti, di paradigmi già consolidati.

Ritengo che proprio in questa prospettiva debbano essere ricomprese le tre principali chiavi di letture date al concetto di bene comune, che ripropongono, in diverse forme, una teoria della funzione sociale della proprietà.

ne sociale della proprietà, cosa peraltro di non poco conto vista la marginalità in cui esso è decaduto negli ultimi decenni.

Un approccio meta-proprietario è assunto, in dottrina, da M.R. MARELLA, Introdu- zione. Per un diritto dei beni comuni, in ID. (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012, 25. Secondo l’autrice «la situazione di

appartenenza non è carattere necessario del bene comune. Lo è certamente invece la gestione partecipata, che quando non si esprime in forma di appartenenza deve necessa- riamente manifestarsi almeno come facoltà di controllo e tutela in capo alla comunità, pena la riduzione del comune a pubblico e la sparizione stessa della dimensione del comune». Posizione analoga sostenuta da Nivarra, per il quale «il comune del bene comune non è affatto sinonimo di pubblico, per la semplice ragione che esso non sta a designare un regime di appartenenza, quanto piuttosto una modalità di fruizione» (L. NIVARRA, Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune, in M.R. MARELLA (a

cura di), Oltre il pubblico e il privato, cit., 71). Si veda inoltre: A. LUCARELLI, Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, in Costituzionalismo.it, 2014, 3, 4; A. VE- STO, I beni dall’appartenenza egoistica alla fruizione solidale, Torino, 2014, 2, secondo la

quale «la vera questione non è tanto quella degli assetti della proprietà ma l’utilizzazione anche pubblica dei beni»; E. BOSCOLO, Oltre il territorio, cit., con riferimento agli areali

agro-naturali. Allo stesso modo, nella letteratura non giuridica, i beni comuni vengono menzionati «non solo come l’opposto della proprietà, ma anche della sovranità […]. Appartenendo a tutti e a nessuno, tutti possono avervi accesso, nessuno può vantare diritti esclusivi» (M. FORONI, Beni comuni e diritti di cittadinanza, Milano, 2014, 77).

In una prima, infatti, il concetto di bene comune costituisce uno strumento per risolvere un problema di inefficiente regolazione pubbli- ca dell’accesso a beni di particolare valore sociale ed economico, og- getto di proprietà di soggetto tanto pubblico quanto privato. Le teorie espresse tanto dalla miglior dottrina quanto dalla Cassazione possono essere ricondotte a tale fattispecie, nella quale il paradigma della pro- prietà individualista, tanto pubblica quanto privata, non viene ad essere intaccato, seppur contemperato da un riesumato principio della funzio- ne sociale.

Esso, in secondo luogo, evidenzia un problema di insufficiente par- tecipazione alle scelte strategiche effettuate a monte dalla PA rispetto alla gestione di specifici beni. La nozione di bene comune approfondi-

sce, anche in questa prospettiva, gli strumenti partecipativi6 già previsti

nei procedimenti finalizzati a determinare le scelte strategiche assunte

rispetto a beni di particolare interesse sociale ed economico7.

La medesima nozione, infine, introduce la cura di alcuni interessi pubblici in una logica ispirata ad una responsabilità condivisa, alla luce

del principio di sussidiarietà8, e rispetto ai quali l’azione amministrativa

è sottoposta a un regime speciale, anche alla luce dell’ordinamento co-

munitario9.

In queste tre prospettive, sottese da un approccio meta-proprietario, la crisi da cui è scaturita una rivendicazione ai beni comuni viene ridot- ta ad un semplice rivolgimento sub-paradigmatico.

6 Si veda A. S

IMONATI, Per la gestione “partecipata” dei beni comuni: una proce- dimentalizzazione di seconda generazione?, nel presente volume, 103 ss.; A. LUCAREL- LI, Beni comuni, cit., 3.

7 Si pensi all’individuazione dell’ambiente, quale bene giuridico, e al rafforzamento

degli istituti partecipativi nei procedimenti ambientali quali la Valutazione ambientale strategica e la Valutazione di impatto ambientale. In dottrina si veda N. LUGARESI, Ma- nuale di diritto dell’ambiente, Padova, 2015, 78 ss.

8 Si veda G. A

RENA, Introduzione all’amministrazione condivisa, in Studi parla- mentari e di politica costituzionale, 1997, 117-118, 29 ss. e anche ID., Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, Roma-Bari, 2006; G. ARENA, C.IAIONE (a cura di), L’Italia dei beni comuni, Roma, 2012.

9 Si veda S. C

ORNELLA, Beni comuni e disciplina europea sugli aiuti di Stato, nel

Dall’altro lato la crisi può però esser interpretata come l’espressione di una rottura paradigmatica, il cui superamento implica la ridefinizione di un nuovo equilibrio sistemico e l’individuazione di un nuovo para-

digma e di nuove regole10, nel quale emergono modelli alternativi ri-

spetto a quelli attualmente egemonici (la proprietà individualista pub-

blica e privata)11.

Non ci è ancora dato sapere se l’attuale crisi sarà di natura paradig- matica o meno: tutto dipenderà dalle condizioni macroeconomiche nel- le quali sarà contestualizzato il sistema Paese – ossia dalla misura in cui

esso verrà marginalizzato nei futuri equilibri del sistema-mondo12 –,

dalle capacità imprenditoriali di cogliere le opportunità che ogni crisi porta con sé, dalle capacità delle istituzioni, tanto quelle tecniche quan- to quelle politiche, di rispondere in maniera intelligente al mutamento.

Ma nello scenario che ritengo utile prendere in considerazione – quello nel quale la crisi porterà ad un rivolgimento paradigmatico – la nozione di bene comune non potrà che essere di natura strettamente proprietaria, rispondendo quindi a un conflitto, nella mia opinione, al- locativo. Rievocando Tocqueville, è ancora sulla proprietà che si con-

sumerà un conflitto sociale13 teso a dare concreta attuazione ad una

«promessa rivoluzione»14.

10 Sulla natura paradigmatica o sub-paradigmatica di una crisi, si veda B.D

E S. SAN- TOS, Toward a New Legal Common Sense: Law, Globalization, Emancipation, London,

2002, 174 ss.

11 Sembra che in questa direzione vadano alcuni spunti avanzati dalla Corte di cas-

sazione, seppur non siano stati sviluppati e sistematizzati. La Corte infatti ha affermato, nel ridisegnare la nozione di demanialità, che essa «esprime una duplice appartenenza alla collettività ed al suo ente esponenziale, dove la seconda (titolarità del bene in senso stretto) si presenta, per così dire, come appartenenza di servizio che è necessaria, perché è questo ente che può e deve assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti carat- teristiche del bene e la loro fruizione» (Cass. civ., ss.uu., 14 febbraio 2011, n. 3665, in

Giornale dir. amm., 2011, 11, 1170, con nota di F. CORTESE).

12 Cfr. I.M. W

ALLERSTEIN, World-systems Analysis: An Introduction, London,

2004.

13 A.

DE TOCQUEVILLE, Della classe media e del popolo, in ID., Scritti Politici, Tori-

no, 1981, 247 ss. Si veda L. COCCOLI, Idee del comune, in M.R. MARELLA (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, cit., 31 ss.

14 Il riferimento rinvia naturalmente a Calamandrei, evocato anche da Maddalena

2. La nozione di bene comune: riflessioni sulla classificazione dei beni e sulle relative forme proprietarie

Partendo dall’ipotesi che l’attuale crisi rappresenti un momento di rottura paradigmatica, ritengo che la nozione di bene comune debba incidere sull’allocazione di risorse (siano esse cose o singole utilità da esse generate individuate come bene giuridico autonomo) e richieda l’elaborazione (rectius, la rivitalizzazione) di nuove (rectius, recessive, alla luce di un supposto principio di darwinismo sociale) figure proprie-

tarie che hanno nella titolarità collettiva (comune, o diffusa)15 la propria

cifra caratterizzante. L’orizzonte nel quale contestualizzare la nozione di bene comune cui farò riferimento rimanda, quindi, a fenomeni di titolazione plurima, collettiva, diffusa, che dir si voglia, su beni in ra- gione di ciò qualificabili come collettivi o comuni.

Prima di individuare quali siano i modelli desumibili dall’analisi dei dispositivi legali, adottati non solo a livello nazionale ma anche in espe- rienze giuridiche straniere, che hanno disciplinato l’imputazione collet- tiva, ad un determinato gruppo, di specifici beni o di alcune utilità da essi offerte, vorrei soffermarmi su tre temi, di natura generale, che ven- gono toccati dall’auspicata introduzione, nell’ordinamento, della nozio- ne di bene comune.

Una prima questione è riferibile al criterio in base al quale conside- rare pubblico o privato un bene, ancor prima che comune.

Una seconda è relativa alle modalità e alle circostanze in cui un bene dovrebbe essere qualificato come pubblico o privato.

Una terza, infine, concerne le possibili articolazioni in cui la pro- prietà deve poter essere declinata al fine di corrispondere funzional- mente ad una rivendicazione ai beni comuni. Quelle che seguiranno sono considerazioni che, prescindendo dal quadro normativo oggi vi-

costituzione della Repubblica italiana, in Giur. cost., 2011, 2629) nell’auspicare una

«equa redistribuzione della proprietà» attraverso un incremento dell’appartenenza e del- l’uso dei beni comuni.

15 Riprendo con tale formula quella di «diritto pubblico diffuso», felicemente intro-

dotta da V.SCIALOJA, Studi giuridici, I, Roma, 1933, 117, cit. in A.DI PORTO, Res in

gente, vorrebbero proporre alcuni principi alla luce dei quali attuare una riforma della disciplina dei beni da tempo auspicata in dottrina.

Ritengo, in primo luogo, che la natura pubblica o privata di un bene possa essere individuata, in termini astratti, avendo come riferimento la

natura dei diritti su di esso riconosciuti16. Questo modo di procedere

inverte quello normalmente adottato nel concepire la relazione tra qua- lificazione dei beni e diritti. È dalla qualificazione di un bene come pubblico che discende, attualmente, una specifica destinazione funzio- nale all’esercizio di un diritto al suo potenziale uso, nei limiti e nei mo- di in cui ciò sia stato determinato dal legislatore, in prima battuta, e

successivamente con atto dispositivo della PA17. Attualmente appare

irrilevante il sussistere di un diritto di uso pubblico, quale «specifico

diritto reale parziario collettivo»18, al fine di qualificare giuridicamente

un bene come pubblico. Il sussistere di un diritto pubblico di uso do- vrebbe, invece, essere considerato un elemento rilevante per determina-

16 Tale percorso logico trova supporto, peraltro, in alcune fonti del diritto romano.

In tal senso ciò che caratterizzava il regime delle res in uso publico era, come osservato in dottrina, la previsione di interdetti popolari per la loro tutela. Cfr. A.DI PORTO, Res

in usu publico, cit., 35. Argomentazione analoga, peraltro non compiutamente esplicita- ta, in C.M. CASCIONE, Il diritto privato dei beni pubblici, Bari, 2013, 214 s. Secondo

l’autrice tanto la natura pubblica dei diritti demaniali su beni altrui, quanto le servitù pubbliche, costituiscono esempi di beni “privati di interesse pubblico”, che vengono citati per indicare come nel nostro ordinamento si possano configurare, in verità, beni pubblici ad appartenenza privata sottoposti a vincolo di destinazione. La fruizione col- lettiva, o meglio il riconoscimento di un diritto alla fruizione disposto con atto discre- zionale dalla PA, costituisce infine «una realtà giuridica legittimante l’individuazione del bene» (V. CAPUTI JAMBRENGHI, Beni pubblici tra uso pubblico e interesse finanzia- rio, in Dir. amm., 2007, 2, 172).

17 Alla luce dell’attuale ordinamento, viene ritenuta doverosa, e quindi non giuridi-

camente dovuta, l’apertura alla fruizione collettiva dei beni pubblici suscettibili di de- stinazione pubblica (V. CAPUTI JAMBRENGHI, Beni pubblici, cit., 173), seppur l’Autore

affermi, in conclusione, l’esigenza di giungere al riconoscimento, rispetto all’apertura alla fruizione, di un «dovere di proprietà» (V. CAPUTI JAMBRENGHI, Beni pubblici, cit.,

188). Differente la prospettiva nella quale si pone Giannini, secondo il quale sui beni oggetto di proprietà collettiva demaniale si esercitano «diritti soggettivi, appartenenti al gruppo dei diritti civili collettivi» (M.S. GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, 47).

18 V. C

APUTI JAMBRENGHI, Uso pubblico (diritto di), in Dig. disc. pubbl., XV, 1999,

re la qualitas soli di un bene, alla luce di una rinnovata teoria dei diritti

pubblici patrimoniali19, contestualizzata nell’ambito della tradizione co-

stituzionale democratico-sociale20. Ai fini del presente lavoro, ritengo

che la natura pubblica di un diritto derivi dall’essere quest’ultimo rico- nosciuto in dipendenza di uno status, attribuito al soggetto da norma di

diritto pubblico21.

19 Sul concetto, molto dibattuto nella miglior dottrina tra Ottocento e Novecento, si

veda S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, in V.E. ORLANDO (a cura di), Introduzione al diritto amministrativo, I, Milano, 1900, 111 ss.

20 La diminuita capacità economica che di fatto caratterizza la finanza pubblica nel-

l’attuale frangente, la assenza di limiti alle facoltà dispositive con cui la PA può proce- dere alla dismissione del patrimonio pubblico attraverso atti di sdemanializzazione o di