Negli ultimi anni i flussi migratori che a ondate successive hanno coinvolto diversi stati europei hanno evidenziato in modo macroscopico una sfida pedagogica sino ad oggi trascurata: le classi multiculturali. L’accentuarsi dell’eterogeneità socio- culturale presuppone un adeguamento metodologico ma con uno sguardo sempre attento al percorso pedagogico e politico-istituzionale compiuto e da compiersi per la costruzione di una scuola realmente democratica e inclusiva.
Dagli studi di tipo comportamentista al cognitivismo sino al costruttivismo socio- culturale si assiste alla progressiva centralizzazione dell’azione educativa sul valore della persona e l’avvio di un processo di personalizzazione dei percorsi di insegnamento-apprendimento che continua a ridefinirsi e specificarsi, non senza contraddizioni. Comprendere la storia e le caratteristiche individuali, familiari, culturali e sociali dei bambini figli di migranti è fondamentale per accompagnarli nel percorso di apprendimento e di inclusione scolastica. Ma è anche il presupposto per il passaggio dell’atto educativo da una prospettiva istruttiva ad una realmente formativa. I bambini immigrati rappresentano una risorsa per l’educazione all’alterità e per praticare in classe l’universalità dei diritti di cittadinanza.
Il processo di personalizzazione riflette gli orientamenti europei per la costruzione di una società dell’informazione e della conoscenza. Nel documento stilato a Lisbona nel 2000 si legge che l’Europa, per diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo deve “modernizzare il modello sociale europeo, investendo nelle persone e combattendo l'esclusione sociale”. Nelle Raccomandazioni del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2006 la competenza
sociale e civica viene inserita tra le otto competenze chiave «necessarie per la realizzazione personale, la cittadinanza attiva, la coesione sociale e l’occupabilità in una società della conoscenza».
L’attenzione delle politiche educative per il riconoscimento e il rispetto delle differenze porta la scuola ad interrogarsi sulle pratiche di mediazione pedagogica all’interno dei gruppi classe. Cosa fare affinché ogni alunno sviluppi la capacità di comunicare in modo costruttivo, sia tollerante, esprima e comprenda diversi punti di vista, sia in grado di collaborare, apprezzare la diversità e rispettare gli altri superando pregiudizi e negoziando accordi? Come può la scuola «allenare a vivere e a convivere»? (Delors, 1996).
Umberto Eco, intervistato dal programma Tgr Mediterraneo nel 1997, in occasione di un convegno all’Istituto Grenoble di Napoli, dice: «L’intolleranza è l’incapacità
di regolare la nostra naturale e biologica reazione al diverso. Si fonda sulla mancanza di educazione. Tolleranti non si nasce, ci si educa. La diversità deve essere compresa e contrattata. Educare alla diversità significa educare alla flessibilità». L’educazione alla diversità comporta anzitutto il potenziamento di una
funzione esecutiva specifica: la flessibilità cognitiva. Si tratta di sviluppare la capacità di decentrarsi, cambiare prospettiva, assumere il punto di vista dell’altro, modificare un’idea su qualcosa o qualcuno.
Ma l’educazione alla diversità richiede anche lo sviluppo di competenze sociali che non possono maturare negli angusti spazi delle discipline o dei progetti extracurricolari. La competenza sociale si riflette nella figura dell’insegnante- mediatore, importante modello di relazioni interpersonali, e può essere agita nelle attività di apprendimento cooperativo. Nei contesti di apprendimento la sfida della diversità si può assumere attraverso due approcci a mediazione sociale: il metodo dell’apprendimento cooperativo, a mediazione sociale, e i metodi di educazione cognitiva, a mediazione dell’insegnante. Gli studenti miglioreranno le loro competenze relazionali nel gruppo quanto più l’insegnante sarà mediatore; viceversa l’insegnante sfumerà sempre più il grado di mediazione quanto più il gruppo svilupperà abilità sociali tali da consentire agli individui di migliorare i propri processi cognitivi grazie al contributo di tutti. L’apprendimento cooperativo «ha lo scopo di realizzare nell'ambito della scuola un intervento in grado di rispondere alle
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esigenze non solo di apprendimento ma anche di educazione sociale dei ragazzi e alle richieste educative che hanno origine dalle profonde trasformazioni che investono l'attuale società a tutti i livelli» (Comoglio, Cardoso, 1996). Utilizza il piccolo gruppo e l’interdipendenza positiva tra i suoi membri per favorire lo sviluppo di abilità cognitive e relazionali. Attraverso il lavoro cooperativo svolto in maniera corretta gli alunni massimizzano l’apprendimento proprio e quello degli altri, migliorando le relazioni con i compagni e con l’insegnante (Johnson, Johnson e Holubec, 1996).
I programmi e i metodi di educazione cognitiva si propongono di «offrire ai bambini la capacità di cavarsela in ogni situazione, la sicurezza di saper trovare le risorse per superare le condizioni più ostili e difficili, la creatività per inventarsi soluzioni anche quando un problema sembra insolubile» (Laniado, 2003, p.7) abituando alla ricerca di strategie flessibili di fronte a problemi nuovi e complessi. Attraverso la mediazione della differenziazione psicologica, del senso di condivisione, di appartenenza, del pensiero ottimistico il mediatore offre gli strumenti per comprendere, scegliere, aprirsi al nuovo senza timore ma con fiducia, curiosità e flessibilità (Laniado, 2003).
Sfruttare le sinergie e le complementarietà tra l’apprendimento cooperativo e i programmi che sviluppano competenze cognitive significa sperimentare nuovi modi di agire sul pensiero e rispondere pienamente ai bisogni formativi e di coesione sociale della società dell’informazione e della conoscenza.
Capitolo secondo
Tra intelligenza ed emozione: il Programma di
Arricchimento Strumentale di R. Feuerstein
“Niente è più pratico di una buona teoria” (Kurt Lewin)
La scelta di proporre il metodo Feuerstein in uno studio sul miglioramento della prestazione scolastica in alunni di Scuola Primaria nasce dalla sua forza euristica e didattica. Si tratta di un programma coerente e completo che integra, sistematizza e armonizza al proprio interno diversi approcci: cognitivo, metacognitivo e psicosociale. La sua forza risiede nel duplice intento: intervenire sulle funzioni cognitive e metacognitive carenti o deficitarie e stimolare la componente affettivo- motivazionale dell’apprendimento attraverso la cura della relazione educativa.
In questo capitolo illustreremo com’è nato il programma, i presupposti teorici e la sua articolazione. Ci soffermeremo in particolare sui criteri metodologici trasferibili in ambito scolastico e integrabili nel curricolo.
2.1 Chi è il prof. R. Feuerstein e le origini del suo programma
Nato in Romania nel 1921 e morto a Gerusalemme il 29 aprile 2014, Reuven Feuerstein è stato uno dei padri della psicopedagogia contemporanea.
In un’intervista rilasciata a La Stampa e pubblicata il 27 ottobre 1999 dice: «Ho
imparato a leggere a tre anni, e subito mi sono trovato nella condizione di insegnare agli altri a leggere e scrivere. A otto anni mi è stato affidato un allievo di quindici anni che non riusciva ad imparare niente. Suo padre mi disse: ti prego aiutalo perché non posso morire se non impara a leggere il kaddish (la preghiera che i figli recitano quando seppelliscono i genitori). Sin da ragazzo ho insegnato in situazioni impossibili…».
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Dopo la laurea in psicologia a Bucarest si trasferisce a Ginevra dove studia con Jean Piaget. Feuerstein, ebreo rumeno, scampa ai campi di concentramento nazisti e arriva in Israele dopo la guerra, tra il 1945 e il 1948, dove si occupa come psicologo dei bambini sopravvissuti all’Olocausto. Questi bambini non solo presentavano un funzionamento cognitivo deficitario e gravi problemi di apprendimento, ma non mostravano alcun spiraglio di apertura alla vita. I traumi e il dolore provati li rendevano “impenetrabili”. È stata questa l’esperienza cruciale che ha portato Feuerstein all’elaborazione dei principi cardine del metodo. Non bastava lavorare sulle funzioni cognitive trasversali che sottostanno agli apprendimenti carenti, occorreva creare le condizioni per la ricostruzione del senso di competenza e di autostima di questi bambini, suscitare emozioni, sentimenti e progetti che li aiutassero ad affrontare con ottimismo e fiducia le sfide della vita (Vanini, 1999). I risultati incoraggianti ottenuti con i bambini scampati all’Olocausto portarono Feuerstein alla formulazione dell’assunto che sta alla base di tutta la sua psicopedagogia: l’uomo è strutturalmente modificabile (Feuerstein et al., 1995)ma il cambiamento può avvenire solo all’interno di un contesto relazionale stimolante dal punto di vista affettivo-motivazionale. Iniziò così la sistematizzazione teorica e metodologica del Programma di Arricchimento Strumentale (PAS).
Successivamente fu incaricato dal governo del nuovo Stato ebraico di valutare le difficoltà di adattamento dei bambini immigrati che a ondate successive arrivavano in Israele da regioni particolarmente arretrate, per avviarli a un percorso scolastico e di integrazione sociale. Prima i marocchini, poi gli yemeniti e negli ultimi anni gli etiopi.
Nel 1965 ha fondato a Gerusalemme l’unità di ricerca che diverrà poi l’Istituto Hadassah-Wizo-Canada, e nel 1993 l’Icelp (International Center for the Enhancement of Learning Potential), attualmente denominato The Feuerstein Institut, dove ogni anno viene valutata la capacità di apprendimento di un migliaio di bambini con handicap e disturbi neurologici o mentali provenienti da tutto il mondo.
Oggi il metodo Feuerstein è applicato da migliaia di insegnanti per migliorare le prestazioni scolastiche di giovani svantaggiati (Gouzman & Kozulin, 2011) nella didattica per i portatori di handicap (Kozulin, Lebeer, Madella-Noja, Gonzalez, Jeffrey, Rosenthal and Koslowsky, 2010; Schnitzer, Andries, Lebeer, 2007), nella
formazione degli adulti (Kloppers & Grosser, 2010; Mahlberg, 2007) e nella riabilitazione cognitiva degli anziani (Feuerstein R., Falik, Feuerstein R.S., Cagan, Yosef, Rosen, Volk, 2012).