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Capitolo I: La questione ambientale in una prospettiva sociologica

3. Sulla nozione di rischio

Di seguito alcune brevi puntualizzazioni sulla nozione di rischio, tratte dalle riflessioni pub- blicate su un volume collettaneo del 2000 (Adam, Beck, Van Loon, 2000) in cui è contenuto un interessante contributo dello stesso Ulrich Beck, una sintesi che raccoglie alcune riflessioni po- stume rispetto alla sua originaria teorizzazione sulla società mondiale del rischio e che raccoglie ed elabora anche molte delle critiche che gli sono state avanzate in quasi due decenni dalla prima pubblicazione tedesca del suo “La società del rischio” (1986).

I rischi, puntualizza Beck, sono qualcosa di altro rispetto alla distruzione (anche perché se i due concetti coincidessero, tutte le compagnie di assicurazione cadrebbero in bancarotta), ma i rischi rappresentano comunque una minaccia di distruzione. “Il discorso sul rischio inizia là do- ve la fiducia nella nostra sicurezza e la fede nel progresso finiscono” (Beck in Adam, Beck, Van Loon, 2000: 213): il concetto di rischio dunque identifica uno stato specifico ed intermedio tra sicurezza e distruzione, in cui è la percezione del rischio a determinare pensieri ed azioni. Per- ciò, in sostanza, sono la percezione e la definizione culturale a costituire il rischio, e la sua ma- terializzazione sociale può essere compresa solo pensando al rischio in termini reali e non vir- tuali. «I rischi non possono essere compresi fuori dalla loro materializzazione in mediazioni specifiche, siano esse scientifiche, politiche, economiche o popolari» (Van Loon in Adam, Beck, Van Loon, 2000: 176)26.

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Ad esempio la questione della encefalopatia spongiforme bovina, meglio conosciuto come “morbo della mucca pazza” connette insieme scienza, politica, cultura e consumo di massa. Questo morbo ha un origine manipolata e digi- talizzata, costruita all’interno di laboratori di ricerca mediante sofisticatissime apparecchiature, la sua rappresentazio- ne è altamente cibernetico-tecnologica Noi consumatori delle immagini che il mondo scientifico ci fornisce non ab- biamo mezzi per verificare l’adeguatezza delle rappresentazioni, nella fattispecie di questa malattia. La semplice pos- sibilità di connettere questa patologia alla banale pratica di consumo della carne bovina ben illustra l’affermazione di Benjamin per cui nell’era della riproduzione meccanica, tutte le esperienze estetiche possono essere politicizzate (Benjamin, citato da Van Loon in Adam, Beck, Van Loon, 2000). Se e quando il rischio di mucca pazza diviene reale dipende direttamente dalla sua mediazione. Nel momento in cui sappiamo che esistono possibili rischi, ci troviamo di fronte ad una responsabilità, che prende la forma di una decisione, e mangiare o meno prodotti bovini è una decisione che tocca noi, i nostri cari e il resto del mondo.

Il concetto di rischio inoltre ribalta la relazione tra passato, presente, futuro. Il passato non è più in grado di determinare il presente, mentre il suo posto viene preso dal futuro come causa dell’esperienza e dell’azione odierne: ma il futuro non esiste, è qualche cosa di costruito e fitti- zio, poiché rappresenta una rappresentazione ipotetica. «I rischi plausibili sono la frusta utilizza- ta per mantenere il ritmo odierno così frenetico e galoppante. Più le ombre che incombono sul nostro presente risultano minacciose - anche sul lungo termine - più convincente è lo shock che può essere provocato dalla drammatizzazione del rischio oggi» (in Adam, Beck, Van Loon, 2000: 214). Questo può essere dimostrato sia con riferimento alla questione ambientale sia al dibattito sulla globalizzazione. Sappiamo come l’avvento della globalizzazione mette a dura prova la territorialità e la sovranità degli stati riducendone l’autorità e depotenziando la possibi- lità dei cittadini di agire unilateralmente o in modo indipendente27. Allo stesso modo viene in- debolita la autonomia economica delle nazioni, che devono sottostare a logiche e politiche commisurate alle dinamiche dei capitali finanziari, altamente mobili e fluttuanti. Stessa sorte per i mercati nazionali, anch’essi denazionalizzati ed inseriti all’interno di logiche internazionali di competizione che penalizzano lo sviluppo interno. L’esempio riportato da Beck (1997b) riguar- da la globalizzazione del lavoro retribuito, che in larga misura per lui non esiste, configurandosi piuttosto come minaccia o, meglio, le istituzioni transnazionali ci minacciano con esso. In Ger- mania, riporta il sociologo, lo scambio tra il costosissimo lavoro europeo e quello asiatico molto economico, raggiunge quasi il 10% del complessivo mercato del lavoro, incidendo negativa- mente soprattutto sulle fasce di popolazione a basso reddito.

I rischi e la loro percezione, almeno in origine, rappresentano le conseguenze involontarie della logica di controllo che domina la modernità. Dal punto di vista politico e sociologico, la modernità è un progetto di controllo sociale e politico portato avanti dagli stati nazione, la par- sonsiana modernità come impresa volta alla costruzione di ordine e controllo, che ha dominato il pensiero sociale e l’attività politica della prima fase della modernità, ma che diviene fittizio ed obsoleto nella società del rischio globale.

I rischi rappresentano degli ibridi28 fabbricati dall’uomo, che comprendono e combinano la sfera politica, l’etica, le scienze hard, i mass media, le tecnologie, le definizioni e le percezioni culturali. E, per comprendere le dinamiche culturali della società del rischio, occorre considera- re questi aspetti senza separarli dalla realtà. Poiché il rischio non è soltanto una nozione utilizza- ta da varie discipline, ma rappresenta anche il modo in cui la società ibrida guarda, descrive, va- luta e critica il suo stesso ibridismo.

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A tal proposito si veda l’intervista a Colin Campbell che sottolinea il progressivo depotenziamento delle ammi- nistrazioni locali e dei cittadini da parte del governo centrale, a sua volta indebolito dalle istituzioni transnazionali, ad esempio gli organi decisionali europei.

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È chiaro qui il riferimento a Latour (1993) e alla sua nozione di mondo come ibrido che trascende la cornice dicotomica di pensiero tradizionale.

Beck si chiede poi se i rischi rappresentino elementi fattuali o valoriali. La risposta è che i ri- schi non sono né elementi puramente fattuali, né puramente valoriali quanto piuttosto entrambi, configurandosi come una specie di “moralità matematicizzata”. «Come nei calcoli matematici (come le stime probabilistiche o gli scenari incidentali) i rischi sono direttamente ed indiretta- mente correlati alle definizioni culturali e agli standard di vita che noi definiamo tollerabili/non tollerabili. Perciò nella società del rischio la domanda che dobbiamo porci è: dove vogliamo vi- vere? Ciò significa soprattutto che il rischio è per natura un elemento che può essere decifrato solo all’interno di una relazione interdisciplinare (competitiva), poiché (l’interdisciplinarietà) assume in egual misura sia intuizioni dal know-how tecnico ma allo stesso tempo (ha) a che ve- dere con le percezioni e le norme culturali» (Beck in Adam, Beck, Van Loon, 2000: 215).

È possibile fornire delle classificazioni di rischio? Beck (1999), Giddens (1990) e Adam (2000) concordano nel delineare una distinzione tra rischio fabbricato (manufactured) e rischio derivante da un pericolo naturale, dunque tra disastro tecnologico e disastro naturale. In realtà tale distinzione è piuttosto controversa perché le due dimensioni tendono ad interpenetrarsi. Nel caso di disastro tecnologico ad esempio, quasi sempre si scatenano con esso anche forze naturali distruttive29, essendo molto spesso le forze naturali “imbrigliate” dalla tecnologia umana (Tur- ner, 1978). Un disastro naturale può invece essere indotto involontariamente dalla mano dell’uomo: la gravità di un evento naturale dipende dal grado di vulnerabilità oppure di sicurez- za e resilienza con cui una comunità umana è stata costruita, e a loro volta vulnerabilità o resi- lienza dipendono in larga misura dalla percezione collettiva erronea o accurata del rischio e del- la sicurezza (si veda il capitolo VIII). La natura può creare disturbi e shock esterni, ma allo stes- so tempo sono le comunità che producono socialmente più o meno vulnerabilità nel corso delle attività quotidiane (economiche, sociali, etc.) e delle pratiche di pianificazione e gestione del territorio30. La questione centrale rispetto alla costruzione della vulnerabilità o della resistenza ai disturbi esterni è ancora una volta riconducibile al riconoscimento e alla percezione del rischio. Turner (ibidem) si è occupato di quelli che sono gli ostacoli sociali, culturali e tecnici alla cor- retta percezione del pericolo durante quella fase che l’autore definisce “l’incubazione al disa- stro”, chiedendosi quale sia l’elemento che dissuade le persone dall’acquisire ed utilizzare in- formazioni ed avvertimenti appropriati, in modo da prevenire incidenti e disastri di varia natura. Sempre seguendo l’autore, esistono due ordini di fattori distinti: mancanza di lungimiranza e fallimento della lungimiranza, che Turner tende a fare convergere. La prima mancanza è dovuta alla limitata capacità umana di comprendere e predire alcune specifiche dinamiche della natura. Il fallimento della lungimiranza invece si verifica ogni qualvolta le indicazioni sul rischio non vengono riconosciute o prese sufficientemente in considerazione.

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Pensiamo ai disastri nucleari e alle conseguenze che essi provocano a livello naturale, sul breve e sul lungo pe- riodo, creando una lunga catena di effetti retroattivi.

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Si pensi ad esempio agli enormi danni portati dalla recente alluvione in Maremma, o a quella ligure dello scor- so anno.

Seguendo il profilo della società del rischio, il nostro attuale modello di sviluppo contribui- sce ad incrementare i rischi materiali e la loro percezione, ed i rischi, ci dice Beck, smentiscono quella che potremmo definire una “crescita giusta e veloce” (Beck, 1992a). Si potrebbe pensare che più grandi e minacciosi sono i rischi, più essi sono riconosciuti e conosciuti. Ma sono molti gli studiosi che ipotizzano il contrario: «la resistenza alla comprensione della minaccia aumenta in relazione alla dimensione e alla prossimità di tale rischio. Le persone colpite o minacciate più duramente spesso sono proprio quelle che negano il pericolo con più convinzione» (Beck, 1995a: 3). Per Nye (1998) questo accade poiché una popolazione viene intrappolata nelle infra- strutture materiali che ha costruito e dai cui è dipendente, e ciò influenza le aspettative e le opi- nioni personali su ciò che è normale e ciò che è possibile. Le pratiche consolidate (anche quelle eco-incompatibili) rispetto all’ambiente sono funzionali e necessarie alla continuazione degli stili di vita, ma al tempo stesso possono renderci miopi rispetto al riconoscimento di “disturbi anormali” che già affliggono o si affacciano alla società. La relazione tra rischio percepito e ri- schio materiale è una questione significativa e problematica ed è essenziale indagarla (Redclift, Woodgate, 2010), poiché la mancata corrispondenza tra il rischio percepito, inteso come costru- zione sociale, ed il pericolo materiale effettivo può contribuire ad accrescere la vulnerabilità sul lungo periodo (Etkin, 1999: 69).

Esiste una distinzione analitica tra gli approcci che considerano il rischio come un attributo fisico delle tecnologie e gli approcci che assumono il rischio come un attributo socialmente co- struito, sottolineando come l’identificazione, la stima e la percezione del rischio non possano mai essere esenti dal valore (Bradbury, 1989). Seguendo Dietz, Frey e Rosa (1992) si possono rintracciare tre principali filoni di studio del rischio nelle scienze sociali. Il più importante ap- proccio allo studio del rischio e alla sua percezione rimane quello socio-psicologico e all’interno di esso il filone psicometrico. Slovic e gli studiosi a lui vicini sono noti per la loro analisi dei processi cognitivi che guidano le differenti percezioni degli esperti e dei “profani” nella valuta- zione del rischio (si vedano ad esempio Fischhoff et al.,1981; Slovic, 1987). Il secondo approc- cio è quello incarnato dagli studi di Mary Douglas e Aaron Wildavsky di matrice culturale o an- tropologica, secondo i quali la selezione del rischio da parte della società è un processo socio- culturale che difficilmente dipende dall’oggettività del rischio stesso. In particolare la Douglas e Wildavsky (1982) sottolineano l’influenza esercitata dai diversi sistemi valoriali dei gruppi so- ciali nella percezione del rischio, e le conseguenti strategie messe in campo per farvi fronte. Sul- la stessa linea analitica si collocano altri contributi come quelli della stessa Douglas (1986), o di Schwarz e Thompson (1990) incentrati sul ruolo della cultura nella percezione del rischio. Su questo approccio si colloca la terza prospettiva sociologica, nata come critica ai tradizionali mo- delli socio-psicologici e alla loro scarsa attenzione al contesto sociale ed istituzionale in cui la percezione del rischio si plasma. La tendenza degli studi odierni è quella di tenere fortemente in considerazione lo sviluppo delle istituzioni moderne e i processi sociali che danno forma agli

atteggiamenti verso i rischi, come nel caso di Beck e Giddens e della loro analisi della relazione tra il rischio (in particolare, la minaccia di un’ecocatastrofe) e l’affermazione della modernità riflessiva.