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Affrontamento delle voci ed elaborazione del trauma: un nuovo approccio terapeutico

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina

Corso di laurea magistrale in Psicologia clinica e della salute

“Affrontamento delle voci ed elaborazione del trauma: un

nuovo approccio terapeutico”

CANDIDATO

Daniel Gaetano Barone

UNIVERSITÁ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina

Corso di laurea magistrale in Psicologia clinica e della salute

“Affrontamento delle voci ed elaborazione del trauma: un

nuovo approccio terapeutico”

R

el Gaetano Barone Dott. Stefano Carrara

Anno Accademico

2018/2019

1

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di laurea magistrale in Psicologia clinica e della salute

“Affrontamento delle voci ed elaborazione del trauma: un

RELATORE

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INDICE

Riassunto………... 6

Premessa………. 7

1. PERCHÉ VOCI E NON ALLUCINAZIONI UDITIVE……… 11

2. CENNI DI NEUROBIOLOGIA DELLE VOCI……….. 21

3. IL PROFILO DELLE VOCI E LA LORO RELAZIONE CON IL TRAUMA... 24

3.1 Profilo delle voci………... 25

3.2 Relazione tra trauma e voci………... 30

4. AFFRONTAMENTO……….. 36

Il primo colloquio………... 36

Il secondo colloquio……….. 38

Il terzo colloquio……….……….. 39

4.1 Entrando nel vivo del processo di affrontamento………..……….. 40

La libertà………..………. 40

La responsabilità………..……… 41

La storicità……… 42

4.2 Le ultime domande di approfondimento………..……… 43

4.3 L’affrontamento è una tecnica ed una strategia………..……… 44

4.4 La strategia d’affrontamento……….……… 44

4.5 La strategia apre alla comunicazione………. 46

4.6 Casi d’affrontamento………..……… 48

Primo caso………. 48

Secondo caso………. 50

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5. DARE UN SENSO ALLE VOCI……….……… 52

Prima fase……… 52 Seconda fase……….………… 53 Terza fase……….……… 53 5.1 Intervista……… 53 Prima parte………..……… 54 Seconda parte………..……… 55 Terza parte………..……… 55 Quarta parte……… 56 Quinta parte……….……… 57 Sesta parte……… 57 Settima parte……… 58 Ottava parte………..……… 58 Nona parte……….……… 59 Decima parte………. 60 Undicesima parte………. 60 Dodicesima parte………. 60 5.2 Report……… 60 5.3 Costrutto……….……….. 61

5.4 Le tecniche a breve termine……….………… 62

5.5 Le tecniche a medio termine……… 63

La normalizzazione……….………. 64

La focalizzazione……….………. 64

Intervento sulle convinzioni………. 65

Incremento delle strategie di fronteggiamento………..………. 66

Riacquisire autorità nella propria vita………. 67

Schema di intervento socio-psichiatrivo di Romme & Escher………..………. 67

Dialogo con le voci……….………. 69

5.6 Il lavoro a lungotermine……… 70

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6.1 Trattamento Psicofarmacologico……… 72

6.2 Open Dialogue……… 73

6.3 Gruppi di Auto-aiuto……… 77

Conclusioni e prospettive future ……… 80

Bibliografia……… 85

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Riassunto

L’obiettivo della presente tesi è quello di far luce su un particolare metodo di intervento indirizzato alle c.d. ‘voci’ patologiche, ideato da Cristina Contini (2013), e che prende il nome di “affrontamento”. Un metodo che potrebbe essere suddiviso in tre fasi di lavoro: in primo luogo un’analisi dettagliata delle caratteristiche e del contenuto delle voci per delinearne un profilo (per ogni singola voce sentita dall’uditore), poi l’educazione dell’ uditore al controllo e alla disciplina delle proprie voci attraverso specifichestrategie, e infine, il conferimento di un senso alle voci, che implica la ricerca di una relazione tra esse ed un eventuale trauma. Lo scopo ultimo di questo intervento è quello di portare l’uditore a riappropriarsi della propria vita quotidiana, a vivere quindi in armonia con le proprie voci e con l’ambiente che lo circonda. Questo particolare tipo di intervento si svolge in un minimo di tre colloqui preliminari di valutazione e un successivo intervento di psicoterapia, soprattutto per l’ultima fase che implica una rielaborazione del trauma. Verranno poi descritte, oltre all’approccio psicofarmacologico anche altre tipologie di intervento, che come l’affrontamento, sono approcci centrati sulla persona e sulle voci: Percorsi che possono coinvolgere l’uditore in gruppi di auto – mutuo –aiuto, con esperti per formazione ed esperti per esperienza, come nel caso di Contini, o percorsi che possono coinvolgere l’uditore in altre tipologie di intervento individuale.

In particolar modo, verrà messo a confronto il metodo di Contini (2013) con quello di Romme & Escher (2011), in quanto entrambi hanno lo stesso fine comune, ovvero quello di dare un senso alle voci.

Infine, nelle conclusioni, verrà proposto un progetto di ricerca futuro volto adindagare l’efficacia di questo metodo di affrontamento, che si può configurare come un nuovo e fecondo approccio psicoterapeutico.

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Premessa

Prima di affrontare l’argomento, verranno dedicate due parole a Cristina Contini e all’ origine del suo metodo di affrontamento.

Contini nasce a Carpi, in provincia di Modena, il 9 settembre 1966. All’età di diciotto anni, diplomata in ragioneria, comincia a lavorare presso uno studio notarile. A diciannove anni e mezzo viene ricoverata d’urgenza per un’infezione alle tonsille, che dovevano essere asportate. Doveva essere un’operazione di routine se non fosse che Contini era emofilica. Aveva un emofilia di tipo C, ma nessuno ne era al corrente. E fu proprio a causa di questo motivo, che durante l’operazione, andò in coma per circa un’ora e mezzo. Da quel momento, al suo risveglio, cominciò a sentire le voci (Contini, 2019).

Contini in quegli anni si confrontò con altre persone che vivevano la sua stessa realtà, quella del sentire. Imparò a disciplinarsi, a trovare un equilibrio interiore, un controllo sulle proprie voci. Per lunghi anni, e tuttora, si è messa al servizio degli altri, in quanto esperta per esperienza.

Nel 2003 fu contattata dallo psichiatria Raffaele Pellegrino, il quale le chiese una sua collaborazione per lavorare con un gruppo di pazienti schizofrenici, uditori di voci.

“A suo avviso si poteva lavorare in maniera diversa, provando a parlare con queste persone, a farle confrontare, mettendole di fronte a una situazione soggettiva che però non era isolata” (Contini, 2019, p. 79).

E fu così che nel 2005, nel Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Reggio Emilia, nacque il primo gruppo A. M. A. per uditori di voci, “sul modello degli Alcolisti Anonimi” (Contini, 2019, p. 80), con Contini come facilitatore. I risultati conseguiti con il gruppo furono notevoli, tantoché uno dei membri, Giovanni Ficarelli, divenne egli stesso, più tardi, un facilitatore di gruppi.

Nel 2006 Contini, insieme a Giovanni, decise di diffondere i risultati ad un congresso nazionale di psichiatria, a Genova. E nello stesso periodo, Contini, lo psichiatria Pellegrino, l’educatrice Zanni e alcuni uditori decisero di fondare l’associazione, “Noi e le Voci” (Contini, 2019).

Dopo il congresso, Contini e gli altri, furono chiamati a diffondere la loro esperienza di lavoro in altre ASL, e l’associazione stessa decise di organizzare degli eventi per rendere nota questa nuova modalità di approcciare alle voci. Furono avviate nuove collaborazioni “con le Psichiatrie Italiane, con i Centri di Salute Mentale, le Neuropsichiatrie Infantili, i servizi Psichiatrici di Diagnosi e

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Cura” (Contini, 2019, p. 85), e molti altri professionisti, tra cui molti provenienti dall’ambito pediatrico.

Questo fu soltanto l’inizio di un percorso, che avrebbe portato Contini a fondare nel 2015 l’associazione “Sentire le Voci”, divenuta in seguito “Associazione Nazionale Sentire le Voci”. Tornando di nuovo di qualche anno indietro, nel 2007, con l’associazione “Noi e le voci”, fu organizzato il primo convegno nazionale “Diamo voce alle voci”, a Reggio Emilia. Contini invitò come relatore Ron Coleman, con il quale aveva collaborato più volte, in giornate di formazione nelle ASL:

“il nome più noto a livello internazionale tra uditori di voci e studiosi del fenomeno. Britannico, è stato un malato schizofrenico, così lui stesso si definisce, uditore di voci e tenuto per molti anni isolato in un manicomio. Fu “salvato” da un’infermiera – divenuta poi sua moglie – che gli offrì speranza e fiducia, dove prima c’era solo buio. Riuscito a emergere da una condizione che sembrava immodificabile, grazie alla frequentazione di un gruppo di uditori, fino ad arrivare a controllare le proprie voci, ha iniziato a testimoniare in tutto il mondo la sua storia, diventando formatore e consulente di servizi psichiatrici anche a livello internazionale, oltre che autore di libri e figura richiesta in tutto il mondo” (Contini, 2019, p. 89).

In occasione di quell’evento del 2007, Coleman le propose di partecipare al Congresso di Intervoice in Australia, a Perth, che si sarebbe tenuto l’anno successivo. E così, nel 2008, Contini, insieme a Marcello Macario, uno psichiatria di “Noi e le Voci”, e uno degli uditori dell’associazione, partirono per Perth. C’erano esperti da tutto il mondo:

“dal Giappone, dal Nord America, dalla Nuova Zelanda, dalla Danimarca” (Contini, 2019, p.91), dalla Finlandia e via dicendo.

Tuttavia, dice Contini (2019):

“c’era un comun denominatore ed era quello testimoniato dallo psichiatra olandese Marius Romme, ossia la forte correlazione tra voci ed esperienza traumatica. Ed era per me una conferma del lavoro che dal 2005 stavo portando avanti in ambito psichiatrico” (Contini, 2019, p. 93).

Marius Romme è uno psichiatra olandese che insieme alla moglie, giornalista, Sandra Escher, ha dedicato gran parte della sua vita a studiare il fenomeno delle voci. Inoltre, sono stati i primi a parlare pubblicamente dell’esistenza di questa realtà:

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“Ospiti in una trasmissione televisiva del loro paese, invitarono i telespettatori a telefonare in diretta nel caso in cui sentissero o avessero mai sentito delle voci. In pochi minuti le linee telefoniche vennero intasate. Parlando con alcune delle persone che avevano chiamato, la signora Escher iniziò a porre delle domande, con un classico approccio da giornalista, una sorta di intervista che permise a queste persone di raccontare ciò che nessuno aveva mai chiesto loro: verità, sensazioni, parole” (Contini, 2019, p. 86).

Un approccio all’ascolto, focalizzato sull’esperienza soggettiva dell’uditore, e che si ritrova nel loro metodo descritto nel manuale “Dare un senso alle voci” (2011). Lo stesso tipo di approccio all’ascolto, che Contini utilizza e descrive nel suo manuale di affrontamento “Sentire le voci” (2013).

Viene fatta un’analisi, attraverso l’ascolto dell’uditore, di cosa le voci cercano di dire.

“Nella maggior parte si tratta di casi di persone di cui non si conosce il trauma e questo viene scoperto proprio occupandosi delle voci” (Contini, 2019, p. 95).

Parlando con l’uditore, quindi permettendogli uno spazio di ascolto dov’è libero di potersi esprimere arrivano a comprendere, attraverso una dettagliata analisi, il significato originale delle voci.

Le voci, come verrà mostrato più avanti, possono essere familiari o sconosciute, interne o esterne; possono essere una sola voce o più di una, fino ad arrivare a decine o centinaia di voci; fino ad arrivare, in rari casi, a “2.500 voci al giorno”(Contini, 2019, p. 79).

Contini ha continuato a lavorare fino al 2013 con “Noi e le Voci”, che era diventata l’associazione di riferimento a livello nazionale. Aveva anche organizzato, nel 2011, un terzo convegno internazionale sulle voci a Savona, con ospiti provenienti da tutto il mondo. Tra i tanti relatori vi erano anche Romme & Escher, l’uditrice psicologa Longden e Ron Coleman.

L’associazione, dice Contini:

“era ormai molto inserita anche nell’ambito della formazione per professionisti del settore psichiatrico e della sanità. Tanto che a un certo punto ci trovammo ad avere tra i soci più professionisti che uditori di voci. Facevamo molti convegni, ma non curavamo più, come ho sempre desiderato, uno degli aspetti fondamentali, a mio avviso, del nostro motivo di esistere: l’accoglienza” (2019, p. 108).

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Tra il 2012-2013 scoprì di avere una rara malattia degenerativa: la Sensibilità Chimica Multipla (o MCS, Multiple Chemical Sensitivity), che l’ha costretta ad isolarsi quanto più possibile da smog e fonti di inquinamento per un lungo periodo di tempo. Questo, la malattia, e il fatto che avesse il desiderio di creare una modalità di accoglienza ancor più specifica per gli uditori e i loro familiari, la portò ad allontanarsi definitivamente dall’associazione (Contini, 2019).

Dopo qualche tempo, nel 2015, insieme ad alcuni amici, fondò l’associazione Sentire le Voci, ad oggi “Associazione Nazionale Sentire le Voci”.

Afferma Contini:

“Obiettivo dell’associazione è aiutare concretamente coloro che sentono le voci, con colloqui personali e aiutandoli con strategie di affrontamento e soluzioni utili al controllo. Vogliamo offrire a chiunque la possibilità di esprimersi ed essere ascoltato. Ci occupiamo di accoglienza ai familiari, creando momenti di incontro e condivisione per agevolare la consapevolezza e la conoscenza del problema. Promuoviamo attività formative per i professionisti, dagli psichiatri agli infermieri, e l’apertura di nuovi gruppi di auto – mutuo - aiuto per uditori di voci su tutto il territorio italiano, proprio come quel primo gruppo di Reggio Emilia, da cui tutto partì” (2019, p. 112).

Nella formazione dei professionisti della salute, Contini propone il superamento della diffusa convinzione che non sia possibile aspirare a un completo processo di recovery con persone affette da grave disturbo mentale. Quello che viene proposto, con l’affrontamento, è un processo di

recovery, appunto, che si prefigge l’obiettivo di superare la fase iniziale di stabilizzazione, fino ad

arrivare ad un cambiamento nello stile di vita, cioè rendere la persona capace di vivere la vita di tutti i giorni. La persona deve sentirsi in armonia con se stessa, con o senza voci, e con l’ambiente in cui vive (Contini, 2019).

Come sintetizza lo stesso Romme:

“L’obiettivo più importante non è tanto liberarsi dalle voci, quanto di cambiare la relazione con le stesse” (2011, p.12)

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1. PERCHÉ VOCI E NON ALLUCINAZIONI UDITIVE?

Il presente capitolo cercherà di mettere in chiaro il motivo della scelta di utilizzare il termine voci e non allucinazioni uditive. Partiamo anzitutto dal fatto che, i sintomi psicotici clinicamente più evidenti sono le allucinazioni e i deliri (Luber, 2016). Le allucinazioni uditive, per esempio, sono esperienze percettive che avvengono in assenza di una corrispondente fonte sonora esterna, definite anche come “percezioni senza oggetto”, da Morel e Ball (Sarteschi e Maggini, 1982, p.117). I deliri, invece, sono convinzioni di pensiero radicate, impenetrabili, di contenuto inverosimile, che non sono in sintonia con il contesto culturale, e che anche di fronte all’evidenza del contrario, il soggetto resta comunque assolutamente certo della veridicità del suo pensiero (Sarteschi e Maggini, 1982; Luber, 2016). In entrambi i casi, abbiamo una compromissione del giudizio di realtà. In quanto, il soggetto sente o pensa cose che nella realtà esterna non trovano alcuna conferma.

Questi due sintomi, allucinazioni e deliri, insieme all’eloquio disorganizzato, al comportamento grossolanamente disorganizzato e ai sintomi negativi, sono le condizioni alle quali il DSM-5 (2014) fa riferimento, quando un disturbo ha con sé caratteristiche psicotiche. In altre parole, le allucinazioni uditive sono un sintomo clinico sufficiente, anche se non necessario, ai fini di una diagnosi di un qualsiasi disturbo dello spettro schizofrenico o di altri disturbi psicotici. Come fanno ben notare, gli autori, Pacifico et al. (2008):

“le allucinazioni uditive sono un aspetto così tipico delle psicosi in genere e della schizofrenia in particolare, con una prevalenza media del 60% nei soggetti affetti da disturbo schizofrenico, tanto da essere considerato un sintomo clinicamente rilevante di quest’ultima. Infatti, K. Schneider (1887-1967), annovera l’udire le voci, che commentano i pensieri o le azioni dei pazienti, e voci che conversano con l’individuo in terza persona, tra i sintomi di primo rango (first rank symptoms) utili per far diagnosi di schizofrenia” (p. 416).

Tuttavia, come dimostrato da Romme (1996; 2011), in uno studio cominciato nel 1992 su un campione di 288 pazienti, in cura presso il centro di salute mentale di Maastricht, soltanto un 28% (81 pazienti) aveva allucinazioni uditive e di questo 28% non tutti avevano una diagnosi di schizofrenia, ma anche di disturbo dissociativo, disturbo affettivo, o altri disturbi.

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Questa trasversalità, delle allucinazioni uditive come sintomo, è comunque possibile osservarla semplicemente consultando il DSM-5, o altri testi di letteratura clinica. In quanto, le allucinazioni uditive sono presenti in una grande varietà di disturbi:

I disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici, i disturbi bipolare I e II con caratteristiche psicotiche, il disturbo depressivo maggiore e il disturbo depressivo persistente con caratteristiche psicotiche, il gruppo A dei disturbi di personalità (paranoide, schizoide e schizotipico), i disturbi neurocognitivi con alterazione comportamentale, disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction (DSM-5, 2014); epilessia, disturbo acuto da stress, disturbo post-traumatico da stress, disturbo post-post-traumatico complesso, disturbo borderline di personalità, disturbo dissociativo dell’identità (Ross, 1995/2000; Van der Hart, et al., 2006; PDM, 2007; Romme & Escher, 2011).

Per quanto riguarda la tipologia di voci proposta da Schneider come indicative della schizofrenia, Romme (2011) ha osservato che le caratteristiche formali con cui si presentano le voci (ad es., voci commentanti) non possono essere indicative di un particolare disturbo: Le voci commentanti erano presenti sia nei pazienti schizofrenici che nei pazienti con disturbo dissociativo senza grosse differenze (72% negli schizofrenici e 80% nei pazienti con disturbo dissociativo), mentre nei non-pazienti erano meno frequenti (47%). Anche per quanto concerne le voci sentite in seconda o terza persona non apparivano grosse differenze, anche se quest’ultima risultava essere maggiormente presente negli schizofrenici (per le voci in seconda persona: 94% schizofrenia, 93% disturbo dissociativo, 100% non-pazienti; mentre per le voci in terza persona: 39% schizofrenia, 23% disturbo dissociativo e 27% non pazienti).

Le allucinazioni sono entrate a fare parte dei sintomi psichiatrici dal 1837 con Esquirol, nel trattato Des Maladies Mentales (Pacifico et al., 2008). Kraepelin che con la Dementia Preacox, nel 1883, cercava la causa dei sintomi psicotici in una qualche disfunzione biologica (Fossi e Pallanti, 1998, p. 141-142); Bleuler, nel 1911, che coniò il termine schizofrenia per indicare il ruolo centrale della dissociazione nella suddetta patologia e mettendo in secondo piano i sintomi accessori come le allucinazioni, poiché presenti anche in altre patologie psichiatriche (Fossi e Pallanti, 1998); Jaspers, nel 1913, descrisse il vissuto psicotico, quindi riferendosi anche alle allucinazioni, come fenomeno patologico non comprensibile, in quanto non derivabile psicologicamente e, con ciò, la sua causa doveva essere individuata in una qualche patologia organica (Fossi e Pallanti, 1998; Sarteschi e Maggini, 1982); infine, Schneider, nel 1925, propose tra i vari sintomi di primo livello tre particolari tipi di allucinazione uditiva, come sintomi indicativi della schizofrenia, nonché la psicosi per eccellenza (Fossi e Pallanti, 1998).

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Ad ogni modo, le allucinazioni uditive possono essere riscontrabili anche in persone che non hanno alcun disturbo diagnosticabile o che sono mentalmente sane, come Romme stesso afferma:

“Dalla ricerca epidemiologica fra studenti, come pure dalle indagini sulla popolazione in generale è stato chiaro che non è affatto eccezionale, perfino nella società occidentale, il fenomeno dell’udire le voci in persone normali e mentalmente sane” (2011, p. 18).

Dalla letteratura, infatti, si evince che ci sono molte persone che sentono voci ma che “non sono mai diventate pazienti psichiatrici; persone che non hanno mai avuto bisogno d’aiuto, ma hanno trovato al contrario che le loro voci hanno arricchito le loro vite” (Romme & Escher, 2011, p. 18). Ad esempio, un’analisi di dati fatta da Tien (1991), citata da Romme & Escher (2011), su un campione di 15000 persone, ha mostrato che si avevano allucinazioni nel 10-15% dei casi e di cui solo un 2,3 % uditive, e di questa percentuale soltanto un terzo richiedeva un aiuto medico. Oppure, Ohayon (2002), citato da Pacifico et al. (2008), ha osservato che, su un campione di poco più di 13000 persone, circa il 39% ha avuto allucinazioni uditive almeno una volta nella loro vita. Van Os (2000), ancora citato da Pacifico et al. (2008), ha osservato che, su un campione di poco più di 7000 persone, circa il 6% aveva avuto allucinazioni uditive almeno una volta nella vita.

Questo per dire che non sempre le allucinazioni uditive sono sintomo di malattia. Il DSM stesso lo afferma, sia indirettamente nella definizione di disturbo mentale (Cfr., DSM-5, 2014, p. 22), sia in un paragrafo, nel capitolo dedicato alle condizioni che necessitano ulteriori studi:

una di queste condizioni proposte è la “Sindrome di psicosi attenuata”, dove al primo criterio (A) almeno uno dei sintomi proposti, tra cui anche le allucinazioni, deve essere “presente in forma attenuata, con un giudizio di realtà relativamente intatto” e “di severità e frequenza sufficienti da giustificare attenzione clinica” (DSM-5, 2014, p. 907).

Quindi, viene proposta una categoria diagnostica dove il soggetto potrebbe avere allucinazioni uditive meno gravi di una vera e propria psicosi e avere un insight relativamente intatto, essere cioè più o meno consapevole di avere allucinazioni.

Le allucinazioni che si presentano in forma attenuata, infatti, “sono simili a quelli della psicosi ma sono al di sotto della soglia necessaria alla diagnosi di un disturbo psicotico pieno” (DSM-5, 2014, p. 908).

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Inoltre, è indicato che i sintomi del primo criterio (A) “non sono rari nella popolazione che non esprime una richiesta d’aiuto medico, variando tra l’8 e il 13% per le esperienze allucinatorie e il pensiero delirante” (DSM-5, 2014, p. 909).

Quindi, il DSM sta dicendo che ci sono persone che hanno allucinazioni e che non si rivolgono ad uno specialista, confermando l’idea secondo cui le allucinazioni uditive non sono necessariamente motivo di disturbo mentale, o quantomeno esistono persone che non mostrano altri disagi significativi oltre alle allucinazioni uditive. Per esempio, uno studio di Sidgewick (1984), citato da Romme & Escher (2011), mostrò che solo un 2% di un campione di 17000 persone circa aveva allucinazioni uditive che non potevano essere correlate al sonno. Questo per dire che le voci da sole non possono essere sufficienti per fare una diagnosi di disturbo mentale.

Ci sono altre evidenze, oltre a quella sopracitata, che confermano quanto detto (Romme & Escher, 1989, 1990, 1993, 1996; Posey & Losch 1983; Barrett & Etheridge 1992; Contini 2013; Woods et al., 2015).

Sempre Romme, fa un altro esempio che riconferma il fatto che sentire le voci non sia necessariamente motivo di psicopatologia:

“È stato a lungo noto che udivano le voci eminenti individui, tra cui il filosofo greco Socrate, la badessa tedesca Hildegard Von Bingen, il filosofo e statista Van Swedenborgh, il leader politico e spirituale indiano Mahatma Gandhi e Giovanna d’Arco. Il fatto che individui normali e sani mentalmente udissero le voci metteva in discussione la teoria per la quale il fenomeno fosse di per se stesso un indice di psicopatologia. Ma con questo non si nega che possa portare allo sviluppo di malattia o che possa produrre sintomi di certe malattie psichiatriche. Come D. Bosga (1993) afferma: “Il problema non è tanto la presenza delle voci ma l’incapacità di affrontarle”” (2011, p. 18).

Il DSM ci dà, infatti, come detto in precedenza, una definizione di disturbo mentale (DSM-5, 2014, Cfr., p. 22), che è in accordo con l’affermazione sopracitata di D. Bosga (1993), in quanto le allucinazioni uditive per essere degne di attenzione clinica devono essere causa di un disagio clinicamente significativo o di una compromissione in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

Detto ciò, benché ci siano molte evidenze a sostegno del fatto che le allucinazioni uditive non sempre siano motivo di patologia, esse vengono comunque considerate dalla psichiatria un evento patologico in sé. Un sintomo psicotico che può essere riscontrabile in una grande varietà di disturbi.

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Sta di fatto che, per chi deve approcciarsi a questo mondo (familiare di un uditore o uditore stesso) se dovesse consultare il DSM non avrebbe altre informazioni oltre a quello indicato dal criterio: “Allucinazioni uditive”. Non otterrebbe risposte “sul come, sul dove e quando si sentono le voci” (Contini, 2013, p.106).

Tuttavia, il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) nonostante la sua notorietà a livello internazionale, non è un manuale di psicopatologia, ma piuttosto uno strumento di comunicazione tra clinici per finalità prevalentemente statistiche ed epidemiologiche e solo secondariamente cliniche; può assistere il clinico nella formulazione di una diagnosi, ma soltanto come supporto alla primaria valutazione psicopatologica. L’ utilizzazione esclusiva del DSM a scopo diagnostico sul singolo caso, oltre ad essere una cattiva prassi psichiatrica clinica, non è consigliato, neanche dal DSM stesso:

“La caratterizzazione di ogni singolo paziente deve comprendere un’accurata storia clinica e un riassunto conciso dei fattori sociali, psicologici e biologici che possono aver contribuito allo sviluppo di un determinato disturbo mentale. Di conseguenza, non è sufficiente verificare soltanto la presenza dei sintomi elencati nei criteri diagnostici per porre una diagnosi di disturbo mentale. Sebbene un controllo sistematico della presenza di detti criteri nella modalità in cui si applicano a ciascun paziente assicuri una valutazione più affidabile, la relativa gravità e la valenza dei criteri individuali, nonché il loro contributo ai fini di una diagnosi, richiedono un giudizio clinico” (DSM-5, 2014, p. 21).

Ma tornando alla definizione di allucinazione, il soggetto che deve per la prima volta approcciarsi a questo mondo, se volesse sapere qualcosa di più consultando il DSM-5, che comunque dà una definizione, seppure sintetica, in linea con quella della psichiatria clinica, vedrebbe che è una: “Esperienza simil-percettiva che ha la chiarezza e l’impatto di una percezione reale ma senza la stimolazione esterna dell’organo sensoriale pertinente” (DSM-5, Glossario dei termini tecnici, 2014, p. 950).

Quindi un’esperienza che per il soggetto è percepita come reale, nonostante essa non sia una realtà tangibile per gli altri. Le allucinazioni sono per questo considerate sintomo di psicosi, ovvero di una condizione che compromette l’esame di realtà esterna. Ciononostante, chi vive di queste esperienze può avere o meno un insight intatto e, nella stessa definizione, di cui sopra, troviamo anche che:

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“L’individuo può rendersi conto o meno della natura veritiera dell’allucinazione. Un individuo con un’allucinazione può riconoscere come falsa l’esperienza sensoriale, mentre un altro può essere convintoche sia reale” (DSM-5, Glossario dei termini tecnici, 2014, p. 950).

In questo caso, in realtà, sta facendo riferimento a un altro tipo di fenomeno che la psichiatria definisce come “pseudoallucinazione” (o allucinazione psichica). Questo nome nasce proprio per il fatto di una mancanza dei caratteri sensoriali, che definiscono un’allucinazione vera e propria, ovvero ciò che le conferiscono quella chiarezza e quell’impatto di una percezione reale. Le pseudoallucinazioni sono esperienze vissute come interne alla propria psiche, principalmente voci nella testa (senza suono), che non vengono confuse in alcun modo con la realtà esterna, come invece dovrebbe accadere per le allucinazioni. In altre parole, il soggetto dovrebbe mantenere un giudizio di realtà relativamente intatto, e quindi essere più o meno consapevole del fatto di avere delle voci interne. Ma ciononostante queste “voci” potrebbero essere vissute come non appartenenti alla persona (Sarteschi e Maggini, 1982).

Romme (2011), infatti, fa notare che è importante individuare se il soggetto le attribuisce all’esterno (a qualcun altro o a qualcos’altro), cioè se il sintomo è vissuto come ego-distonico (“non io”); oppure se il soggetto le attribuisce a se stesso, cioè se il sintomo è vissuto come ego-sintonico (“Io”). Questo dovrebbe servire per comprendere come l’uditore percepisce l’esperienza del suo sentire.

Anche nell’allucinosi, per esempio, l’esame di realtà rimane intatto. Il soggetto si rende conto che quello che sta percependo all’esterno non è reale, ma bensì patologico. Questo fenomeno dispercettivo, che si presenta con le stesse caratteristiche dell’allucinazione, si riscontra talvolta nelle psicosi croniche, ma soprattutto nelle patologie organiche cerebrali (Sarteschi e Maggini, 1982).

Ad ogni modo, si distinguono le allucinazioni in base a due criteri principali: il fatto di essere percepite come “non io” e di non avere alcuna corrispondenza con una fonte sonora esterna (Romme & Escher, 2011).

Ciò che sembrerebbe fare la differenza, invece, sostiene Romme (2011), è l’impatto che queste voci hanno sulla vita quotidiana dell’uditore. Proseguendo la sua ricerca, infatti, ha potuto vedere che, se per la maggior parte, i non-pazienti vivevano l’esperienza del loro sentire positivamente (il 79% di 11 non-pazienti), gli altri due gruppi di pazienti la vivevano, principalmente, come un’esperienza negativa (il 67% di 12 pazienti schizofrenici e il 67% di 10 pazienti con disturbo dissociativo). In tal senso, l’impatto che le voci avevano sui non-pazienti era quasi nullo, rispetto a quello che

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percepivano i pazienti. Se il 100% dei pazienti riportava il fatto che le voci rovinassero la loro vita quotidiana, per i non-pazienti c’era soltanto un 20% che riportava una simile condizione (Romme & Escher, 2011). Inoltre, è risultato che l’impatto che le voci avevano sull’uditore aveva molto a che vedere con il senso d’impotenza provato dinanzi ad esse. Infatti, se la maggior parte dei pazienti, (il 72 % di pazienti schizofrenici e il 71% di pazienti con disturbo dissociativo), mostrava un senso d’impotenza dinanzi alle voci, l’87% dei non-pazienti, che non provavano questo senso d’impotenza, sentivano invece di avere una buona capacità di controllo su di esse (Romme & Escher, 2011). Infine, è stato visto anche che il 70% di chi aveva risposto al questionario “Maastricht interview”, associava un qualche evento traumatico alle voci, e in questa percentuale rientravano anche soggetti non-pazienti (il 53% di 8 non-pazienti, rispetto ad un 77% di pazienti schizofrenici e un 100% di pazienti con disturbo dissociativo). Ciò doveva essere una dimostrazione del fatto che sentire le voci non per forza dovesse essere motivo di disturbo mentale e che non sempre subire esperienze traumatiche porta a conseguenze importanti sulla propria vita futura (Romme, 2011). Inoltre, questa ricerca è una dimostrazione del fatto che non sono le allucinazioni uditive, o voci, il problema in sé, ma il modo in cui vengono affrontate.

Un altro fattore da tenere in considerazione è il fatto che le allucinazioni uditive sembrano avere un’importante correlazione con la storia di vita dell’individuo. L’ipotesi della relazione tra trauma e voci è stata fortemente consolidata da molteplici studi. Per esempio, come già accennato, Romme (2011) nella sua prima indagine del 1987, facendo compilare il questionario “Maastricht interview”, notò che circa il 70% degli uditori di voci collegavano il loro sentire con qualche evento traumatico. Romme (2011) ci fa notare che anche Ensink (1992, 1994) avesse notato lo stesso collegamento fra trauma e voci, in un gruppo di 100 pazienti donne. Ancora Romme (2011), approfondì la sua indagine mettendo a confronto pazienti e non pazienti. E ne risultò che la maggioranza dei pazienti (il 77% di 13 pazienti con schizofrenia; il 100% di pazienti con disturbo dissociativo) e poco più della metà dei non pazienti (il 53% di 8 non-pazienti), fossero riusciti a collegare la prima manifestazione del loro sentire con un qualche evento traumatico.

Luber (2016), suggerisce che ci siano almeno tre modi in cui i sintomi psicotici, tra cui anche le allucinazioni uditive, possono essere correlati al trauma:

- La forte comorbilità con il Disturbo post traumatico da stress (PTSD), il quale peggiora i sintomi psicotici e viceversa.

- La stessa esperienza psicotica che può essere vissuta come traumatizzante e portare allo sviluppo di un PTSD.

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- Le esperienze traumatiche che sono un importante fattore di rischio per lo sviluppo di psicosi.

Per esempio, fa notare Luber (2016), è stato visto che la comorbilità del PTSD con la psicosi, per quanto concerne i pazienti psicotici, sia del 12,4-29% rispetto alla popolazione generale (Achim et al. 2011; Buckley et al. 2009; de Bont et al. 2015), che ne mostra, invece, circa un 5% (Kessler, Chiu, Demler e Walters 2005; Mueser et al. 1998; Perkonigg, Kessler, Storz e Wittchen 2000). Oppure, sempre Luber (2016), che il PTSD può portare allo sviluppo di sintomi psicotici e aumentare la possibilità di avere una ricaduta nella psicosi (Mueser et al. 2002).

Tra i vari studi citati da Luber (2016) c’è anche una metanalisi di Varese et al. (2012), che mostra come i traumi subiti nell’infanzia possano quasi triplicare la probabilità che si sviluppi una psicosi in età adulta.

Oppure, un’altra metanalisi di Matheson et al. (2013), sempre citata da Luber (2016), mostra che le persone con diagnosi di schizofrenia rispetto ad altre persone con diagnosi diverse o non-pazienti, abbiano una probabilità 3,6 volte superiore di avere subito un trauma importante in età infantile. E mostrando, inoltre, una forte relazione dose-risposta, tra allucinazioni uditive e trauma infantile, soprattutto abuso sessuale (Luber, 2016; Fernyhough, 2018).

Tuttavia, Fernyhough (2018), fa notare che l’esperienza traumatica non debba essere necessariamente l’unica causa delle allucinazioni e che non sempre aver subito dei traumi porti a tale conseguenza. Egli suggerisce, inoltre, che la dissociazione potrebbe essere quel fattore che determina la conseguenza delle allucinazioni, cioè fungendo da mediatore tra le due.

Per esempio, sempre Fernyhough (2018), riporta uno studio condotto da Bentall e colleghi, il quale andava ad analizzare la relazione tra vulnerabilità alle allucinazioni, tendenze dissociative e trauma infantile, in pazienti con schizofrenia e non pazienti. E i risultati confermarono la dissociazione come mediatore tra trauma e voci.

Questo confermerebbe, ulteriormente, l’ipotesi secondo cui le voci sarebbero il risultato di un meccanismo dissociativo che consentirebbe di distaccarsi dall’esperienza soverchiante del trauma, altrimenti intollerabile (Fernyhough, 2018; Romme, 2011; Contini, 2013; Van der Hart et al., 2006; Ross, 1994). Tuttavia, afferma Fernyhough (2018), ancora non è chiaro il motivo per cui i ricordi traumatici si manifestino sottoforma di voci, ma il meccanismo dissociativo potrebbe quantomeno spiegare perché una voce venga percepita come “non io”.

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Per esempio, secondo Romme:

“Quando un evento traumatico induce anche vergogna o colpevolezza, ad esempio dopo uno stupro, le voci agiscono come una protezione contro questi sentimenti. Può essere più accettabile per la persona essere infastidita dalle voci che ammettere ciò che gli è accaduto” (2011, p. 44).

A questo punto verrebbe da chiedersi, è giusto parlare di allucinazioni uditive, rischiando, quindi, di dare a priori un’accezione di malattia alle voci?

Se parlare di allucinazioni uditive ci porta a pensare ad un sintomo di malattia, e in questo modo, sminuendo anche l’importanza dell’esperienza soggettiva dell’individuo che le esperisce, parlare di voci, invece, consente di far riferimento alla stessa esperienza, senza privarla della sua realtà soggettiva e senza negare il fatto che possa essere sintomo di malattia. Poiché l’individuo che vive di queste esperienze le percepisce come assolutamente reali.

L’approccio suggerito da Contini (2013) e Romme & Escher (2011) è per questo mirato non tanto all’oggettivazione della malattia, come può essere l’approccio della psichiatria clinica, ma piuttosto alla persona e alla sua esperienza soggettiva di malattia, ovvero l’esperienza del sentire le voci. In tal senso, il professionista che tiene conto di queste modalità di approccio all’ esperienza vissuta dal soggetto che sente le voci, cercherà non soltanto di comprendere se le voci sono degne di attenzione clinica, ma cercherà di fare un’analisi dettagliata delle stesse. Una vera e propria indagine sulle caratteristiche e sul contenuto delle voci, e della loro possibile relazione con un eventuale trauma. Quindi, viene concesso uno spazio di ascolto all’uditore, nel quale ha la possibilità di esprimersi liberamente. Un percorso, chiamato da Contini (2013) “affrontamento” e che ha come obiettivo ultimo quello di portare l’uditore a riappropriarsi della propria vita quotidiana, a vivere quindi in armonia con le proprie voci e con l’ambiente che lo circonda.

Ricapitolando, è stato visto che i fenomeni che rientrano nella categoria psicopatologica della ‘allucinazione uditiva’ vengono considerati prevalentemente come sintomo di malattia, che può manifestarsi in una varietà di disturbi mentali. È stato anche sottolineato il fatto che le allucinazioni siano un sintomo di psicosi e che quindi siano espressione della compromissione dell’esame di realtà esterna, ma tuttavia, è possibile avere un insight intatto, ovvero essere consapevoli di avere allucinazioni. In tal senso, è stato detto che in questo caso viene fatto riferimento alle cosiddette pseudo-allucinazioni o allucinosi. Inoltre, le allucinazioni, le “voci”, per essere considerate tali, dovrebbero essere vissute come “non io” e non trovare corrispondenza con alcuna fonte sonora esterna. Tuttavia, allucinazioni o no, ciò che dovrebbe preoccupare è l’incapacità da parte del

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soggetto, uditore di voci, di vivere serenamente la propria vita quotidiana. In merito a quest’ultima possibilità, è stato visto anche che le allucinazioni possono manifestarsi in soggetti che non presentano un disturbo psicotico pieno (ad es. Sindrome di psicosi attenuata), o quantomeno possono manifestarsi in soggetti che non esprimono una richiesta d’aiuto medico, o addirittura che sono mentalmente sane. Di fatto le allucinazioni uditive, per essere degne di attenzione clinica, devono essere causa di un disagio clinicamente significativo o di una compromissione in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

Sia per Romme (2011) che per Contini (2013), le voci non sono considerabili patologiche in sé, ma piuttosto, per loro, è il modo in cui queste voci vengono affrontate che possono conseguentemente portare a una condizione patologica. Quindi, stando alla loro concezione di patologia, le voci sarebbero considerate patologiche dal momento in cui non vi è alcuna sintonia con esse (cioè manca la capacità di affrontarle), mentre non sarebbero considerate patologiche quando vi è, invece, sintonia. Ovvero, quando le voci sono vissute come esperienza essenzialmente positiva e di arricchimento personale. Contini (2013) le definisce, invece, “voci patologiche”, quando sono motivo di malessere, a prescindere da quale possa essere il disturbo mentale in questione. Come afferma Contini:

“La malattia diviene vera malattia quando mette in evidenza il fatto che non si è trovata una risposta al perché si soffre” (2013, p. 178).

E dunque, in merito a quest’ultima affermazione, è stato visto, appunto, quanto la relazione tra trauma e voci sia forte.

L’obiettivo dell’affrontamento è proprio questo: aiutare l’uditore a trovare la sua risposta al perché soffre, in altre parole, è quello di dare un senso alle voci, che non sono altro che le portatrici del trauma.

Infine, è giusto sottolineare, visto e considerato che chi vive di queste esperienze le percepisce come reali, che chiamarle allucinazioni (quindi definendole sintomo di psicosi), sminuisce a priori l’importanza che il soggetto (uditore) dà a tali esperienze, in quanto percepite come voci alla stregua di una qualsiasi altra voce appartenente ad un essere umano.

Chiamarle voci significa dare importanza all’esperienza dell’uditore, perché è così che un uditore le chiama, “voci”.

Infatti, “Un uditore di voci […] quando sente una voce non si chiede cosa essa sia perché, sentendola, non si pone questo dubbio. Semplicemente non si crede, in quell’istante, che vi possa

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essere un’assenza di una stimolazione corrispondente. La voce pronuncia, nella maggior parte delle situazioni, parole esattamente nella medesima forma in cui le pronuncia qualsiasi uomo o donna, bambino o anziano” (Contini, 2013, p. 21).

Quindi, a prescindere dall’etichetta diagnostica (ad es., Schizofrenia) e dal linguaggio medico, “allucinazione uditiva”, l’esperienza del sentire le voci viene attribuita ad una categoria di persone che vengono chiamate “uditori di voci”.

2. CENNI DI NEUROBIOLOGIA DELLE VOCI

Come già visto nel capitolo precedente, un’ipotesi molto solida è quella del collegamento fra trauma e voci. E se le ricerche, che sostengono questa ipotesi, individuano la causa nel trauma (o in un problema sociale o emotivo irrisolto), altre ricerche individuano la causa in una qualche disfunzione biologica, oppure in una qualche alterazione genetica.

Per esempio, in uno studio di Wei e Hemmings (1999), citato da Pacifico et al. (2008), è stato ipotizzato che l’insorgenza delle voci sia dovuta a un coinvolgimento di un gene di un recettore, situato nel nucleus accumbens, che è implicato nel rilascio della dopamina (recettore CCK-A). Un’ipotesi interessante, afferma Cassano (2012), potrebbe essere quella dovuta ad una disregolazione della dopamina, ovvero bassi livelli di dopamina a livello corticale e una conseguente iperattività dopaminergica a livello sottocorticale. Ciò sarebbe dovuto ad una disfunzione dei neuroni glutammatergici della corteccia prefrontale, che provocherebbero una riduzione di rilascio dopaminergico a livello corticale e, per contro, un eccesso dopaminergico a livello sottocorticale, il quale dovrebbe spiegare il motivo dei sintomi positivi della schizofrenia (ad es., allucinazioni e deliri).

Un altro fattore che si lega a questa ipotesi, ancora Cassano (2012), è l’evidenza di una riduzione volumetrica dei neuroni della corteccia prefrontale e ippocampale. Si pensa che questa riduzione volumetrica sia dovuta a un’alterazione del neurosviluppo dell’ippocampo che determinerebbe in età adulta un’alterazione dei circuiti prefrontali, i quali, a loro volta, provocherebbero una disregolazione dopaminergica (la quale dovrebbe, appunto, spiegare il motivo dei sintomi positivi, quali allucinazioni e deliri).

Un’altra possibile spiegazione delle allucinazioni uditive, a partire dall’ipotesi del dialogo interiore, è stata proposta da Fernyhough (2018). Le voci interiori diventerebbero allucinatorie, quando

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l’individuo che sta producendo un frammento di discorso interiore, per qualche ragione, attribuisce erroneamente quel frammento di discorso ad una fonte esterna, cioè percepisce quelle voci interiori come “non io”.

Fernyhough (2018), mostra una serie di ricerche che confermano il fatto che le aree che si attivano durante le allucinazioni uditive sarebbero le stesse che si attivano durante un discorso interiore, ma con alcune differenze, che probabilmente possono spiegare il motivo per cui l’uditore percepisce la voce interiore come “non io”.

Quali sono le regioni coinvolte nel discorso interiore? Principalmente, dice Fernyhough (2018), sono un’insieme di aree situate nel giro temporale superiore (dove si trovano la corteccia uditiva e l’area di Wernicke, ovvero l’area che percepisce il linguaggio), nel giro frontale sinistro inferiore (dove si trova l’area di Broca, ovverol’area che produce il linguaggio) e nel giro frontale mediale. Queste aree si attivano, tipicamente, quando gli individui formulano e percepiscono un discorso ad alta voce.

Fernyhough (2018) successivamente fa riferimento ad alcuni esempi di ricerca che applicano questo modello di linguaggio interiore alle allucinazioni uditive.

In alcuni studi (McGuire et al., 1995, 1996; Shergill et al., 2001), fa notare Fernyhough (2018), è stato osservato un incremento dell’attività cerebrale nell’area di Broca (l’area che si attiva quando si produce il linguaggio interiore), poco prima del manifestarsi delle voci in pazienti schizofrenici. In altri studi (Linden et al., 2011; Raij e Riekki, 2012), fa notare ancora Fernygough (2018), è stata registrata l’attivazione cerebrale delle stesse aree del linguaggio interiore, sia nei soggetti uditori di voci (in questo caso non pazienti), sia nei soggetti non uditori, ma con una differenza nell’attività dell’area motoria supplementare (AMS). Sostanzialmente, nei soggetti non uditori, che immaginavano un dialogo interiore, l’AMS si attivava prima delle aree di ricezione del linguaggio (area uditiva e di Wernicke), per contro, nei soggetti uditori, che sentivano le voci, l’AMS si attivava simultaneamente alle altre aree. In questo senso, dice Fernyhough:

“Ciò conferma l’idea che l’AMS sia la base neurale dell’”intenzionalità” dell’esperienza” (2018, p. 158).

Ovvero, che nel compito immaginativo l’AMS si attivava prima, come per segnalare l’intenzionalità dell’azione (cioè sono io che ho scelto di immaginare il linguaggio interiore). Mentre negli uditori, invece, questo segnale veniva annullato dalla percezione, non volontaria, della voce.

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Altre prove pervengono dalla scoperta di alcune differenze strutturali del cervello, tra uditori di voci e non. Fernyhough ricorda che:

“nel modello del monitoraggio dell’azione proposto da Chris Frith e colleghi, un segnale proveniente dal sistema che produce il linguaggio interiore viene inviato alle aree del cervello deputate all’identificazione del linguaggio, come per dire: “Non prestarci alcuna attenzione; questo sei tu che parli”. Frith sostiene che nella schizofrenia qualcosa va storto nella trasmissione di questo segnale. La parte del cervello “che ascolta” non si aspetta il segnale in arrivo e di conseguenza lo elabora come se fosse una voce esterna” (2018, p. 159).

In relazione a ciò (Fernyhough, 2018), la mancanza di integrità di un particolare tratto di sostanza bianca, ovvero il fascicolo arcuato, sembra essere una buona conferma di questa ipotesi. Il fascicolo arcuato è quel fascio di sostanza bianca che unisce l’area di Broca (da dove parte l’elemento di linguaggio interiore) con quella di Wernicke (dove questo elemento viene percepito). L’area di Broca, nel momento in cui produce un elemento di linguaggio interiore, invia una copia di quell’elemento all’area di Wernicke, detta “copia efferente”, che viene inviata attraverso il fascicolo arcuato. Stando all’ipotesi di Frith, dovrebbe servire per informare l’area di Wernicke che quell’elemento di linguaggio è suo e che quindi non dovrebbe ascoltarlo, cosa che sembra, invece, non accadere negli uditori di voci (che percepiscono tale linguaggio come “non io”; in quanto, per qualche ragione, questa copia del messaggio sembra non arrivare all’area di Wernicke, che rimane quindi ancora attivata, come se stesse ascoltando una voce proveniente dall’esterno). Questa è la ragione per cui l’integrità di questo fascio di sostanza bianca (fascicolo arcuato) è stata messa in relazione alle allucinazioni uditive, cioè per il fatto che ci dovrebbe essere un errore di trasmissione della cosiddetta copia efferente.

Per esempio, Judith Ford e Mathalon (2004), citato da Fernyhough (2018), hanno visto che questa riduzione di attività nell’area di Wernicke, a seguito dell’arrivo della copia efferente, nei pazienti schizofrenici non avviene in modo così evidente, come invece accade nei soggetti sani.

Altri studi (Barta et al., 1990; Levitan et al., 1999), citati da Pacifico et al. (2008), hanno trovato un collegamento tra la riduzione volumetrica del giro temporale superiore, dove sono situate l’area uditiva e l’area di Wernicke, e una maggiore gravità delle allucinazioni uditive.

Un’altra area che sembra mostrare attivazioni insolite, nei soggetti uditori di voci, è la corteccia paraippocampale. In uno studio fMRI di Diederen et al. (2010), citato da Fernyhough (2018), è stato osservato in pazienti uditori (schizofrenici) che, in quest’area, c’è un decremento di attivazione poco prima del manifestarsi delle voci. Dice Fernyhough:

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“Perché mai i sistemi di memoria dovrebbero essere coinvolti in un processo che, teoricamente, coinvolge l’errata attribuzione del linguaggio interiore?” (2018, p. 163).

Come è stato già detto, ci sono delle ovvie ragioni per credere che le voci, in una buona parte dei casi, abbiano molto a che fare con i ricordi del passato, anziché con il dialogo interiore.

3. IL PROFILO DELLE VOCI E LA LORO RELAZIONE CON IL TRAUMA

Questo capitolo ha l’obiettivo di entrare nel vivo dell’argomento, “voci”. Anzitutto, verrà argomentato il fatto che è possibile poter fare un’analisi dettagliata delle voci, di poter fare un vero e proprio profilo per ognuna di esse, come se avessero una propria identità. E verrà, inoltre, argomentato il fatto che ci sia la possibilità di individuare una possibile relazione tra il contenuto e le caratteristiche delle voci, dell’uditore, e le sue esperienze di vita (i traumi).

Fare il profilo delle voci aiuta a comprendere come l’uditore vive la comunicazione. Capire come l’uditore sente le voci, capire il messaggio, a chi è diretto e chi lo sta inviando, è di fondamentale importanza. Sapere che la voce, che parla all’uditore, proviene dall’esterno piuttosto che dall’interno è già l’inizio di un tentativo di comprendere il suo disagio.

Inoltre, conoscere le caratteristiche delle voci, se sono esterne o interne, maschili o femminili, quante sono, e via dicendo, oltre che il contenuto, è importante perché può aiutare a capire quale tipo di trauma è stato vissuto dall’uditore.

Infatti, come verrà argomentato più avanti, Contini (2019) negli anni ha notato che ci sono alcune caratteristiche comuni ad alcune voci, in base al tipo di trauma.

Di fatto, “Il conoscere le caratteristiche delle voci o le parole in esse contenute trasforma l’informazione in affrontamento” (Contini, 2019, p. 96).

L’affrontamento, è suddivisibile in tre fasi di lavoro, tra loro interdipendenti, che hanno lo scopo di portare equilibrio all’interno dell’uditore: un’analisi dettagliata delle caratteristiche e del contenuto di ogni singola voce sentita dall’uditore; insegnare all’uditore a disciplinare le proprie voci attraverso strategie di controllo; e infine, dare un senso alle voci, che implica la ricerca di una relazione tra un eventuale trauma e le voci.

Contini (2019), infatti, sostiene che, dopo lunghi anni a contatto con le voci patologiche, almeno tre persone su quattro hanno un trauma alla base del loro sentire.

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Quindi attraverso l’affrontamento, l’uditore, oltre che imparare ad avere una maggior padronanza sulle voci, acquisirà “una maggiore consapevolezza sulla visione personale del proprio passato e del proprio presente” (Contini, 2013, p. 94).

3.1 Profilo delle voci

Dunque, tornando al primo punto, quali sono le caratteristiche che possono essere identificate per delineare un profilo delle voci di un uditore?

Le voci possono essere una o più di una, fino ad arrivare a decine o centinaia di voci, o, in rari casi, fino ad arrivare a “2.500 voci al giorno” (Contini, 2019, p. 79). Ma indagando sulle caratteristiche, la prima distinzione che si può ottenere è quella tra voci interne ed esterne, cioè due modi completamente diversi di vivere l’esperienza del sentire le voci:

Sentire le voci interne significa percepirle dentro, in qualsiasi parte interna del corpo, “ad esempio, attraverso il respiro, all’interno delle tempie, alla base del cervelletto posteriore, nella parte anteriore frontale, all’altezza del petto, attaccate alle orecchie, ecc.” (Contini, 2013, p.30).

Mentre, sentire le voci provenire dall’esterno significa percepirle fuori dal nostro corpo, “al di fuori di un qualsiasi organo fisico, quindi si possono sentire a destra come alla propria sinistra, anteriormente o posteriormente, dall’alto o dal basso, vicine o lontane” (idem).

Un’ulteriore differenza nell’ottica di questa distinzione è il fatto che chi sente le voci internamente, quindi dentro la testa, le orecchie, il respiro, ecc., “vive nella convinzione distruttiva di esserne veramente il fautore” (Contini, 2013, p. 31), cioè che sia la sua mente a creare queste voci; mentre chi sente le voci esternamente “riesce più facilmente a non dubitare del suo sentire, perché sentendo in modo così distinto e al di fuori di sé, non se ne crede il fautore” (Contini, 2013, p. 30), quindi, più difficilmente crederà che siano frutto della sua mente.

Tuttavia, anche in questo caso, questa convinzione può scemare dal momento in cui un qualsiasi professionista della salute mentale gli faccia una diagnosi di un qualsiasi disturbo che implichi la psicosi.

Il fatto di interessarsi al “come” vengono sentite le voci, quindi di dare la possibilità all’uditore di esprimersi sul come vive la propria realtà, aiuta a delinearne il profilo. Questo dovrebbe consentire all’uditore di comprendersi meglio e allo stesso tempo di sentirsi compreso, e, non meno importante, individuare con più facilità la tipologia di trauma con la quale le voci sono in relazione.

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Di fatto, nella situazione in cui l’uditore chiede ad uno specialista: ““da dove vengono queste voci, Dottore?” E lo specialista risponde: “non provengono da nessuna parte perché è lei che le crea, o meglio la sua mente”; è facile immaginare la sensazione che avverte l’uditore quando si trova di fronte una realtà così violenta” (Contini, 2013, p.31).

Lo specialista in questo modo non consente all’uditore uno spazio di ascolto necessario per potersi esprimere e dà per scontato che non ci sia altro da aggiungere, che non sia necessario fare un’analisi di alcun tipo, giungendo subito, in questo caso, ad una conclusione aprioristica.

Tornando al profilo delle voci, è comunque bene sottolineare il fatto che lo stesso uditore possa avere sia voci interne che esterne, come del resto è possibile avere solo voci interne o solo voci esterne, quindi a maggior ragione conoscere questa differenza è di fondamentale importanza.

Ancora un’altra differenza nell’ottica di questa distinzione è il fatto che un uditore di voci esterne, in una fase delirante, tenderà ad inveire “ad alta voce verso l’esterno [e] per questo picchierà e attaccherà l’ambiente circostante: per scoprirle!” (Contini, 2013, p. 32), mentre un uditore di voci interne, sempre in fase delirante, tenderà a parlare “con se stesso e quand’anche è cattivo e rabbioso lo è solo nei suoi stessi confronti: non farà del male a nessuno” (idem).

Tuttavia, chi sente le voci esternamente non significa che stia meglio di chi le sente internamente. Il problema sta nella mancanza di sintonia con le proprie voci. Il fatto che l’uditore non sia in sintonia con le proprie voci, lo spinge a cercare un nascondiglio che lo possa proteggere da esse, che siano voci provenienti da dentro o da fuori. E questo nascondiglio lo cerca nel vero senso della parola. Per esempio, dice Marco:

”Nella cella in cui sono rinchiuso non è possibile oscurare la stanza perché ci sono solo le inferriate. Ho scoperto che nel buio non sento le voci, così quando sento che stanno per assalirmi mi nascondo sotto alle coperte del letto cercando di fare il massimo buio” (Contini, 2013, p. 34).

Contini (2013), fa notare ancor di più questa differenza facendo l’esempio dell’uditore che sente le voci sott’acqua, partendo anzitutto dal presupposto che anche un sordo, così come qualsiasi persona senza problemi di udito può cominciare a sentire le voci:

“Alla domanda “come le senti nell’acqua”, l’uditore di voci interne risponderà che le sente molto bene, mentre l’uditore di voci esterne dirà che le sente molto lontane” (p. 43).

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Chiarite le differenze tra voci interne ed esterne, il profilo di ogni singola voce dell’uditore può essere ulteriormente delineata. Contini (2013) suggerisce che il profilo che dovrebbe essere fatto per ogni singola voce è il seguente:

“. Nome o identità della voce

. Quando sentita per la prima volta (età dell’uditore) . In quali circostanze

. Età della voce, positiva o negativa . Cosa dice più frequentemente” (p. 164).

Le voci, dunque, fatta eccezione per le loro possibili caratteristiche anagrafiche, possono essere ulteriormente distinte in voci positive o negative in base all’esperienza emotiva, positiva o negativa, che lasciano all’uditore. Il fatto di essere considerate positive o negative dipenderà anche dal contenuto e dalle caratteristiche stesse delle voci: dalla tipologia, dal timbro, dal ritmo, dall’intensità, dalla velocità, dalla distanza, dal fatto che esse siano voci familiari o voci sconosciute e via dicendo.

Ci sono varie tipologie di voci, che per loro caratteristica, possono essere vissute come positive o negative:

Partendo dalle voci tendenzialmente negative, “vi può essere la voce che affligge, nel senso che attacca e si sofferma su un avvenimento o su un fatto per esasperarlo” (Contini, 2013, p. 36). È una voce che può ripetersi per ore con la stessa frase, senza mai fermarsi.

Vi può, inoltre, essere una voce strisciante, detta anche suadente, che “avanza in continuazione, sempre nella propria testa” (Contini, 2013, p. 37). È una voce che lascia esclusivamente sensazioni negative.

Vi può essere una voce, sempre negativa, detta penetrante che “parla in toni molto acuti” (Contini, 2013, p. 37) e a volte è così forte e chiara che può arrestare l’uditore. “È tra le voci che incute maggior paura” (idem).

Un’altra voce tendenzialmente negativa è quella discriminante, che “prende una posizione su una religione o su un’ideologia, rendendo la realtà esattamente opposta a ciò che è” (Contini, 2013, p. 36). È una voce che vuole sempre avere ragione su tutto.

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Per quanto riguarda le voci positive, invece, ci sono le voci mistiche, quindi di contenuto religioso e/o spirituale, che tendono ad avere uno scopo consolatorio.

Un’altra voce è quella che parla per aneddoti. “Chi sente questa voce tende a soprannominarla l’Amica/o” (Contini, 2013, p. 37).

La voce cosiddetta positiva ed ottimista, non rende comunque la vita facile all’uditore, anzi. “La realtà è che questa, pronunciandosi con una ripetitività estenuante, rende difficile il restare lucidi e controllati” (Contini, 2013, idem).

Infine, vi può essere la voce commentante, che è una voce che commenta qualsiasi pensiero o azione dell’uditore (Contini, 2013, ibidem).

Mentre, “le voci alle quali l’uditore sente di non appartenere per nulla sono quelle definite dialoganti” (Contini, 2013, ibidem).

Sono quelle voci, insieme a quelle commentanti, che si ricordano essere tipici della schizofrenia secondo i sintomi del primo rango di Schneider (Romme & Escher, 2011).

Infine, vi può essere una voce esterna che può essere percepita come eco, oppure una voce percepita internamente, come eco mentale (Contini, 2013, p.41).

Va comunque sottolineato che anche nei manuali di psicopatologia viene fatto riferimento a eventuali tipologie di voci che è possibile riscontrare. Ad esempio: voci imperative, teleologiche (cioè che danno consigli di vario genere), dialoganti, commentanti e eco del pensiero (Sarteschi e Maggini, 1982).

Queste caratteristiche, descritte finora, dovrebbero servire a identificare la tipologia di voce. Tuttavia, è possibile identificare altri elementi che caratterizzano l’esperienza positiva o negativa di una voce, per esempio, l’intensità:

“È appunto l’intensità a conferire alle parole pronunciate dalle voci una forza che può essere percepita positivamente quanto negativamente. Alcune di esse, sempre grazie all’intensità con la quale si esprimono, assumono addirittura un accento fonetico” (Contini, 2013, p. 39).

“Nelle voci sconosciute ma soprattutto in quelle di familiari si riconosce molto facilmente il profilo melodico. Nelle parole pronunciate prevale spesso anche la melodia, tanto da percepirne a volte addirittura la dolcezza” (Contini, 2013, idem).

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Le voci hanno anche una durata ed un ritmo. Possono essere rapidissime oppure con ritmi più tranquilli ma persistenti.

“Quando l’uditore ad esempio si esprime con parole del tipo “la voce è martellante”, significa che la voce ha una forma d’espressione altamente ritmica. Per questa ragione, se successivamente gli viene chiesto quale intensità ha, la risposta sarà immediata e riguarderà la forza penetrante con cui la sente” (Contini, 2013, p. 40).

Quindi, in questo caso, l’intensità della voce delinea maggiormente il profilo di una voce penetrante, negativa, e, come già detto, che incute molta paura.

Le voci, come ogni altra, hanno anche un timbro. Identificare il timbro di una voce, oltre che l’intensità, significa sentirla con la massima chiarezza. Il timbro, infatti, come qualsiasi voce siamo abituati ad ascoltare può essere morbido, acuto o profondo.

“Il timbro della voce è strettamente correlato all’emozione che genera” (Contini, 2013, p. 41). “Pertanto un timbro profondo e morbido può generare tranquillità e pace, mentre parole espresse con un timbro acuto possono incutere insofferenza e nervosismo, soprattutto se si tratta di voci penetranti” (Contini, 2013, idem).

Un altro elemento che può essere preso in considerazione con l’uditore, quando lui stesso lo riferisce, è la distanza percepita dalla sorgente della voce.

“Ad esempio, un uditore dice di aver sentito una voce mentre era al cinema che gli diceva “devi morire”: egli mostra evidente inquietudine per l’accaduto, certamente, poiché nonostante la voce fosse esterna, l’ha percepita molto vicina. Lo stesso uditore in un’altra occasione potrebbe esporre un fatto analogo con le stesse parole ma con minore inquietudine in quanto le stesse parole le sente pronunciare “nella stanza accanto”” (Contini, 2013, p. 41).

Quindi, è evidente come la distanza in questo caso incida sulla negatività dell’esperienza. Una voce percepita più vicina incute maggior paura di una voce percepita più lontana, nonostante dica la medesima cosa.

Un altro elemento che caratterizza una voce, esterna o interna che sia, è la velocità. Ad esempio, la troppa velocità con la quale la voce si esprime porta l’uditore a non comprendere, molto spesso, neanche una parola, “al punto di arrivare a far l’esempio di una persona che parla e che vuole dire tantissime cose mangiandosi tutte le parole” (Contini, 2013,p. 44).

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In questo caso può essere consigliato all’uditore, per sentire meglio le parole, “un atteggiamento posturale quasi immobile nei momenti d’ascolto, oppure, cosa più difficile, suggerire di pensare più lentamente” (Contini, 2013, idem).

“È necessario fermarsi fisicamente e focalizzarsi su ciò che viene avvertito, un pezzo alla volta, una voce alla volta” (Contini, 2013, ibidem).

Come dice Contini (2013), il percorso di guarigione con l’uditore

“è come una scala: si fa un gradino alla volta, si identifica una voce alla volta, si analizza una voce alla volta e si parla con una voce alla volta” (p. 45).

Dunque, delineare il profilo di ogni singola voce dovrebbe consentire di individuare le varie identità che possono assumere le voci e aiutare l’uditore a rapportarsi con esse che, seppur difficile, è l’obiettivo di questo percorso, chiamato da Contini (2013) “Affrontamento”.

Per concludere questa prima parte, è importante sottolineare il fatto che il fine ultimo dell’affrontamento non è non voler sentire più le voci, perché potrebbe non essere ciò di cui l’uditore ha bisogno, ma piuttosto riuscire a vivere in armonia con esse. Per esempio, dice Anna: ”Avevo voci consolatorie e voci spiacevoli, molto spiacevoli. All’inizio non volevo ascoltarne nessuna, ma poi quella positiva mi ha aiutato a trovare le differenze tra loro e così mi spiegò chi ascoltare e come ascoltare” (Contini, 2013, p. 48).

3.2 Relazione tra trauma e voci

La ragione per cui viene cercata questa relazione è quella di voler aiutare l’uditore a dare un senso alle voci, cioè comprendere il significato che sta dietro a esse. La ricerca di questa relazione non è una ricerca a caso. Anche lo stesso Romme (2011) fa notare che in una sua indagine iniziata nel 1987 “circa il 70% di coloro che avevano compilato il questionario aveva avuto qualche esperienza traumatica che loro collegavano con l’udire le voci (Romme & Escher 1989, 1993)” (p. 27).

Sempre Romme (2011), menziona un lavoro di Ensink (1992, 1994), il quale “stabilì chiaramente lo stesso collegamento durante una ricerca su un gruppo di 100 donne (tutte pazienti) che avevano subito degli abusi” (Romme & Escher, 2011, idem).

Read et al. (2005) ha pubblicato una review su 180 studi concludendo in questo modo:

“I sintomi considerati indicativi di psicosi e schizofrenia, in particolar modo le allucinazioni, sono fortemente correlate all’abuso e alla trascuratezza infantile, così come per altri problemi di salute

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