STUDIO DEI BENI CULTURALI
Quaderni di Scienza della Conservazione
Diana Agostinello
le meno energiche fino a 900 nm (zona dell’infrarosso) per le emulsioni infrarosse nor- mali e fino ad un massimo di 1300 nm per le emulsioni speciali.
2. La fluorescenza ultravioletta
È un fenomeno visibile ad occhio nudo oltre che una tecnica fotografica; quasi tutti i materiali organici usati per l’esecuzione pittorica e per il restauro, se eccitati da una sor- gente luminosa UV, manifestano dei colori di fluorescenza di debole intensità.
L’impiego di questa tecnica è molto utile per la differenziazione dei pigmenti e dei leganti che creano delle interazioni chimiche formando dei composti molecolari fluore- scenti in seguito all’invecchiamento.
Una sorgente luminosa di radiazioni UV emette anche altre radiazioni visibili che potrebbero interferire e confondere la fluorescenza riflessa dall’oggetto eccitato. È necessario perciò filtrare la sorgente UV sbarrando l’UV riflesso e consentendo così il passaggio alle sole radiazioni visibili.
Nella registrazione fotografica, vista la debole intensità della luce riflessa, è preferibi- le utilizzare delle pellicole a colori daylight ad elevata sensibilità con tempi di posa piut- tosto lunghi; i filtri gialli della Kodak (Wratten 2B, Wratten 2A, Wratten 12, Wratten 15) per bloccare il passaggio dell’UV riflesso.
3. L’infrarosso in falsi colori
Questa tecnica fotografica sfrutta la possibilità di registrare una differente risposta dei materiali usati nella pittura rispetto a ciò che è possibile discernere ad occhio nudo.
Ci consente di vedere immediatamente sotto lo strato pittorico, spesso offuscato dal- l’invecchiamento delle vernici.
A causa dell’offuscamento conseguente al fenomeno di diffusione della luce (scatte- ring) provocato dalle particelle, si utilizzano radiazioni di lunghezza d’onda maggiore come quelle IR che si registrano fotograficamente: si otterrà così un’immagine più nitida del dipinto. L’infrarosso in falsi colori consente una parziale possibilità di caratterizzare vari pigmenti.
Pigmenti di composizione chimica differente che a luce visibile riflettono lo stesso colore, quando sono fotografati all’infrarosso in falsi colori, restituiscono una colorazione diversa dipendentemente dalla loro composizione chimica.
Ciò diventa molto utile in una prima identificazione dei materiali usati per l’esecuzio- ne pittorica.
L’infrarosso riflesso non è visibile all’occhio umano, perciò nella ripresa fotografica si utilizza una pellicola sensibilizzata in maniera selettiva al verde, al rosso e all’infrarosso (Kodak Ektachrome Infrared), strati tutti e tre sensibili alla luce blu che deve essere bloc- cata da un filtro giallo (Wratten 12).
Si utilizzano inoltre dei filtri per correggere la cromaticità dell’immagine che altrimen- ti risulterebbe con una dominante troppo rossa; nello specifico i filtri Kodak W CC 50 cyan, Kodak W CC 20 cyan, Kodak W CC 30 magenta.
Questa emulsione è sensibilizzata fino a 900 nm.
La sorgente luminosa utilizzata è una lampada per luce visibile con filamento di tung-
steno contenente quantità sufficiente di radiazioni IR.
4. La riflettografia infrarossa
La riflettografia infrarossa è un’indagine di tipo ottico che, sfruttando le radiazioni I.R., consente di superare lo strato della pellicola pittorica in maniera più approfondita rispet- to alla fotografia all’infrarosso.
Sfruttando il potere coprente dello strato pittorico e la sua capacità di riflettere in maniera diffusa (scattering) la radiazione che lo colpisce, tale tecnica consente di rende- re trasparente il primo strato fino a rivelare un disegno preparatorio tracciato immediata- mente sotto, un pentimento o addirittura un dipinto sottostante a ciò che ci appare ad occhio nudo.
La riflettografia infrarossa utilizza una telecamera (con dispositivo vidicon) provvista di un sistema di filtraggio, che raccoglie le radiazioni I.R. (fino a circa 2200 mµ) e resti- tuisce l’immagine su un monitor B/V che a scopo documentativo potrà essere fotografa- to.
La sorgente luminosa è costituita da una lampada per luce visibile a filamento di tung- steno, già ricca di radiazioni IR.
La qualità dell’immagine ottenuta dipende dal grado di contrasto del disegno e dallo spessore del film pittorico.
Bibliografia
MATTEINI M., MOLES A. 1984, Scienza e Restauro. Metodi di indagine, Ed. Nardini, Firenze.
LORUSSO S., SCHIPPA B. 1992, Le metodologie scientifiche per lo studio dei beni cul- turali, Ed. Bulzoni, Roma.
FROVA A. 1984, Luce colore e visione, Ed. Riuniti, Roma. VOOGEL, KEYZER 1984, Filtri e lenti, Edizioni A. Curcio. ASTRUA M. 1987, Principi di fotocromia, Ed. Zeta’s.
MANNAIOLI A. 1995, Tecniche di indagini non distruttive su opere d’arte: riflettografia infrarossa, “Il Giornale delle prove non distruttive. Monitoraggio e Diagnostica”, 2, 69- 71.
MANNAIOLI A. 1995, Tecniche di indagini non distruttive su opere d’arte: riflettografia infrarossa, “Il Giornale delle prove non distruttive. Monitoraggio e Diagnostica”, 3, 54- 56.
LORUSSO S. 2002, La diagnostica per il controllo del Sistema: Manufatto-Ambiente. Alcune applicazioni nel settore dei beni culturali, Bologna, Pitagora.
LORUSSO S. 1998, La diagnostica nel settore dei beni culturali, Ravenna, Longo Editore.
L
Introduzione
Le concezioni di restauro e conservazione dei manufatti architettonici
La “Carta internazionale del restauro” o “Carta di Venezia” del 1964 è, insieme con il documento del 1972, fra le normative fondamentali ai fini della prassi del restauro della seconda metà del Novecento. La prima, redatta nell’ambito del “II Congresso Interna- zionale degli architetti e tecnici dei monumenti storici”, estende la nozione di monumen- to all’ambiente circostante – sia urbano sia paesistico – nonché all’edilizia “minore”. La carta inoltre dà la definizione di “conservazione” intendendola come l’insieme di atti fina- lizzati alla salvezza dell’opera, in cui ha un ruolo di primo piano la “manutenzione ordi- naria”. Il restauro è considerato un intervento che andrebbe limitato alle eccezioni e attua- to per mezzo di metodologie scientifiche, sempre rispettando i caratteri storico-estetici [1].
Nella Carta del 1972, all’“Allegato B” si riportano le istruzioni sugli interventi di restau- ro architettonico:
– la finalità del restauro è esclusivamente la conservazione;
– l’intervento deve mirare, in osservanza dello scopo suddetto, a restituire la funziona- lità all’edificio;
– devono essere evitate le rimozioni;
– le parti integrate devono essere riconoscibili;
– le tecniche ed i materiali da utilizzare devono essere di preferenza quelli sperimenta- ti e consigliati dall’Istituto Centrale del Restauro, o comunque collaudati.
Per quanto riguarda l’integrazione, si opera una distinzione fra monumenti classici e post-classici: nel primo caso, in particolare, si deve ricorrere all’utilizzo di materiali este- ticamente compatibili, operando con esecuzioni in “sottosquadro”1. Si consiglia, inoltre,
al fine di mitigare l’effetto dei nuovi materiali, di “scalpellare o rigare” le nuove parti. Il materiale consigliato per integrare e consolidare è il cemento, rivestito in superficie da polvere di materiale lapideo simile a quello originario.
Infine, è fatto cenno all’influenza delle condizioni climatiche e degli inquinanti respon- sabili del degrado dei monumenti, quindi allo stretto rapporto manufatto-ambiente, ma senza riferimento alle cause specifiche di danno e alla loro prevenzione [1].
Dalla affermazione teorica dell’importanza fondamentale della prevenzione ai fini della conservazione [2] discende la metodologia di intervento che fa riferimento alla
Maria Teresa Gentile
Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali,
Alma Mater Studiorum Università di Bologna (sede di Ravenna)