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4.6 «Il segno profondo della galera»: L’arresto e il carcere

Per tutti i militanti della lotta armata «l’arresto fu vissuto come una censura irreversibile dell’iter rivoluzionario, oltre che della vita» (Galfrè 2014, p. 150). Con l’arresto si conclude l’esperienza della militanza, ma inizia una nuova fase, quella del carcere, la cui «vera sofferenza, torsione dell’anima» consiste nel fatto che «tu non decidi della tua vita!» (Intervista a C.) e di cui «rimane il segno profondo […] che comunque ti connota in maniera molto precisa rispetto agli altri» lasciandoti «una quota di emarginazione che uno continuerà comunque a portarsi dietro. Non si attraversa impunemente un’esperienza simile» (Balzerani, documentario Bianconi 1997).

Il «potere inglobante» (Goffman 2010) di questa istituzione totale «è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione» (Goffman 2010, p. 34). Quanto scritto da Erving Goffman riecheggia nelle parole di una delle mie intervistate che racconta:

«in carcere tu non hai niente! È una parete spoglia – carcere speciale eh! dove stai da solo, perché noi avevamo una cella singola – e con telecamere dappertutto, come a Voghera, porte blindate, lo sgabelletto inchiodato al pavimento, così come il tavolo tutto di formica, uno specchio di plexiglass perché non si può avere niente di…e…ogni cosa – siccome sei chiuso in cella ventiquattro ore su ventiquattro – ti aprono solo per andare in un cortile con filo spinato e telecamere e con guardie armate che ti controllano per due ore al giorno, se tu hai le misure di sorveglianza particolari, come all’epoca le ho avute io» (Intervista a G.).

«La violenza dell’istituzione totale» spiega un’altra intervistata «è la violenza, appunto, del fatto che vivi in una istituzione totale, per cui non sei tu che decidi della tua vita! […] E devi chiedere permesso per tutto […] tu

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sei una cosa, un elemento, non sei considerata una persona, ehm….è ovvio che questo ti pesta, ti ferisce e ti fa violenza, insomma» (Intervista a C.). La forte limitazione delle possibilità di scambio sociale e la perdita di ogni contatto con il mondo esterno fanno del carcere una realtà nella quale, inevitabilmente, si modifica la percezione del tempo e il modo di comunicare con gli altri. A spiegarlo bene è Geraldina Colotti in un passaggio del libro Certificato di esistenza in vita: «in carcere le distanze tendono all’irreversibile dilatazione, e anche il tempo talvolta sembra sconvolto e rivoluzionato, secondo leggi che fuori non avrebbero alcun senso». Il carcere, scrive ancora Colotti «ti abitua a un unico linguaggio incomunicabile che si presenta sotto le spoglie d’una inconfondibile litania. Una volta fuori la canzoncina si stempera, ma l’eco ti rimane dentro come una muffa» (Colotti 2005, pp 35-36).

Durante il periodo della clandestinità la probabilità di finire in galera viene in qualche modo accettata come una fase della lotta armata e quando prende forma la “sconfitta”, tale finale appare addirittura inevitabile. Questa consapevolezza, spesso, può aiutare il militante a prepararsi psicologicamente ad affrontare una prova che, seppur prevista sin dall’inizio, quando si verifica si rivela comunque durissima: «quando sei già nel pieno di una sconfitta e ti rendi conto già da un po’ di tempo che la rivoluzione non si può fare da ora per domani, anche il tuo modo di attrezzarti per esistere è diverso» (Intervista a G.); l’intervistata racconta, quindi, di aver affrontato il carcere

«in fondo, con molta tranquillità, anche con tanta ironia! Io infatti ho scritto tante cose nelle carceri rifacendomi alla modalità che mi è consona sin da quando ero piccola che è quella dell’autoironia, del guardare al mondo anche con un…così con un certo distacco» (Intervista a G.).

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Altrettanto significative appaiono le parole di un’altra ex brigatista che spiega:

«io ho passato sei anni in clandestinità abbastanza, come dire, abituata a pensare che prima o poi qualcuno mi avrebbe arrestato perché…non poteva essere in eterno questa cosa, per cui ero abbastanza preparata» (Intervista a C.).

Il senso dell’esperienza della detenzione e dei ricordi ad essa legati è descritto con estrema chiarezza da Anna Laura Braghetti, nei suoi scambi epistolari con la militante di estrema destra Francesca Mambro: «quindici anni di carcere su una persona che non ne aveva ancora ventisei quando vi è entrata rappresentano ampiamente un terzo della sua vita. Anni che sono stati vissuti, ma il cui racconto si confonde in giornate in cui era d’obbligo darsi degli impegni per ricordarle una diversa dall’altra» (Braghetti in Braghetti-Mambro 1995, p. 63).

Un vissuto che porta con sé le tracce di due esperienze – la lotta armata e il carcere – che hanno avuto delle inevitabili ripercussioni sull’esistenza di coloro che le hanno vissute e che sono connotate negativamente dalla società, è sicuramente difficile da elaborare e da “portare con sé”; talvolta, lo si può inconsapevolmente sottoporre a una sorta di censura psicologica difensiva:

«io per anni questa esperienza carceraria l’ho sempre definita in questi termini: “il carcere non mi ha fatto male”. L’ho vissuto bene e l’ho – cioè con dolore – ma comunque bene e non ho avuto drammi particolari dalla chiusura carceraria. Bene, tutto questo ragionamento, questa consapevolezza mia me la son portata dietro per anni e si è sfaldata in un attimo quando sono andata da una psicoterapeuta che mi ha detto “non ci siamo proprio! Perché tu sei stata in una istituzione totale e come la

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metti la metti ti ha segnato!” tu manco lo percepisci!”. E lì poi, in effetti, con lei mi son resa conto di una serie di cose a cui non avevo assolutamente badato. E lei mi ha detto che è giusto così perché quella è stata la mia salvezza…» (Intervista ad A.).

Il carcere, se per molti militanti ha rappresentato un periodo di riflessione sfociato nella presa di distanza dalla lotta armata, nella dissociazione e, talvolta, anche nel pentitismo, per altri, al contrario, si è configurato come luogo del reclutamento oppure di “rafforzamento” ideologico. La testimonianza di Isabella Ravazzi – moglie di un altro brigatista, Enrico Fenzi – ne è l’esempio più calzante:

«nel ’79 ci sono questi tredici mesi di carcere nei quali ovviamente io conosco una serie di brigatiste; Enrico conosce Curcio e Franceschini […] Il carcere è il veicolo per farci conoscere – per esempio nel mio caso – dalle brigatiste ed Enrico dai brigatisti. È paradossale, ma per moltissimi giovani o un po’ meno giovani, per moltissime persone, il carcere diventa veramente la possibilità concreta di un arruolamento, diciamo» (Ravazzi, archivio DOTE, pp.43-44)18.

Infine – come già accennato nelle pagine precedenti – nel carcere si apre una fase di insistenza sulla maternità, almeno da parte di alcune; mentre per altre la propria identità di donne è ancora riposta nella politica e «sarà proprio nell’accettazione delle differenze tra donne – e non nell’imitazione di modelli maschili – che si profilerà una nuova consapevolezza di essere soggetti femminili e un nuovo modo di ripercorrere la propria storia» (Passerini, 1988, p.204)

In generale, si può sostenere che nella vita quotidiana della vita carceraria non vi era più soltanto la mediazione dell’ideologia rivoluzionaria, ma

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bisognava «attingere a risorse interiori» (Zanetti 1997, p.289). In un certo senso, è proprio durante il periodo di detenzione che le ex militanti sembrano avere avviato un percorso di «recupero dell’integralità del proprio passato e del proprio essere; condizione necessaria per poter affrontare un futuro diverso da quello non più raggiungibile attraverso la pratica della lotta armata» (Zanetti 1997, p. 289).

4.7 «Finisci seduta sulle macerie che questa storia ha lasciato»: Il