• Non ci sono risultati.

Open Innovation: uno studio esplorativo sulle start-up italiane

M

ARIA

A

LBANO*

M

AURIZIO

C

ESARANI

N

ORMAN

L

UBELLO 

Obiettivi. La letteratura sull’Open Innovation prolifera di studi sull’adozione del paradigma da parte delle

grandi imprese, tralasciando la prospettiva delle start-up. Sebbene studi precedenti abbiano individuato diversi vantaggi ottenibili dall’implementazione dell’Open Innovation, non vi è sufficiente evidenza empirica tale da suggerire che il paradigma sia stato riconosciuto dall’ecosistema delle start-up. Il presente lavoro contribuisce a colmare tale gap esplorando l’adozione del paradigma da parte delle start-up operanti nel settore della ricerca scientifica, con particolare riferimento alla gestione delle relazioni con differenti tipologie di partner, intesi quali fonti di knowledge, e ai processi di outside-in e inside-out. Lo studio evidenzia inoltre alcune criticità e limiti legati ai processi di Open Innovation nelle start-up. Da ultimo, la ricerca contribuisce all’avanzamento della letteratura sull’Open Innovation con riferimento al panorama italiano, contesto in cui lo studio del paradigma è ancora latente.

Metodologia. Data la carenza di contributi teorici e di evidenze empiriche sul tema dell’Open Innovation nelle

start-up, lo studio adotta una metodologia qualitativa di tipo esplorativo. Questo tipo di metodologia, infatti, risulta particolarmente indicata per i temi ancora poco approfonditi, per i quali non esiste una letteratura consolidata. Per indagare il fenomeno si è scelto di raccogliere i dati attraverso l’invio di un questionario alle start-up appartenenti al settore della ricerca scientifica, e iscritte nel Registro delle Imprese delle Camere di Commercio Italiane, nella sezione ‘Start-up innovative’. Tale Registro, aggiornato al 7 marzo 2016, offre una sezione speciale dedicata alle start-up innovative, classificate sulla base di 5 settori e 73 tipi di attività. Abbiamo quindi selezionato quelle imprese che operano nella ricerca scientifica, riducendo la popolazione totale da 5983 a 832 start-up localizzate in tutte le regioni italiane. La scelta di questa tipologia di start-up è legata al fatto che esse hanno un ruolo cruciale nel cosiddetto ‘fuzzy front end’ del processo innovativo, fungendo da fornitori di knowldege e tecnologie per gli altri attori facenti parte dell’ecosistema dell’Open Innovation. Assunto che il Registro delle imprese non fornisce direttamente informazioni di contatto, queste sono state recuperate, se presenti, dai siti web di ciascuna start-up sulla lista. Pertanto abbiamo individuato le informazioni di contatto (indirizzo e-mail o form on-line) solo per 491 start-up su un totale di 832.

L’indagine è stata strutturata e realizzata secondo il metodo di progettazione di Dillman (2007), che consente di ottenere un elevato tasso di risposta riducendo costi e tempi necessari allo svolgimento dell’indagine. In primo luogo, nel giugno 2016, abbiamo invitato, tramite e-mail, le start-up a partecipare alla ricerca, spiegando l’obiettivo della stessa e fornendo un apposito link predisposto per la compilazione del questionario on-line. Successivamente per quelle start-up sprovviste di indirizzo e-mail istituzionale, abbiamo richiesto la compilazione del questionario mediante l’uso dei form on line presenti sui rispettivi siti web. Il questionario è composto da 19 domande a risposta chiusa a scelta multipla, organizzate in 6 sezioni. Complessivamente abbiamo ricevuto risposte utilizzabili da 61 imprese.

Risultati. Le domande del questionario sono state formulate sulla base della letteratura relativa al tema

dell’Open Innovation (Chesbrough, 2004; Chesbrough e Crowther, 2006). Non esistendo, ad oggi, una letteratura specifica su Open Innovation e start-up, si è fatto riferimento in particolare ai contributi teorici che analizzano il paradigma nel contesto delle piccole e medie imprese (Lubello et al., 2015; Lee et al., 2010; van de Vrande et al., 2009; Vanhaverbeke et al., 2012; van der Meer, 2007; Spithoven et al., 2013). Questi studi confermano che le imprese di piccole dimensioni intraprendono diverse pratiche di Open Innovation e che questo ha un impatto positivo sulle performance (Drechsler e Natter, 2012; van de Vrande et al., 2009; Parida et al., 2012; Brunswicker e Vanhaverbeke, 2015). Le principali tematiche emerse dalla letteratura e quindi affrontate nella definizione del questionario sono: i processi di outside-in e la relativa sindrome NIH (not-invented-here), i processi di inside-out e l’attitudine al revealing ed infine la gestione delle relazioni.

La moderna complessità tecnologica, caratterizzata da un crescente numero di tecnologie per prodotto e i sempre più brevi tempi a disposizione della R&S, ha generato una forte pressione sulle imprese innovative (Howells et al., 2004; Brondoni, 2012). Per far fronte a tali difficoltà è sempre più diffusa la tendenza ad aprire i confini organizzativi in favore di un più facile assorbimento di quella conoscenza generata e custodita al di fuori dell’impresa. Diventa fondamentale quindi l’approvvigionamento di quell’insieme di knowledge e tecnologie che siano coerenti con il business model, con il conseguente consolidamento della parte sinistra del funnel di Chesbrough (Chesbrough, 2003).

*

Assegnista di ricerca in Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Milano-Bicocca e-mail: [email protected]

Assegnista di ricerca in Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Milano-Bicocca e-mail: [email protected]

Dottore di ricerca in Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Milano-Bicocca e-mail: [email protected]

Tale approvvigionamento di conoscenze è l’essenza stessa dei processi di outside-in, i quali sono direttamente connessi al business model, che è a sua volta lo strumento grazie al quale l’impresa crea valore e riesce ad appropriarsi di parte di quel valore generato.

I processi di outside-in sono legati all’assorbimento di flussi di risorse provenienti dall’esterno con lo scopo di ampliare la base di conoscenze dell’impresa e accelerare il processo innovativo. Una start-up infatti deve saper superare le carenze nella propria dotazione di risorse finanziarie e commerciali, e al tempo stesso compensare la disparità del potenziale di marketing e commercializzazione verso le grandi imprese. Tale gap può essere colmato attraverso la definizione di una pluralità di relazioni, instaurate con diversi partner, volte a integrare il processo innovativo (Bougrain e Haudeville, 2002; Edwards et al., 2005; Dahlander e Gann, 2010; Lee et al., 2010; Rahman e Ramos, 2010). In un simile contesto l’Open Innovation si concretizza attraverso l’istituzione di un network, che permette alle start-up di appropriarsi di flussi informativi e di knowledge, di cogliere i cambiamenti in atto nel mercato rafforzando il proprio vantaggio competitivo (Bougrain e Haudeville, 2002; Cesarani, 2014).

Dal set di domande relative ai processi di outside-in è emerso inizialmente che il knowledge necessario alla realizzazione di un nuovo prodotto/servizio deriva prevalentemente da personale interno, sebbene la quota relativa alle relazioni con attori esterni sia importante, pari a oltre il 20%. Per quanto riguarda il grado di apertura verso le consulenze esterne, sono emersi dati molto positivi, che superano il 90% nel caso di ambiti affini al proprio dominio di ricerca e si attestano poco sopra il 72% nel caso di ambiti diversi. I partner privilegiati delle start-up intervistate sono università (80,3%), piccole e medie imprese (68,9%) e centri di ricerca (69,9%); sebbene la qualità del knowledge delle PMI sia considerata inferiore rispetto a quella delle altre due categorie e delle grandi imprese. Per quanto riguarda la localizzazione dei partner, infine, la maggior parte è situata in Italia (63,9%), ma sono presenti anche partner europei (26,2%) ed extra-europei (9,8%).

In seguito sono stati analizzati i vantaggi e i limiti connessi alla gestione delle relazioni inter-organizzative. I maggiori vantaggi riguardano l’accesso a nuove conoscenze, la riduzione dei tempi di sviluppo di nuove competenze, e la riduzione dei costi di ricerca e sviluppo. Tra i principali svantaggi sono emersi: difficoltà nel coordinare differenti metodi di lavoro, elevati costi monetari legati alla gestione delle relazioni, e la percezione di inferiorità delle conoscenze del partner.

Una volta analizzate le principali motivazioni che spingono le imprese ad aprire i propri processi innovativi, l’indagine focalizza l’attenzione su quegli elementi volti ad ostacolare tale dinamica, in favore di una chiusura dei confini dell’impresa. In letteratura tale effetto moderatore viene identificato prevalentemente nel filone di ricerca relativo alla sindrome Not invented here, o NIH (Lichtenthaler e Ernst, 2006; Katz e Allen, 1982). I processi di tipo outside-in vertono sulla disponibilità culturale dell’impresa ad accettare idee e conoscenze sviluppate esternamente e pertanto, il concetto stesso di openness dipende da un’attitudine positiva nel riconoscere una complementarietà con il knowledge generato dai partner, intesi quali fonti essenziali di conoscenza per il processo di innovazione (Enkel, 2010). Diverse imprese hanno fallito l’approccio al paradigma di Chesbrough in quanto hanno creato, spesso involontariamente, una barriera tra la R&S interna e quanto invece è presente nell’ambiente circostante. Pertanto la sindrome NIH consiste nel diffidare dalle conoscenze e risorse provenienti da attori esterni, poiché percepite come inferiori rispetto a quelle sviluppate internamente. Tale sindrome può essere senza dubbio assimilata alle start-up di ricerca scientifica. Esse, infatti, sono costituite da ricercatori e scienziati, figure di elevato profilo accademico e professionale, che basano i propri risultati sulla validità scientifica delle proprie ricerche. Pertanto è ragionevole esplorare la possibilità che anche queste realtà possano essere reticenti al confronto con altri partner, e quindi all’adozione di un processo innovativo che consideri idee e knowledge esterne quali di pari livello a quelle prodotte internamente. Dall’analisi di questa tematica, nella valutazione del grado di apertura nell’acquisizione di knowledge dall’esterno, la maggioranza delle imprese rispondenti (62,3%) si è definita “aperta”, il 36,1% “attiva” e solo il 1,6% “diffidente” nei confronti di tale opportunità.

Le start-up oggetto di indagine evidenziano, inoltre, una certa difficoltà nell’individuazione del partner. In particolare, il 57,4% dei rispondenti afferma di incontrare spesso criticità nell’identificazione dei partner più idonei; mentre il 29,5% sostiene di incontrarne sempre. Per quanto riguarda la ricerca del partner, essa è affidata nella stragrande maggioranza dei casi alle conoscenze personali, seguono le iniziative e/o programmi istituzionali, e gli incubatori ed acceleratori.

Infine risultano di particolare interesse i processi di inside-out, volti a completare l’adozione del paradigma dell’ Open Innovation. Difatti, la posizione a monte del processo innovativo di tali start-up fa si che esse abbiano un prevalente ruolo di fornitori di knowledge piuttosto che di acquirenti. In particolare si è deciso di indagare l’atteggiamento delle start-up nei confronti del revealing, tema connesso alla letteratura in materia. Tale attività consiste nel cedere la propria tecnologia senza un immediato corrispettivo monetario, ma anzi con l’obiettivo di benefici indiretti, di natura reputazionale e relazionale. Il tema trova le sue origini nel filone di ricerca relativo all’elettronica, più specificamente all’ open source software (Torrisi, 2004; Lerner e Tirole, 2002; Henkel, 2006; West, 2003). Risulta pertanto opportuno esplorare una sua inferenza anche ad altri domini di ricerca. Nell’analizzare questo aspetto emerge una forte somiglianza ai settori precedentemente studiati in letteratura. Infatti circa il 56% dei rispondenti sarebbe disposto a cedere la propria tecnologia gratuitamente al pubblico, avendo come controprestazione un beneficio reputazionale. È altresì alta la percentuale (67%) di quelle imprese che ricorrerebbero al revealing solo quale rimedio al fallimento nella commercializzazione della suddetta tecnologia. Nonostante i risultati dimostrino una predisposizione verso il revealing, tra gli svantaggi derivanti dalla gestione delle relazioni emerge in primis il timore di un comportamento opportunistico da parte del partner. La letteratura sostiene che nelle relazioni tra imprese il

OPEN INNOVATION: UNO STUDIO ESPLORATIVO SULLE START-UP ITALIANE

paradox of disclosure (Arrow, 1962) possa essere uno dei principali elementi inibitori. Secondo tale paradosso un licensor che cede una tecnologia, è tenuto a fornire delle informazioni sensibili al licensee, il quale potrebbe agire opportunisticamente, specialmente se di dimensioni e potere di mercato molto più ampi (Dahlander e Gann, 2010). Infatti, la disparità di risorse tra le due imprese può essere tale da rendere vano un tentativo di rivalsa legale in caso di appropriazione indebita. Codeste difficoltà sono tipiche dei processi di inside-out e potrebbero rappresentare ostacoli insormontabili nell’adozione integrale dell’Open Innovation.

A completamento dei processi inside-out vi è la tematica relativa ai brevetti. La letteratura sul ruolo della proprietà intellettuale nel contesto dell’Open Innovation può essere divisa in due filoni principali. Secondo il primo la gestione della proprietà intellettuale (IPR) rappresenta uno strumento atto a facilitare l’appropriazione del valore generato. Secondo una diversa interpretazione invece, la formalizzazione di brevetti condiziona negativamente il grado di apertura del processo innovativo (von Hippel e von Krogh, 2006; Baldwin e von Hippel, 2011). L’indagine conferma quanto affermato dal primo filone: oltre il 70% dei rispondenti afferma che l’uso di brevetti faciliti lo sviluppo di relazioni con i partner. Tuttavia tale risposta può essere fortemente influenzata dal contesto normativo e dal settore di competenza dell’impresa rispondente.

Le start-up indagate dimostrano quindi di avere una buona propensione ai processi di inside-out, anche se la formalizzazione di una struttura ad hoc quale l’ufficio di trasferimento tecnologico (TTO) è avvenuta per meno del 15% delle imprese. Sicuramente, il fatto di non avere un TTO limita la possibilità di sfruttare a pieno lo scambio di flussi di knowledge, e ditutelare la posizione di licensor nelle transazioni aventi per oggetto la proprietà intellettuale.

Limiti della ricerca. Lo studio è di tipo esplorativo e i risultati ottenuti dall’indagine sono difficilmente

estendibili a tutta la popolazione delle start-up innovative. Pertanto tali risultati potrebbero essere impiegati per la formulazione di nuove ipotesi e quindi per ulteriori sviluppi teorici. Future ricerche, qualitative e quantitative, sono necessarie per una più profonda comprensione e analisi dell’Open Innovation nelle start-up, sia in termini di processi che di attori coinvolti, con particolare riferimento alla selezione dei partner. Un ulteriore limite è legato alla difficoltà nel contattare le start-up oggetto di indagine per l’invio del questionario, a causa della mancanza delle informazioni di contatto o della totale assenza di un sito web. Inoltre vi è una carenza in una più precisa identificazione della figura esatta del rispondente e del suo ruolo all’interno dell’impresa, sebbene l’organico di queste start-up sia mediamente al di sotto delle quattro persone. Infine, le tematiche proposte nel presente studio in forma aggregata potrebbero essere oggetto d’indagine di un case study basato su una singola start-up, al fine di indagare più nel dettaglio le interazioni tra questa e i propri partner. Infatti, per ottenere un riscontro empirico di tematiche connaturate nella cultura d’impresa, per il quale la sindrome NIH funge da perfetto esempio, può essere più opportuno uno studio qualitativo di medio-lungo periodo.

Implicazioni pratiche. Lo studio presenta alcune implicazioni pratiche, fornendo ai manager alcuni suggerimenti

e una fotografia di una situazione reale contestualizzata nella realtà italiana. L’indagine evidenzia che le start-up adottano il paradigma dell’Open Innovation, attraverso la costruzione di un network costituito da una pluralità di partner quali grandi imprese, università, piccole e medie imprese, centri di ricerca, incubatori/acceleratori, comunità di utenti ed infine, altre imprese di dimensioni analoghe. Lo studio porta alla luce i principali benefici e sfide conseguenti a un’organizzazione strutturata a network. Emergono inoltre delle criticità legate alla difficoltà nell’individuare il partner idoneo, e più in generale alla gestione della relazione. L’adozione del paradigma risulta ancora in stato embrionale, e manca di un processo formalizzato in figure professionali o uffici dedicati alla gestione della proprietà intellettuale, forse a causa dell’endemica carenza di risorse cui sono soggette tali realtà aziendali. Questa considerazione è supportata dall’assenza del TTO nella stragrande maggioranza delle imprese, sebbene vi sia un riconoscimento della proprietà intellettuale quale strumento facilitatore nello scambio di knowledge. Dall’indagine condotta emerge l’importanza di istituire un ecosistema in grado di connettere efficacemente gli attori coinvolti, anche grazie al supporto di figure dedicate (interne o esterne) che fungano da intermediari e che favoriscano la costruzione e la gestione delle relazioni.

Originalità del lavoro. Il presente lavoro rappresenta un avanzamento negli studi sull’Open Innovation

approfondendo l’adozione del paradigma nella realtà delle piccole e medie imprese, in particolare mediante la prospettiva delle start-up. Nonostante, infatti, la letteratura abbia ampiamente analizzato il paradigma nelle grandi imprese, ad oggi questa ricerca rappresenta una delle prime indagini condotte sulle start-up innovative nel contesto italiano, fornendo interessanti spunti di riflessione per i manager e futuri sviluppi di ricerca per gli studiosi.

Parole chiave: Open Innovation; start-up; inside-out; outside-in; network; knowledge

Bibliografia

ARROW K. (1962), “Economic welfare and the allocation of resources for invention”, in Nelson R. (a cura di), The

Rate and Direction of Inventive Activity: Economic and Social Factors, National Bureau of Economic Research,

Princeton University Press, Princeton.

BALDWIN C., VON HIPPEL E. (2011), “Modeling a paradigm shift: From producer innovation to user and open collaborative innovation”, Organization Science, vol. 22, n. 6, pp. 1399-1417.

BOUGRAIN F., HAUDEVILLE B. (2002), “Innovation, collaboration and SMEs internal research capacities”,

BRONDONI S.M. (2012), “Innovation and Imitation: Corporate Strategies for Global Competition”, Symphonya.

Emerging Issues in Management, n. 1, pp. 10-24.

BRUNSWICKER S., VANHAVERBEKE W. (2015), “Open innovation in small and medium-sized enterprises (SMEs): External knowledge sourcing strategies and internal organizational facilitators”, Journal of Small

Business Management, vol. 53, n. 4, pp. 1241-1263.

CESARANI M. (2014), “Competitive dimension of outsourcing relations in global networks”, Journal of Management

Policies and Practices, vol. 2, n. 4, pp. 97-112.

CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation, Harvard University Press, Cambridge, MA.

CHESBROUGH H. (2004), “Managing open innovation”, Research Technology Management, vol. 47, n. 1, pp. 23-26. CHESBROUGH H., CROWTHER A.K. (2006), “Beyond high tech: early adopters of open innovation in other

industries”, R&D Management, vol. 36, n. 3, pp. 229-236.

DAHLANDER L., GANN D. M. (2010), “How open is innovation?”, Research Policy, vol. 39, n. 6, pp. 699-709. DILLMAN D.A. (2011), Mail and Internet surveys: The tailored design method-2007 Update with new Internet, visual,

and mixed-mode guide, John Wiley & Sons.

DRECHSLER W., NATTER M. (2012), “Understanding a firm's openness decisions in innovation”, Journal of

Business Research, vol. 65, n. 3, pp. 438-445.

EDWARDS T., DELBRIDGE R., MUNDAY M. (2005), “Understanding innovation in small and medium-sized enterprises: a process manifest”, Technovation, vol. 25, n. 10, pp. 1119-1127.

ENKEL E. (2010), “Attributes required for profiting from open innovation in networks”, International Journal of

Technology Management, vol. 52, n. 3/4, pp. 344-371.

HENKEL J. (2006), “Selective revealing in open innovation processes: The case of embedded Linux”, Research Policy, vol. 35, n. 7, pp. 953-969.

HOWELLS J. (2006), “Intermediation and the role of intermediaries in innovation”, Research policy, vol. 35, n. 5, pp. 715-728.

KATZ R., ALLEN G. (1987), “Investigating the Not Invented Here (NIH) syndrome: A look at the performance, tenure, and communication patterns of 50 R&D Project Groups”, R&D Management, vol. 12, n. 1, pp. 7-20. LEE S., PARK G., YOON B., PARK J. (2010), “Open innovation in SMEs-An intermediated network model”,

Research Policy, vol. 39, n. 2, pp. 290-300.

LERNER J., TIROLE J. (2002), “Some simple economics of open source”, The Journal of Industrial Economics, vol. 50, n. 2, pp. 197-234.

LICHTENTHALER U., ERNST H. (2006), “Attitudes to externally organising knowledge management tasks: a review, reconsideration and extension of the NIH syndrome”, R&D Management, vol. 36, n. 4, pp. 367-386.

LUBELLO N., ALBANO M., GORDINI N. (2015), “Il ruolo delle PMI nei processi di Open Innovation” Atto di

convegno IV Workshop I Processi Innovativi nelle Piccole Imprese: Re-positioning of SMEs in the Global Value System, Urbino, Italy.

PARIDA V., WESTERBERG M., FRISHAMMAR J. (2012), “Inbound Open Innovation Activities in High-Tech SMEs: The Impact on Innovation Performance”, Journal of Small Business Management, vol. 50, n. 2, pp. 283- 309.

RAHMAN H., RAMOS I. (2010), “Open Innovation in SMEs: From closed boundaries to networked paradigm”, Issues

in Informing Science and Information Technology, vol. 7, n. 4, pp. 471-487.

SPITHOVEN A., VANHAVERBEKE W., ROIJAKKERS N. (2013), “Open innovation practices in SMEs and large enterprises”, Small Business Economics, vol. 41, n. 3, pp. 537-562.

TORRISI S. (2004), “Innovazione tecnologica, competenze e strategie competitive delle imprese. Il caso del software”,

Sinergie, n. 64-65, pp. 301-329.

VAN DE VRANDE V., DE JONG J.P.J., VANHAVERBEKE W., DE ROCHEMONT M. (2009), “Open innovation in SMEs: Trends, motives and management challenges, Technovation, vol. 29, n. 6-7, pp. 423-437.

VAN DER MEER H. (2007), “Open Innovation - The Dutch Treat: Challenges in Thinking in Business Models”

Creativity and Innovation Management, vol. 16, n. 2, pp. 192-202.

VANHAVERBEKE W., VERMEERSCH I., DE ZUTTER S. (2012), “Open innovation in SMEs: How can small

companies and start-ups benefit from open innovation strategies?”, Flanders DC study, Leuven, Belgio.

VON HIPPEL E., VON KROGH G. (2006), “Free revealing and the private-collective model for innovation incentives”, R&D Management, vol. 36, n. 3, pp. 295-306.

WEST J. (2003), “How open is open enough?: Melding proprietary and open source platform strategies”, Research

Sinergie - Sima 2017 Conference Conference Proceeding

Value co-creation: management challenges for business and society ISBN 97888907394-9-1

15-16 June 2017 - University of Napoli Federico II (Italy) DOI 10.7433/SRECP.EA.2017.24

Le capacità di collaborazione e apprendimento nel processo