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Anna Simonati

SOMMARIO: 1. Le coordinate concettuali di riferimento. 1.1. Rilievi intro-

duttivi. 1.2. La partecipazione nella gestione dei beni comuni: avvertenze sul- l’ambito di applicabilità. 1.3. Le sollecitazioni provenienti dalla bozza di Car- ta europea dei beni comuni. 1.4. La gestione efficiente dei beni comuni, fra comunicazione pubblica e procedimentalizzazione. 2. I bilanci sociali delle amministrazioni: un modello partecipativo per la comunicazione pubblica. 3. Le carte dei servizi e il ruolo dei cittadini/utenti: molto rumore per nulla? 4. La pianificazione strategica: dalle buone prassi un modello di procedimen- talizzazione per la gestione dei beni comuni. 5. Considerazioni di sintesi: i nuovi moduli procedimentali come garanzia di efficienza nella gestione dei beni comuni.

1. Le coordinate concettuali di riferimento 1.1. Rilievi introduttivi

«I diritti devono pur avere una fonte e provengono dalla comunità. In cambio, tutti noi abbiamo delle responsabilità nei confronti della

comunità»1. Da questa semplice considerazione traspare la complessità

insita nella regolazione della gestione dei beni comuni, la cui peculiari- tà sta nel fatto che non sono formalmente di proprietà di nessuno ma

possono essere utili a tutti2. Ciò evidentemente richiede la determina-

zione di norme certe in ordine alle modalità del loro sfruttamento da parte della collettività; a tal fine, è necessario tenere attentamente in

1 Questa frase è tratta da R. P

AUSCH, J. ZASLOW, L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, Milano, 2010, 199.

2 V. in proposito, con particolare chiarezza, L. P

ENNACCHI, Filosofia dei beni co- muni. Crisi e primato della sfera pubblica, Roma, 2012, in più punti.

considerazione sia il problema della scarsità delle risorse, sia quello dell’equità distributiva.

In ambito giuridico, una sfida importante ha a che fare con la que- stione di carattere definitorio e sistematico. Sul punto, varie tesi sono state avanzate nel corso del tempo, ma nessuna sembra realmente riso-

lutiva3. Anzi, è forse necessario ammettere che il tentativo di elaborare

un catalogo dei beni comuni in cui questi compongano, almeno in via tendenziale, un numerus clausus è destinato a fallire, per varie ragioni. Pare di poter dire, in primo luogo, che la configurazione in termini di “bene comune” dipende in modo significativo dalla percezione dei bi- sogni – e dei meccanismi utilizzabili per soddisfarli – diffusa presso le singole popolazioni. In secondo luogo, le caratteristiche del contesto ordinamentale di riferimento sono suscettibili di influenzare non poco i termini della questione, dal momento che le norme relative all’accesso a una determinata utilità e al suo sfruttamento necessariamente incidono sulla sua percezione come oggetto di utilizzo “comunitario”.

È vero che fino ad ora la discussione si è concentrata prevalente- mente sul profilo definitorio e ci si è chiesti se i beni comuni possano rientrare nella nozione di “bene” offerta dal codice civile. Ma il pro- blema principale sta nel fatto che i beni riconducibili a queste categorie

3 La ricostruzione esauriente di tale dibattito non rientra fra gli obiettivi di questo

contributo. Ci si limita, dunque, a richiamare soltanto alcuni scritti recenti e significati- vi, per evidenziare proprio la pluralità di opinioni espresse. V., dunque, oltre ai contri- buti citati in altri punti: A. LUCARELLI, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale Stato, 2007, 87 ss.; M. HARDT, A. NEGRI, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, 2010; G. ARENA, Beni comuni. Un nuovo punto di vista, in www. labsus.org, 2010: http://www.labsus.org/?s=un+nuovo+punto+di+vista (consultato il

21 novembre 2015); P. MADDALENA, L’ambiente e le sue componenti come beni comu- ni in proprietà collettiva della presente e delle future generazioni, in Federalsimi.it,

2011, 25; U. MATTEI, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011; G. ARENA,C. IA- IONE, L’Italia dei beni comuni, Bari, 2012; M.R. MARELLA, Introduzione. Per un diritto dei beni comuni, in ID. (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012; S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, e ID., Il valore dei beni comuni: http://www.acquabenecomune.org/?option=com_content& view=article&id=1293:il-valore-dei-beni-comuni-di-stefano-rodota&catid=137 (con-

sultato il 21 novembre 2015); S. SETTIS, Azione popolare. Cittadini per il bene comune,

Torino, 2012. In proposito, v. F. CORTESE, Che cosa sono i beni comuni?, nel presente

formalmente non sono né pubblici né privati. Pertanto, è indispensabile procedere a un ripensamento profondo delle categorie dominicali tradi- zionali, fondate proprio sulla dicotomia fra proprietà privata e apparte-

nenza pubblica4. Il punto di partenza di tale riflessione potrebbe essere

costituito dall’individuazione degli interessi sostanziali, il cui soddisfa- cimento è prioritario per assicurare ai consociati una qualità della vita sostenibile e (auspicabilmente) progressivamente incrementabile.

Allora, potrebbe forse essere utile ribaltare la prospettiva e parlare dei beni comuni non come beni (pubblici o privati) in senso classico,

ma essenzialmente come oggetto di interessi e di prestazioni5. Di inte-

4 In proposito, è interessante A. C

IERVO, Beni comuni, Roma, 2012, in più punti,

ove l’autore indica una nozione di beni comuni alternativa alla dicotomia fra beni pub- blici e privati e tendenzialmente comprensiva di quelle risorse extra commercium a cui lo Stato deve garantire l’accesso generalizzato, in quanto strettamente connesse al sod- disfacimento dei diritti fondamentali delle persone. In questi termini, secondo Ciervo, i beni comuni possono contribuire al superamento della crisi economico-finanziaria.

5 L’assunzione di questa prospettiva “sintetica” rispecchia il superamento della con-

cezione dicotomica del rapporto fra svolgimento di funzioni ed erogazione di servizi, il primo sottoposto esclusivamente alle regole pubblicistiche, il secondo improntato inve- ce al rispetto di criteri spiccatamente efficientistici. Non è questa la sede per ricostruire il dibattito relativo all’utilizzo da parte dell’amministrazione di moduli di stampo alme- no tendenzialmente negoziale. È necessario ricordare, però, come la dottrina ormai dif- fusamente riconosca che, da un lato, lo svolgimento di funzioni non sfugge alla neces- saria adesione a parametri di efficienza e, dall’altro lato, l’erogazione di servizi rispon- de all’esigenza di soddisfare interessi della collettività e dunque non può rispondere a parametri di carattere squisitamente imprenditoriale. In proposito v., per esempio, M. MAZZAMUTO, Amministrazione e privato, in F. MANGANARO, A. ROMANO TASSONE

(a cura di), Persona ed amministrazione. Privato, cittadino, utente e pubbliche ammini-

strazioni, Torino, 2004, 70 ss., nonché M.R. SPASIANO, La funzione amministrativa: dal tentativo di frammentazione allo statuto unico dell’amministrazione, in Dir. amm.,

2004, 297. Può essere interessante richiamare, in proposito, la posizione assunta dalla cosiddetta Commissione Rodotà, la quale, nel 2008, propose di distinguere i beni in beni comuni, beni pubblici e beni privati e definì i beni comuni come «le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero svi- luppo della persona» (v. https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1

=0_10&facetNode_2=0_10_21&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS47617, con-

sultato il 19 novembre 2015). Secondo questa definizione, pertanto, i beni comuni sono cose (materiali ed immateriali) che possono essere oggetto dell’esercizio dei diritti fon-

ressi: cioè di bisogni e di esigenze, corrispondenti tendenzialmente (ma non in via esclusiva, quanto meno a medio e lungo termine) ai diritti

fondamentali delle persone; di prestazioni6 o, più precisamente, di do-

veri che devono essere adempiuti (dalle autorità o dagli erogatori priva-

ti di pubblici servizi) a vantaggio dei consociati7.

Lo spostamento dell’attenzione dal bene all’interesse sostanziale e

alle modalità del suo soddisfacimento8 evidenzia la rilevanza dell’indi-

viduazione di una serie di modelli procedimentali che si prestino ad assicurare la gestione partecipata dei beni comuni. Questo terreno è particolarmente scivoloso, anche a causa della molteplicità di regimi

damentali dell’uomo e degli altri diritti funzionali al libero e pieno sviluppo della per- sona umana.

6 In tale prospettiva, si pone evidentemente la questione del legame giuridico con la

lett. m) dell’art. 117 Cost. e la previsione di livelli essenziali delle prestazioni pubbli- che, garantito su tutto il territorio nazionale. Data la necessaria sintesi del contributo, non è possibile soffermarsi su questo aspetto. Basterà ricordare come la Corte costitu- zionale da tempo abbia proposto la distinzione fra i diritti fondamentali in senso stretto e quelli la cui realizzazione è subordinata al bilanciamento da parte del legislatore con le esigenze connesse alla protezione di altri interessi costituzionali, in relazione all’esi- genza di equa distribuzione delle risorse finanziarie disponibili. V. in proposito, per esempio, C. cost., 17 luglio 1998, n. 267, in Foro it., 1999, I, 2792. In dottrina, v., per esempio: V. MOLASCHI, I rapporti di prestazione nei servizi sociali. Livelli essenziali delle prestazioni e situazioni giuridiche soggettive, Torino, 2008; C. TUBERTINI, Pub- blica amministrazione e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. Il caso della tutela della salute, Bologna, 2008; G. PASTORI, Diritti e servizi oltre la crisi dello stato sociale, in AA.VV., Studi in onore di V. Ottaviano, II, Milano, 1993, 1083; F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, Bologna, 1990, 30.

7 In prospettiva non dissimile, v. C. Cass. civ., ss.uu., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Dir. e giur. agr., 2011, 7-8, 473 (con nota di L. FULCINITI), in Giust. civ., 2011, 12, I,

2843 (con osservazioni di L. CIAFARDINI), in Foro it., 2012, 2, I, 564 (con nota di E. PEL- LECCHIA) e in Rass. dir. civ., 2012, 2, 524 (con nota di G. CARAPEZZA FIGLIA). In questa

sentenza, per la prima volta la Suprema Corte ha ancorato la tutela dei beni comuni proprio al valore costituzionale dello sviluppo della persona umana, alla luce del com- binato disposto degli artt. 2, 9 e 42 Cost.

8 In proposito v. anche V. C

ERULLI IRELLI,L.DE LUCIA, Beni comuni e diritti collet- tivi. Riflessioni de iure condendo su un dibattito in corso, in www.labsus.org, 2014: http://www.labsus.org/wp-content/uploads/2014/01/Beni-comuni-finale.pdf (consultato

giuridici che contraddistingue le varie categorie di beni comuni9. Per-

tanto, la linea d’indagine forse più fruttuosa è quella che prende le mos- se non da specifici paradigmi normativi settoriali, ma dal principio ge- nerale per cui la gestione delle risorse al cui sfruttamento aspira l’intera collettività degli utenti, non può prescindere dal coinvolgimento di co- storo nelle scelte strategiche circa il loro utilizzo. Il parametro soggetti- vo di riferimento non può che ricomprendere la cittadinanza in senso ampio, a prescindere dal legame giuridico formale fra i singoli e il

gruppo in cui rientrano10.

1.2. La partecipazione nella gestione dei beni comuni: avvertenze sul- l’ambito di applicabilità

La partecipazione degli utenti nella scelta delle modalità di gestione dei beni comuni assume primario rilievo sul piano metodologico per due ordini di ragioni. Da un lato, consente l’emersione di sensibilità ed esigenze minoritarie o comunque normalmente non rappresentate a li- vello istituzionale. Dall’altro lato, il confronto preliminare fra i vari attori si pone nell’ottica (anche) della prevenzione e della deflazione dei conflitti, il cui rischio è particolarmente elevato nei momenti storici

quali quello attuale in cui la scarsità delle risorse è accentuata11.

9 Gli istituti all’uopo potenzialmente utili sono molteplici e variegati. Si pensi, per

esempio: allo strumento classico della proprietà pubblica (che in realtà non è del tutto estraneo alla dogmatica concettuale dei beni comuni, pur rappresentandola solo par- zialmente); all’istituzione di domini collettivi; alle iniziative di cura diretta del territorio antropizzato da parte dei cittadini/utenti (come la realizzazione di microprogetti di arre- do urbano) e alle attività che i medesimi soggetti svolgono, in forma almeno parzial- mente “autogestita”, per garantire la qualità della convivenza sociale; alla promozione pubblica di attività di associazioni, fondazioni o altri organismi (almeno formalmente) privati. In proposito, v. E. CALICETI, Il regime dei beni comuni: profili dominicali e modelli di gestione, nel presente volume, 63 ss.

10 Sul rapporto fra gestione dei beni comuni e diritti di cittadinanza, v. per esempio,

nella dottrina recente, M. FORONI, Beni comuni e diritti di cittadinanza, Milano, 2014.

11 Il potenziamento della partecipazione popolare nella gestione dei beni comuni

potrebbe rappresentare anche un’opportunità per l’attuazione dei principi dell’attività amministrativa di matrice europea. Ciò, infatti, consentirebbe di rivitalizzare in prospet- tiva democratica il ruolo delle autorità locali, compatibilmente con i principi di apertu- ra, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza promossi nel Libro bianco sulla

Anzi, la valorizzazione del momento partecipativo, a mio parere, può agevolare lo sfruttamento dei beni comuni quale possibile via d’uscita dalla crisi di natura finanziaria, sociale e culturale, che stiamo

vivendo. Tenendo conto dell’origine etimologica del termine12, è possi-

bile coglierne tutte le implicazioni: la “crisi” si profila, come momento di cesura fra una fase e quella successiva, come occasione di cambia- mento. In tale prospettiva, l’assunzione di punti di vista almeno in parte inediti, in relazione ai moduli procedimentali applicabili alla gestione delle risorse connesse al soddisfacimento di interessi condivisi, può contribuire ad ottimizzare il risultato, minimizzando gli sprechi (sia quelli strettamente economici, sia quelli derivanti dai costi dell’azione pubblica più ampiamente intesa).

In altri termini, la chiave sta forse – almeno in parte – nella valoriz- zazione del principio di democrazia in senso ampio e del metodo dialo- gico per cogliere e risolvere i problemi. Se però la partecipazione degli utenti rappresenta certamente un momento essenziale nel processo che conduce alla gestione efficiente delle risorse condivise da una comuni- tà, non sarebbe né realistico né corretto ritenere che all’autonomia della collettività di riferimento possano essere demandate in toto le decisioni sull’individuazione e sulla gestione dei beni comuni. In particolare, non è ragionevole proporre che alla popolazione sia demandata interamente la cernita delle voci di cui deve essere composto il catalogo dei beni

governance europea, pubblicato dalla Commissione nel 2001 (v. atto COM(2001) 428,

reperibile online in lingua italiana all’indirizzo web http://eur-lex.europa.eu/legal-con

tent/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52001DC0428R(01)&qid=1448277987050&from=IT,

consultato il 21 novembre 2015). Sul rilievo del livello europeo per la gestione dei beni comuni, v. F. GIGLIONI, Beni comuni e autonomie nella prospettiva europea: città e cittadinanze, nel presente volume, 151 ss.

12 Può essere interessante ricordare che l’etimologia greca del termine “crisi” risale

al verbo krino (separare, distinguere, giudicare): v. Vocabolario della lingua Treccani, 1986, 1004. Dunque, originariamente il vocabolo non necessariamente configurava un momento problematico contraddistinto esclusivamente da aspetti negativi, ma serviva a segnare una cesura fra una fase e quella, diversa, successiva: ricomprendeva, pertanto, sia il problema, sia la sua soluzione. I molteplici problemi connessi alla definizione del concetto di crisi e alle sue variegate implicazioni sono esaminati, per esempio, in C. COLLOCA, La polisemia del concetto di crisi: società, culture, scenari urbani, in SocietàMutamentoPolitica, 2010, 2, 19 ss.

comuni giuridicamente protetti. È evidente, infatti, che in questo campo un’eccessiva frammentazione sarebbe quanto mai rischiosa: il pericolo risiede sia nella possibile prevalenza di istanze egoistiche da parte dei gruppi radicati in territori particolarmente ricchi, sia nel perseguimento di obiettivi rivolti alla massimizzazione del profitto nell’immediato ma suscettibili di determinare un celere depauperamento e quindi l’esauri- mento della risorsa, con conseguente pregiudizio dell’interesse della comunità generalmente intesa e delle generazioni future. Tuttavia, neanche predisporre una gerarchia degli interessi valida in ogni caso è in realtà possibile, poiché troppe sono le variabili di volta in volta rile- vanti. È indispensabile, invece, individuare un metodo che, al di là della fisionomia dell’assetto degli interessi emergente nella singola fattispe- cie, possa essere utilizzato in modo pressoché costante e uniforme per guidare il coinvolgimento di tutti i soggetti, pubblici e privati, portatori di interessi qualificati o comunque rilevanti.

1.3. Le sollecitazioni provenienti dalla bozza di Carta europea dei beni comuni

Molte considerazioni fin qui espresse trovano conferma nella (bozza di) Carta europea dei beni comuni. Si tratta di un documento redatto nel corso del Seminario The European Charter of the Commons, tenutosi

presso l’International University College in data 2-3 dicembre 201113.

La progressiva privatizzazione del settore pubblico vi è additata co- me una delle cause principali della crisi economico-finanziaria, in par- ticolare poiché ha determinato la «trasformazione dei cittadini in con- sumatori individualizzati, in un costante ed apparentemente inevitabile processo di mercificazione della natura, della cultura e del patrimonio

condiviso»14. L’obiettivo fondamentale è indicato nell’intento «di di-

13 Il documento è reperibile online in http://www.vialiberamc.it/wp-content/uploads /2011/12/Carta-europea-dei-beni-comuni.pdf, consultato il 17 novembre 2015.

14 V. Carta europea dei beni comuni, 4. In base allo schema accolto nella Carta, la

privatizzazione è ammessa solo in casi eccezionali, ove essa appaia strettamente indi- spensabile alla luce di un’attenta valutazione in tal senso da parte dei legislatori (v. 14; v. anche 18). Su questo aspetto, peraltro, emerge uno dei punti più oscuri della Carta europea, secondo la quale, ove la privatizzazione avvenga, deve essere predisposto ex

fendere il benessere comune dell’Europa dalla logica economica dila-

gante che attualmente produce crisi e malessere sociale»15 e il primo

strumento giuridico utile per ottenere buoni risultati è indicato nella «salvaguardia costituzionale dei beni comuni per mezzo di un processo

di partecipazione popolare diretta»16.

Uno spunto di riflessione interessante che emerge dalla Carta ha a che fare con l’atteggiamento ambivalente nei confronti dei circuiti isti-

tuzionali di stampo sovranazionale17. Pare di poter dire che, in base alla

concezione ivi accolta, l’inefficienza o addirittura l’esito spesso contro- producente della gestione delle risorse sono ricondotti all’esistenza di un clamoroso deficit democratico nell’allocazione delle scelte di fondo, che dovrebbero comunque essere improntate alla logica della massi-

mizzazione dell’accesso, anche delle generazioni future18, ai beni co-

muni, indipendentemente dal regime dominicale (pubblico o privato)

che li contraddistingue19.

Un po’ paradossalmente, tuttavia, in varie disposizioni la Carta20 ri-

chiama, più o meno esplicitamente, la necessità che la protezione dei beni comuni sia garantita al livello supremo del diritto europeo. Si rav- visa l’esigenza di operare un vincolo particolarmente stringente nei confronti dei legislatori dei singoli Stati, onde assicurare la tutela del diritto delle popolazioni all’accesso diretto alle risorse. Inoltre, si invita

ante un indennizzo finalizzato al pieno reintegro dei beni comuni (v. 15). Gli interroga-

tivi aperti sono più d’uno. In primo luogo, non è chiarissimo a chi spetti sborsare l’in- dennità, anche se la soluzione più logica è quella in base alla quale l’onere dovrebbe incombere sulle casse dello Stato. Nulla, però, è specificato per quanto concerne i crite- ri per la quantificazione della somma. Infine, il problema più significativo concerne la corretta individuazione dei destinatari dell’indennizzo. Si può forse ipotizzare che si tratti delle popolazioni locali, intese come quelle radicate nel territorio in cui i beni comuni sottoposti a privatizzazione erano suscettibili di produrre le maggiori utilità nel- l’interesse pubblico. Ma non è detto che individuarle con esattezza sia agevole o addi- rittura possibile.

15 V. Carta europea dei beni comuni, 1. 16 V. Carta europea dei beni comuni, 2.

17 Precisamente, la Carta parla dell’inadeguatezza della «semplice pratica intergo-

vernativa»: v. 5.

18 V. Carta europea dei beni comuni, 8. e 10. 19 V. Carta europea dei beni comuni, 11.

la Commissione europea ad assegnare al Parlamento i poteri indispen-

sabili all’esercizio di un incisivo ruolo normativo in materia21. A questo

auspicio di portata generale, si affianca l’invito, più puntuale, all’ema-

nazione di una direttiva incentrata sulla protezione dei beni comuni22.

Ma l’elemento ai fini di questo contributo più interessante concerne l’ampiezza (ovvero, in un’altra prospettiva, la scarsa definizione dei contorni giuridici) della definizione dei beni comuni, che ricomprendo- no sia «beni collettivi», sia «servizi in relazione ai quali un uguale ac- cesso è indispensabile per il soddisfacimento dei bisogni fondamentali

delle persone»23. Il punto basilare della nozione, pertanto, sembra esse-

re riposto nell’intensità dell’interesse delle collettività di riferimento. È evidente, però, che, così individuata, la nozione risulta assai sfumata. Di conseguenza, è prevista la redazione di un elenco e, per assecondare la tensione al dinamismo, che costituisce la cifra caratteristica dei beni comuni quali «istituzioni sociali», si stabilisce che esso debba essere

costantemente aggiornato24.

Nuovamente in modo un po’ contraddittorio, si ritiene che il catalo-

go debba costituire la base per una protezione giuridica irreversibile25;

ne deriverebbe la possibilità di integrare l’elenco solo con delle aggiun- te e non anche, per così dire, per sottrazione. Questa impostazione, tut- tavia, non tiene conto né dell’intrinseca scarsità di alcune risorse (che