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6. ALTRI METODI D’INTERVENTO

6.2 Open Dialogue

Il termine “Open Dialogue” viene usato per la prima volta nel 1996 per descrivere un trattamento centrato sulla rete sociale e la famiglia del paziente. Questo approccio ideato da Seikkula, psicologo finlandese, nasce per evitare il ricovero ospedaliero ai pazienti che sono al primo episodio di psicosi. Ha di particolare il fatto che un’equipe multidisciplinare (psichiatra, psicologo, assistente sociale, infermiere), fin da subito, coinvolge nel processo di trattamento la famiglia e la rete sociale del paziente (colleghi di lavoro, amici, vicini di casa e via dicendo). L’equipe deve intervenire entro

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24 ore dalla richiesta e prendersi la responsabilità di seguire il paziente fino alla fine del trattamento. La scelta di intervenire subito è per il fatto di prevenire l’ospedalizzazione, in quanto già dopo pochi giorni le voci spariscono e diventa più difficile lavorare su di esse se non dopo diversi mesi di terapia individuale (Romme & Escher, 2012).

Quindi, viene combinato un incontro entro le 24 ore, preferibilmente in casa del paziente. Tutti partecipano alla prima riunione, “treatment meeting”, incluso il paziente. Anche se i suoi commenti nei primi meeting possano sembrare incomprensibili, dopo un po’ di tempo, emerge che in realtà si riferivano ad esperienze di vita traumatiche. In altre parole, le voci del paziente parlano del suo trauma. Un trauma che fine a quel momento era rimasto nel silenzio. L’obiettivo, infatti, è quello di far parlare il paziente delle proprie esperienze, che prima di allora non erano state verbalizzate, nel contesto di un dialogo aperto con professionisti, famiglia e rete sociale (Romme & Escher, 2012). Ci sono dodici elementi chiave, dicono Olson et al. (2014), che descrivono l’approccio del terapeuta nei confronti del paziente e di tutti gli altri presenti alle riunioni di trattamento (famigliari e rete sociale):

. Due o più terapeuti: Ci dovrebbero essere almeno due terapeuti per meeting. Uno che guida il colloquio e l’altro che ascolta e riflette.

. Partecipazione dei famigliari e/o dei membri della rete sociale: Il confronto con i famigliari e la rete sociale del paziente ha inizio sin da subito, fin da quando il clinico, che viene contattato, chiede alla persona una serie di informazioni necessarie per combinare il primo incontro. Laddove il paziente non desiderasse la presenza di alcuni famigliari per una serie di ragioni (ad esempio, casi di abuso sessuale), l’equipe può decidere di incontrarli separatamente. In tal senso, possono avere luogo degli incontri in assenza di famigliari o membri della rete sociale, in cui si pongono delle domande al soggetto e si chiede come avrebbe potuto rispondere un certo membro (della famiglia o della rete sociale) se fosse stato presente in quel momento.

.Uso di domande a risposta aperta: Nel primo colloquio, una volta fatte le presentazioni, si apre il dialogo con due prime domande, come proposto da Andersen (1991): “Da dove viene fuori l’idea di venire qui oggi?” e ”Come vorreste usare questa riunione?”, citato da Olson et al (2014).

La prima domanda viene solitamente posta all’inizio del primo colloquio, ma può essere posticipata a seconda della situazione. È comunque importante dare la possibilità ad ogni membro di discutere le proprie idee sull’incontro.

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Anche la seconda domanda viene posta al primo colloquio, ma a differenza della prima viene posta anche nei colloqui successivi in modi diversi. Il motivo di questa domanda è il fatto che devono essere i membri e non i professionisti a determinare il contenuto dell’incontro, a scegliere quale sia l’obiettivo. E tutti devono avere la possibilità di poter rispondere.

Dopo queste due domande, tutte le altre saranno rivolte con la stessa modalità. In quanto attraverso le domande aperte, i terapeuti guidano il dialogo e lasciano che siano i partecipanti a prendere l’iniziativa sull’argomento da discutere.

.4 Rispondere alle cose dette dai clienti: Il terapeuta per promuovere il dialogo, generalmente, usa tre modi diversi per rispondere alle cose dette dal cliente:

1) Risponde usando le stesse parole dette dal cliente;

2) e il fatto di rispondere con le stesse parole dovrebbe portare il cliente a raccontare cose che non aveva mai detto prima e che il terapeuta non si sarebbe mai aspettato di sentire (“ascolto responsivo”);

3) inoltre, il terapeuta cerca di sintonizzarsi sulla comunicazione non verbale del cliente, sul suo linguaggio corporeo, compresi i silenzi. In quanto possono diventare motivo di dialogo.

5. Enfatizzare il momento presente: Il terapeuta cerca di enfatizzare il momento presente, cioè quello che accade durante l’incontro. E lo fa, focalizzando la sua attenzione sulle reazioni immediate del cliente e di conseguenza osservando le emozioni che emergono nel qui ed ora.

6. Sollecitare punti di vista molteplici – “polifonia”: il dialogo dovrebbe consentire uno scambio creativo tra molteplici punti di vista e voci, cioè consentire una polifonia. La polifonia può essere di due tipi: esteriore e interiore. In quella esteriore il terapeuta coinvolge tutti i partecipanti al dialogo, tutti devono avere la possibilità di parlare. In quella interiore il terapeuta ascolta i molteplici punti di vista e le voci del cliente.

7. Creare un focus relazionale nel dialogo: Il terapeuta si focalizza sulla relazione, ponendo domande volte a comprendere il contesto relazionale nel quale si è sviluppato il sintomo o problema (i rapporti in famiglia e con la rete sociale). Le domande focalizzate sulla relazione devono coinvolgere tutti i partecipanti, in modo da definire con chiarezza quale sia il contesto relazionale del cliente.

8. Rispondere ai problemi dialogici e comportamentali attribuendo loro un significato: Il terapeuta cerca di normalizzare l’esperienza traumatica che viene riportata dai partecipanti nel dialogo. I

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sintomi o i comportamenti problematici che vengono riportati, anziché essere considerati sbagliati, sono descritti dal terapeuta al partecipante come una reazione normale ad un’esperienza traumatica. 9. Enfatizzare le parole stesse e le storie dei clienti, non i sintomi: Il terapeuta enfatizza parole o parti del discorso espresse dal partecipante nel raccontare la propria esperienza. Quindi, attraverso questa enfasi posta sulle parole stesse del partecipante, lo invita a parlare delle proprie esperienze, sensazioni e pensieri, anziché fare un elenco di sintomi.

10. Conversazione tra professionisti nella riunione di cura: processo riflessivo, presa di decisioni

di cura e richiesta di commenti: La conversazione tra professionisti e famiglia si divide in tre parti,

dove la prima è dedicata al processo riflessivo, cioè il momento in cui i terapeuti discutono tra loro davanti al cliente e ai famigliari. Quindi, momento in cui riflettono sulle proprie impressioni e idee personali. La seconda parte è dedicata al piano di trattamento e nella terza parte, invece, sono i famigliari che commentano la discussione fatta dai professionisti. Quindi, i terapeuti dopo aver comunicato le loro riflessioni, lasciano ai famigliari lo spazio per poter dire che cosa ne pensano a riguardo.

11. Essere trasparenti: Il programma di cura discusso prima tra i professionisti deve essere poi condiviso con tutti i partecipanti coinvolti nella riunione.

12. Tollerare l’incertezza: Significa che i terapeuti non devono mostrare alcuna certezza sulla natura della crisi e nemmeno dovrebbero essere affrettati nel proporre un piano di trattamento. È importante, invece, fare in modo da aumentare il senso di sicurezza tra i famigliari e il resto della rete sociale e sulla base di questa sicurezza creare un dialogo. In tal senso, fin dal primo incontro si cerca di stabilire un contatto con ciascun partecipante coinvolto, in modo da creare con loro un rapporto basato sulla fiducia.

L’efficacia dell’open dialogue è stata valutata in studi di follow-up per pazienti al primo episodio psicotico. Romme (2012) illustra, brevemente, quali sono i risultati ottenuti da questi studi svolti nella parte occidentale della Lapponia, in Finlandia. I risultati, dunque, messi a confronto con quelli ottenuti da un gruppo di pazienti sottoposti ad un trattamento tradizionale, sono promettenti (Seikkula & Arnakil, 2006), citato da Romme & Escher (2012). Pazienti con diagnosi di schizofrenia hanno avuto molte meno ospedalizzazioni con l’open dialogue rispetto al gruppo di controllo, parliamo di una media di quattordici giorni per persona rispetto ad un numero di oltre centodiciassette giorni in un periodo di due anni. Solo un 33 % dei pazienti trattati con l’open dialogue ha usato i neurolettici, rispetto ad un 100 % del gruppo di controllo. Confrontando gli

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dalla crisi. Tuttavia, c’è stata almeno una ricaduta nel 71 % dei casi da parte del gruppo di controllo, rispetto ad un 24 % dei casi trattati con l’open dialogue. Circa l’81 % è tornato alla propria vita quotidiana (lavoro, studi, o ricerca attiva di un lavoro), rispetto ad un 43 % dei pazienti del gruppo di controllo. I risultati ottenuti con l’open dialogue si sono mantenuti positivi per un follow-up della durata di cinque anni (Seikkula et al., 2006), citato da Romme & Escher (2012).

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