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La vita quotidiana all’interno di un gruppo di estrema sinistra strutturato e organizzato quale erano le Brigate Rosse, era inevitabilmente scandita da una ferrea disciplina e da tutta una serie di regole di comportamento la cui accettazione - indispensabile alla permanenza nel gruppo – era legata in buona parte a incentivi ideologici; alla certezza che ogni sforzo personale rappresentava un passo in più verso la realizzazione del progetto rivoluzionario dell’organizzazione. Esplicative di quanto appena detto sono le parole di una delle ex brigatiste:

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«assumevi una serietà dovuta alla vita che facevi, perché chiaramente non potevi fare l’una di notte rischiando che ti beccassero con documenti falsi, quindi per forza dovevi rientrare alle otto di sera. Purtroppo c’era una disciplina necessaria; una persona che è una nottambula come me figurati quando avrebbe potuto rimpiangere, invece, facendolo con scelta non ti pesava, nel senso, facevi la rivoluzione, pensavi che comunque stavi facendo qualcosa che pensavi fosse utile a costruire la rivoluzione» (Intervista a C.).

Allargando la riflessione alla questione delle differenze tra uomini e donne nella scelta della lotta armata e nel modo di viverla, G. ha risposto: «io, in qualche maniera penso di si perché siamo state - noi, le compagne – […] voglio dire, noi come donne siamo state il portato massimo che ha messo insieme libertà femminile, quindi, pensiero di genere e pensiero di classe» (Intervista a G.). È sempre lei a ribadire che, nelle Brigate Rosse, «la parità si faceva nei fatti!» e, principalmente, attraverso una militanza in cui le donne erano attive e protagoniste tanto quanto gli uomini. Tutto ciò probabilmente, sostiene la ex brigatista, era il risultato di una più forte coscienza rivoluzionaria acquisita nel corso delle lotte per l’emancipazione femminile:

«senza fare paragoni, ovviamente, inopinati, però per capire che cosa è cambiato nella società dalla lotta al nazifascismo in poi con la lotta per la libertà delle donne, mentre nella Resistenza, nella situazione eccezionale della lotta partigiana le donne venivano trattate alla pari o quasi alla pari, anche se facevano tutte le staffette e raramente avevano ruoli di combattenti, quando poi ritornavano a casa ridiventavano le massaie schiavizzate dal compagno […] invece per noi non era così, perché eravamo già il frutto del punto più alto di emancipazione e di ricerca della libertà femminile, venivamo da quel ciclo di lotta, c’era una tendenza a voler rompere certi schemi…eravamo tutte donne libere, che lavoravano, che avevano

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una coscienza rivoluzionaria e quindi avevano educato i compagni […] Almeno nell’ultimo periodo, diciamo così, la mano della libertà femminile e del pensiero di genere era più evidente di quanto non potesse essere in un primo momento, ecco; perché c’era stata più elaborazione» (Intervista a G.).

Il ricordo delle donne della Resistenza viene rievocato anche da Barbara Balzerani la cui testimonianza su questo punto merita di essere riportata per intero:

«Dal punto di vista delle donne, parlo delle Brigate Rosse naturalmente, io credo che questa sia stata un’esperienza anche diversa da quelle precedenti, tipo, le donne della Resistenza eccetera. Questa è effettivamente un’esperienza in cui le donne sparavano come gli uomini; non mi sembra di ravvedere all’interno un segno particolare dato dalla presenza femminile […] non entravamo dentro l’organizzazione portandoci dietro anche una funzione di mogli, di madri, come per esempio è successo nel periodo della Resistenza in Italia, noi non eravamo quelle che in clandestinità continuavano anche questo tipo di funzione oltre, ovviamente, a quella politica. Noi eravamo nella fase – perché poi le cose cambiano – in cui non facevamo la staffetta o la porta ordini, noi eravamo delle militanti e delle dirigenti politico-militari tanto quanto i compagni […] Certo, dopodiché, io ho assistito al conflitto fra i sessi, l’ho anche patito, l’ho anche…l’ho combattuto in prima persona…non è che fosse il Comunismo le Brigate Rosse; non è che fosse il superamento di tutti questi tipi di contraddizione» (Balzerani, documentario Bianconi 1997).

Probabilmente, la lotta armata, ha rappresentato un “terreno neutro”, un’esperienza politica in cui realmente il problema della parità tra i sessi non si poneva; e non perché ignorato, ma perché, appunto, neutralizzato da una militanza totalizzante che richiedeva dedizione e impegno assoluti:

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«quel tipo di vita lo permetteva perché non esisteva una competenza, cioè, non esisteva quella che faceva una cosa e quello che ne faceva un’altra; ognuno di noi era portatore e portatrice di una linea politica che assommava assieme il politico e il militare, dentro questa cosa ognuno aveva la sua funzione e il suo grado di responsabilità; non si stava a guardare se era un uomo o una donna» (Balzerani, documentario Bianconi 1997).

Le parole delle mie intervistate non fanno che confermare quanto espresso da Balzerani: «nella lotta clandestina, vivendo nelle case, il problema del piatto, davvero, c’era poco e niente, perché tu rischiavi la vita con quella persona assolutamente alla pari!» (Intervista a G.). All’interno dell’organizzazione «la vita era una vita comunitaria, vivevi insieme…era una vita di comunità, di convivenza, con tutti i pro e tutti i contro di una convivenza. Potevi litigare, potevi…”chi lava i piatti?” o “chi cucina?”…si litigava!»; poteva capitare di:

«percepire, appunto, l’essere donna o l’essere uomo rispetto, poi, alla vita quotidiana, a rapporti anche tra compagni singoli, ma non come struttura non ho mai percepito questa differenza! Erano i compagni, poi, più autorevoli, quelli, appunto, più in grado di dare…di dare linea politica che guidavano la cosa. Che fossero maschi o femmine!» (Intervista a C.).

Altrettanto interessante è la risposta che Paola Besuschio – brigatista della “prima generazione” – ha dato alla domanda del giornalista Sergio Zavoli circa il significato di essere donna all’interno delle Brigate Rosse:

«Essere donna nelle Brigate Rosse! Detto così è come affermare l’esistenza di una divisione dei ruoli. All’interno delle Brigate Rosse, per quella che è stata la mia

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esperienza e quella dei compagni in quegli anni, non c’era divisione dei ruoli. Vivevamo tutti quanti con gli stessi compiti e con l’entusiasmo di una vita in comune» (Besuschio in Zavoli 1992, p. 106).

La ribellione e la lotta per superare le discriminazioni e le limitazioni basate sull’appartenenza di genere sembra aver caratterizzato, più che il rapporto di queste donne con i compagni di militanza, quello con i loro padri: «ho dovuto rompere gli schemi solo con mio padre. Non con i compagni! Ci sono state riunioni in cui eravamo più donne che uomini!» (Colloquio informale).

È proprio nel rapporto con i compagni che una ex militante riconosce «il segno indelebile di una radicalità di scelte di vita di uomini e di donne, una radicalità che più che in ogni altra esperienza politica da me vissuta prima riusciva ad attenuare discriminazioni e subordinazioni, anche sessiste» (Balzerani 2013, p. 67).

4.4 «Ero disposta a farlo per un tornaconto che mi travalicava»: